home / Archivio / Fascicolo / Contrattazione collettiva e lavoro autonomo dopo il d.lgs. n. 81/2015
indietro stampa articolo leggi fascicolo
Contrattazione collettiva e lavoro autonomo dopo il d.lgs. n. 81/2015
Chiara Lazzari (Assegnista di ricerca dell’Università di Urbino)
Il saggio analizza il ruolo della contrattazione collettiva nel lavoro autonomo alla luce delle novità introdotte dal d.lgs. n. 81/2015 in materia di collaborazioni autonome e lavoro a progetto, sia al fine di interrogarsi sugli spazi che il legislatore può riconoscere alla negoziazione collettiva in funzione derogatoria rispetto alla legge, sia per riflettere su come il nuovo quadro normativo possa incidere sullo sviluppo delle pratiche contrattuali nell’ambito ricordato, in termini di sostegno alle stesse o, al contrario, di ostacolo al loro consolidamento.
This paper analyzes the role of collective bargaining in self-employment according to the changes introduced by Legislative Decree No. 81/2015, related to freelance collaborations and project-work contracts. In particular, it focuses on two points: the question about the spaces that the legislator may confer to collective bargaining notwithstanding the law, and the problem of how the regulatory framework can affect the development of contractual practices in the mentioned context, in the sense of a support of the same practices or, on the contrary, as obstacle to their consolidation.
Keywords: trade union, collective bargaining, self-employment
Articoli Correlati: sindacato - contrattazione collettiva - lavoro autonomo
1. Premessa
Il ruolo della contrattazione collettiva nel lavoro autonomo costituisce un tema poco indagato tra i giuslavoristi, per l’intuitiva ragione data dallo scarso sviluppo di tale pratica al di fuori della tradizionale area del lavoro subordinato. Del resto, la scelta di alcuni sindacati europei di escludere espressamente la possibilità di un allargamento della propria rappresentanza all’ambito in questione [1] non può non ripercuotersi negativamente sulla comparsa, o il consolidamento, di un’azione di tutela ascrivibile al genus del contratto collettivo. Tuttavia, in Italia un certo attivismo da parte delle maggiori confederazioni si è registrato anche su questo fronte, con la costituzione – quasi un unicum nel panorama europeo [2] –, a partire dal 1998, di organismi di rappresentanza ad hoc (Nidil-Cgil, Alai-Cisl, Cpo-Uil), la cui eredità è stata successivamente raccolta, per quanto riguarda in particolare Cisl e Uil, da nuovi soggetti, frutto di processi riorganizzativi e fusioni, queste sì assai diffuse in Europa [3], e identificati come vere e proprie federazioni di categoria (ossia, rispettivamente, Felsa-Cisl e Uiltemp). Negli anni, infatti, la loro attività si è concretizzata, tra l’altro, nella firma di decine di accordi collettivi, specie di livello aziendale e territoriale, a favore dei collaboratori coordinati e continuativi, anche a progetto.
Non è questa la sede per riprendere tentativi di sistemazione organica, già compiuti altrove [4], di un fenomeno che comunque appare non così irrilevante all’interno delle confederazioni d’appartenenza come si potrebbe pensare: i dati del tesseramento relativi al 2013 indicano come la Felsa contasse all’epoca 43.796 iscritti, ben oltre i numeri raggiunti da altre federazioni della Cisl; similmente, al 31 dicembre 2014, Nidil, con i suoi 73.413 associati, risultava una delle poche categorie della Cgil a crescere, e in modo consistente, segnando l’8,55% di tesserati in più rispetto all’anno precedente.
In questo contributo, piuttosto, si vuole condurre un discorso più strettamente giuridico, a partire dall’analisi delle novità, rilevanti ai fini che qui interessano, introdotte dal d.lgs. n. 81/2015 in materia di collaborazioni autonome e lavoro a progetto. E ciò per interrogarsi, in primo luogo, sugli spazi che il legislatore può legittimamente riconoscere alla contrattazione collettiva in modo da attribuirle un ruolo sintonico con i principi portanti dell’ordinamento giuslavoristico e, in seconda battuta, per riflettere su come il nuovo quadro normativo possa incidere sullo sviluppo di tale fenomeno nell’ambito del lavoro non subordinato, in termini di sostegno al medesimo o, al contrario, di ostacolo al suo consolidamento; sempre ammesso, e non concesso, che, nel ginepraio originatosi a seguito del citato decreto, sia possibile giungere ad una qualche conclusione definitiva.
2. Le ipotesi escluse dall’applicazione dell’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015: in particolare, l’art. 2, comma 2, lett. a)
Com’è noto, con riguardo alla fattispecie del lavoro a progetto, il legislatore del 2015 delinea un sistema destinato a determinarne il progressivo superamento, sulla scorta di quanto già anticipato dalla legge delega (art. 1, comma 2, lett. b), n. 3 e comma 7, lett. g) a proposito delle collaborazioni coordinate e continuative, che, però, come si vedrà, risultano tutt’altro che espunte dall’ordinamento. Infatti, l’art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 stabilisce l’applicazione, a decorrere dal 1° gennaio 2016, della disciplina propria del rapporto di lavoro subordinato altresì alle collaborazioni che si concretino in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e con modalità di esecuzione organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro [5], a meno che le commissioni di cui all’art. 76, d.lgs. n. 276/2003, cui le parti si siano rivolte, non certifichino l’assenza dei predetti requisiti (art. 2, comma 3).
La previsione va combinata con il successivo art. 52, d.lgs. n. 81/2015, secondo cui “le disposizioni di cui agli articoli da 61 a 69 bis del d.lgs. n. 276/2003 sono abrogate e continuano ad applicarsi esclusivamente per la regolazione dei contratti già in atto alla data di entrata in vigore del presente decreto” (comma 1), restando in ogni caso fermo quanto statuito dall’art. 409 c.p.c. (comma 2). In altri termini, è fatta salva la competenza del giudice del lavoro per una serie di controversie concernenti, tra l’altro, per quanto qui interessa, i rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato (art. 409, comma 1, n. 3, c.p.c.), permanendo, pertanto, la possibilità, anche dopo il 1° gennaio 2016, di stipulare i relativi contratti, senza, tuttavia, che sia più richiesta la presenza di uno specifico progetto e senza che risulti ovviamente più applicabile la disciplina di tutela finora prevista dal d.lgs. n. 276/2003 [6]. Ciò purché non ricorrano gli elementi che caratterizzano le prestazioni come rapporti di lavoro soggetti alla regolamentazione propria di quello subordinato, ai sensi dell’art. 2, comma 1.
Non è sicuramente questa la sede per affrontare la spinosa questione della collocazione sistematica, e della tutela giuridica, da riconoscere al lavoro autonomo svolto in condizioni di dipendenza economica [7], del resto nemmeno menzionato, almeno in questi termini, nell’ambito delle norme ricordate [8]. Certo è che l’idea ispiratrice della riforma in esame – stretta com’è fra i due poli, da un lato, dell’assorbimento delle collaborazioni etero-organizzate nella disciplina del lavoro subordinato e, dall’altro, del superamento del lavoro a progetto – non depone a favore di una soluzione di tali problematiche complessiva e davvero appagante (oltre che in grado di sciogliere i molti nodi interpretativi ed applicativi nella distinzione fra subordinazione ed autonomia, anziché crearne di nuovi [9]. Né si intende qui discutere se la formulazione del citato art. 2, comma 1, risulti troppo inclusiva, o, al contrario, eccessivamente escludente [10].
Piuttosto – e al di là di ogni considerazione circa la ragionevolezza dell’intero programma riformatore e la sua coerenza rispetto alle menzionate previsioni della legge delega, stante il perdurante mantenimento in vita delle “vecchie co.co.co.” – merita rimarcare che proprio quanto previsto nell’art. 2, comma 1, non riguarda in ogni caso le eccezioni specificate nei successivi commi 2 e 4, ossia: le collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali, stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, prevedano discipline specifiche concernenti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore (comma 2, lett. a); quelle prestate nell’esercizio di professioni intellettuali per le quali sia necessaria l’iscrizione in appositi albi professionali (comma 2, lett. b); le attività svolte, nell’esercizio della relativa funzione, dai componenti degli organi di amministrazione e di controllo delle società e dai partecipanti a collegi e commissioni (comma 2, lett. c); le collaborazioni rese, a fini istituzionali, in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate o agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal CONI (comma 2, lett. d)); quelle concluse dalle pubbliche amministrazioni, fino al completo riordino della disciplina dell’utilizzo, da parte delle stesse, di contratti di lavoro flessibile, fermo restando il divieto di ricorrere ai rapporti di cui all’art. 2, comma 1, a partire dal 1° gennaio 2017 (comma 4).
In proposito, non possono tacersi i problemi posti da tale elencazione, oltretutto così eterogenea da rendere complicata finanche l’individuazione di una ratio unificante delle varie ipotesi considerate. Benché perplessità analoghe siano sollevabili con riferimento a tutte le previsioni ricordate, tuttavia, in ragione delle finalità del presente contributo, e della maggiore rilevanza rispetto alle altre, vale la pena soffermarsi sulla disposizione che legittima le parti sociali ad escludere dalla normativa tipica del lavoro subordinato prestazioni che, secondo l’art. 2, comma 1, potrebbero esservi invece soggette. E ciò specie sotto il profilo del rispetto del principio d’indisponibilità del tipo contrattuale, a meno che la scelta, operata dal citato art. 2, comma 1, di riferirsi all’ambito applicativo della disciplina propria del lavoro subordinato, anziché procedere direttamente ad una ridefinizione della relativa fattispecie, possa considerarsi sufficiente a prevenire simili obiezioni [11]. Non a caso, in dottrina c’è chi rimarca come, proprio per evitare sonore bocciature ad opera della Corte costituzionale, quale quella del 1993 su cui ci si soffermerà a breve, il legislatore abbia scelto, per l’appunto, la strada dell’“applicazione senza qualificazioni”, in altri termini “senza dire quel che ‘è’ o ‘non è’” [12].
Tuttavia, il fatto che si tratti di una regolamentazione che formalmente opera dalla parte delle tutele, piuttosto che da quella delle fattispecie [13], non sembra poter fornire automaticamente la soluzione di ogni problema, stante l’imprescindibile necessità d’individuare a quale ambito applicativo riferire le garanzie estese e, dunque, in ultima analisi, la tangibile difficoltà di ridistribuire le tutele ignorando pragmaticamente le fattispecie cui imputarle [14]. Per altro verso, secondo certa dottrina, l’art. 2, comma 1, solo apparentemente si limiterebbe a non incidere sulla definizione di lavoro subordinato e ad applicare la relativa disciplina a rapporti di diversa natura, risultandone, piuttosto, nella sostanza, un allargamento della nozione di subordinazione, ora comprensiva tanto delle collaborazioni etero-dirette quanto di quelle etero-organizzate [15].
In ogni caso, prima di giungere a qualsivoglia conclusione, pare opportuno considerare più da vicino in che cosa consista il c.d. principio d’indisponibilità del tipo.
3. La questione dell’indisponibilità del tipo: le sentenze della Corte Costituzionale degli anni ’90 e quella del 2015
In proposito, punto di partenza non possono che essere le famose sentenze della Corte costituzionale 29 marzo 1993, n. 121 e 31 marzo 1994, n. 115 [16].
Com’è noto, la prima ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 legge n. 529/1961 (Disciplina del rapporto di lavoro del personale estraneo all’Amministrazione dello Stato assunto per le esigenze dell’attività specializzata dei servizi del turismo e dello spettacolo, informazioni e proprietà intellettuale), nella parte in cui la norma si applica altresì ad incarichi aventi ad oggetto prestazioni di lavoro subordinato, escludendo anche per essi il diritto al trattamento di previdenza e di quiescenza e all’indennità di licenziamento, in violazione dell’art. 36, comma 1, Cost.
Tale sentenza – e, segnatamente, il passaggio secondo cui “non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato” – è richiamata anche dalla seconda pronuncia della Corte poc’anzi ricordata, la quale, pur rigettando la questione di legittimità della norma scrutinata in virtù di un’interpretazione della medesima costituzionalmente orientata [17], precisa che “a maggior ragione non sarebbe consentito al legislatore di autorizzare le parti ad escludere direttamente o indirettamente, con la loro dichiarazione contrattuale, l’applicabilità della disciplina inderogabile prevista a tutela dei lavoratori a rapporti che abbiano contenuto e modalità di esecuzione propri del rapporto di lavoro subordinato”. Pertanto, “allorquando il contenuto concreto del rapporto e le sue effettive modalità di svolgimento – eventualmente anche in contrasto con le pattuizioni stipulate e con il nomen jurisenunciato – siano quelli propri del rapporto di lavoro subordinato, solo quest’ultima può essere la qualificazione da dare al rapporto, agli effetti della disciplina ad esso applicabile”.
La precisazione conferma, dunque, che, pur operando sul piano dei tipi contrattuali, i limiti derivanti dal principio in questione risultano funzionali alla realizzazione degli effetti perseguiti [18], ossia l’applicazione della normativa giuslavoristica di protezione. Non a caso, in dottrina si evidenzia come sarebbe maggiormente corretto parlare di vincoli alla possibilità di disporre per l’appunto degli effetti, più che delle fattispecie [19]. Ciò, a maggior ragione, considerando che l’art. 2094 c.c. non pare norma costituzionalizzata, sì che al legislatore non sarebbe vietato intervenire per modificare i caratteri dei tipi storicamente regolati [20], dovendo quanto affermato dalla Corte essere inteso nel senso d’impedire allo stesso legislatore – una volta definita la fattispecie cui corrisponde una certa disciplina di tutela – di sottrarre all’applicazione di quest’ultima rapporti riconducibili alla prima.
Più di recente, la Consulta ha avuto modo di riaffermare il principio con la pronuncia del 7 maggio 2015, n. 76 [21]. Anche in questo caso – pur non essendosi pervenuti ad alcuna dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 53 legge n. 740/1970 (Ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell’Amministrazione penitenziaria), censurato dal giudice rimettente, in riferimento agli artt. 3, comma 1, 36, comma 1, 38, comma 2, Cost., in quanto avrebbe qualificato come lavoro autonomo rapporti che la legge regola sostanzialmente come subordinati – la Corte ha ribadito che “lo statuto protettivo, che alla subordinazione si accompagna, determina, quale conseguenza ineludibile, l’indisponibilità del tipo negoziale sia da parte del legislatore, sia da parte dei contraenti individuali”, ricoprendo detto principio “un ruolo sistematico di rilievo, sia nell’opera adeguatrice dell’interprete, sia nel vaglio di costituzionalità demandato a questa Corte”.
Proprio alla luce di tali ultime affermazioni, occorre chiedersi in che termini esso si rifletta sull’interpretazione degli artt. 2, comma 1 e comma 2, lett. a). E ciò anche qualora si ritenga – accogliendo un’opzione ermeneutica assai lodevole negli intenti, ma forse eccessivamente ampia – che la subordinazione di cui parla la Consulta vada intesa in senso atecnico, cioè valga ad “indicare il rapporto economico sociale che, in tutte le forme in cui si manifesti, i valori costituzionali dell’uguaglianza, della dignità umana e della solidarietà sociale impongono di tutelare”, derivandone per il legislatore – che pure avrebbe la possibilità di escludere talune categorie dalla nozione di subordinazione nel suo significato classificatorio – il vincolo ad assicurare comunque le tutele minime che la Costituzione ricollega ai rapporti di lavoro personale. Invero, anche – rectius: ancor di più – in tale prospettiva assiologica, ne conseguirebbe “la violazione del principio di indisponibilità degli effetti … laddove l’art. 2, comma 2 consente all’autonomia collettiva e al legislatore di “ritrattare” l’attuazione della garanzia minima d’istituto da taluni rapporti di lavoro esclusivamente personale muniti dei tratti tipologici di cui all’art. 2, comma 1” [22].
4. Segue: I riflessi sull’interpretazione dell’art. 2, comma 1 e comma 2, lett. a), d.lgs. n. 81/2015
In considerazione di ciò, pur essendo indubbiamente vero che la regola (ossia l’art. 2, comma 1) non può essere interpretata a partire dall’eccezione (cioè l’art. 2, comma 2, lett. a)), pena un errore metodologico [23], è evidente come il sistema complessivamente considerato – costituito, in altri termini, di regola ed eccezione – non possa porsi in contrasto con i principi fondanti, di matrice costituzionale, dell’ordinamento giuslavoristico, in primis, ai fini che qui interessano, quello dell’indisponibilità del tipo lavoro subordinato (tecnicamente inteso) [24] e della disciplina tipica che ad esso corrisponde. Sicché, e ferme restando le inevitabili perplessità suscitate da un intervento che sembra complicare, anziché semplificare, la già intricata questione della qualificazione della fattispecie, tra le tante ricostruzioni possibili pare dover essere privilegiata quella che riesca a tenere insieme, in un quadro coerente e costituzionalmente legittimo, il significato della regola e dell’eccezione, anche alla luce della ratio dell’intervento legislativo. Quest’ultima sembra da ricondurre alla volontà di applicare maggiori tutele alle collaborazioni “morfologicamente contigue al lavoro subordinato”, secondo la formula utilizzata nella relazione d’accompagnamento allo schema di decreto. In quest’ottica, il legislatore introduce un elemento aggiuntivo – per l’appunto quello, di nuovo conio, ma non del tutto sconosciuto alla giurisprudenza, dell’etero-organizzazione [25] – che giustificherebbe l’estensione della disciplina propria del lavoro subordinato altresì al di fuori dell’area disegnata dall’art. 2094 c.c.
Non pare, quindi, possa dirsi ampliata la nozione di subordinazione, anche perché, qualora si trattasse di una categoria di rapporti riconducibili all’alveo del lavoro subordinato, potrebbe derivarne l’illegittimità, proprio per violazione del principio d’indisponibilità del tipo, dell’art. 2, comma 2, lett. a), laddove si ritenesse che esso valga ad attribuire alle parti sociali il potere di sottrarre all’applicazione della normativa giuslavoristica di protezione rapporti che altrimenti risulterebbero inclusi in essa [26] (a meno di sostenere – ma qualche dubbio sulla razionalità del sistema sarebbe allora concesso – che la legittimità costituzionale delle esclusioni possa affermarsi alla luce dell’esistenza, nel nostro ordinamento, di una nozione di subordinazione “parzialmente disponibile”, in virtù della quale solo l’art. 2094 c.c. stabilirebbe il campo di operatività delle tutele di rango costituzionale intangibili dal legislatore e dall’autonomia privata, individuale e collettiva, mentre i confini tracciati dall’art. 2, comma 1, risulterebbero mobili [27]. D’altra parte, affermare – per evitare d’incorrere nella violazione ricordata – che ai soggetti collettivi non sia dato escludere in toto la disciplina di tutela propria del lavoro subordinato, ma solo rimodularla, articolarla, specificarla [28], “in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”, lascia aperto il problema di definire i limiti di tale intervento oltre i quali si realizzerebbe la violazione in parola.
Pertanto, anziché parlarsi di “un indicatore legale della natura effettivamente subordinata della prestazione lavorativa”, che “presume…una equivalenza tra eterodirezione ed eterorganizzazione del lavoro e…conclude per la natura subordinata del rapporto” [29], o di una presunzione assoluta di subordinazione [30], sembra doversi riconoscere che si tratti di rapporti di lavoro parasubordinato, gravitanti nella “zona grigia” [31] fra subordinazione e autonomia [32], i quali, per le modalità d’integrazione nell’organizzazione produttiva del committente, si avvicinano a tal punto all’area del lavoro subordinato da giustificarne la regolamentazione “come se fossero” [33]appartenenti ad essa. Detto altrimenti, “l’impressione è … che si sia preso atto dell’esistenza (diffusa) di collaborazioni, le cui modalità di esecuzione, più che coordinate con il committente, siano dallo stesso organizzate”, senza, peraltro, che ciò significhi trovarsi di fronte a fenomeni elusivi, quanto a “situazioni (‘genuine’), in cui le oggettive esigenze produttive rendono necessaria una determinata organizzazione ‘anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro’” [34] (e senza che ciò intacchi l’autonomia del collaboratore relativamente all’adempimento delle obbligazioni contrattuali). Infatti, se si trattasse di rapporti qualificabili in termini di “falso lavoro autonomo”, il legislatore non avrebbe avuto necessità d’identificare un nuovo elemento, quale quello dell’etero-organizzazione, per ricondurli nell’alveo della subordinazione, potendosi procedere, secondo l’id quod plerumque accidit, alla verifica della sussistenza dei consueti indici ex art. 2094 c.c. [35]. Ne discende che l’obiettivo della disposizione pare piuttosto quello di attribuire maggiori tutele “a forme di collaborazione che, pur essendo autonome, sono caratterizzate da una dipendenza (se non necessariamente economica, almeno) organizzativa, con conseguente necessità di protezione sociale” [36].
Né con ciò si pone un problema di violazione del principio d’indisponibilità del tipo in virtù dell’estensione ope legis delle tutele proprie del lavoro subordinato a rapporti di altra natura, derivandone, al contrario, l’innalzamento del livello delle garanzie, non già la sua riduzione [37], in un’ottica di relativizzazione [38] per così dire in melius del principio de quo, alla luce della quale si spiega – e si giustifica – la “norma di disciplina” [39] di cui all’art. 2, comma 1.; laddove, in questa prospettiva, nell’art. 2, comma 2, lett. a) sembra riflettersi l’esigenza di una declinazione flessibile delle tutele in relazione alle specificità dei vari settori, come si vedrà meglio in seguito [40].
Allo stesso modo, non pare insuperabile l’obiezione secondo cui, qualora si riferissero a rapporti di lavoro autonomo, le previsioni in questione potrebbero essere censurate sul piano sovranazionale perché incompatibili con la normativa sulla concorrenza dell’Ue, specie in ragione della giurisprudenza della Corte di Giustizia, la quale considera i lavoratori autonomi a tutti gli effetti come imprese; con la conseguenza che, non potendo essi essere esclusi dal campo d’operatività dell’art. 101, paragrafo 1, TFUE, una legislazione protettiva volta ad incidere sulla determinazione del loro costo violerebbe la libertà di concorrenza [41]. Come ricorda, infatti, la stessa dottrina, “per i giudici di Lussemburgo la fissazione di minimi economici da parte della contrattazione collettiva non si porrebbe in contrasto con il diritto dell’Unione solo qualora il lavoratore non debba considerarsi impresa, e cioè ‘qualora non determini in modo autonomo il proprio comportamento sul mercato, ma dipenda interamente dal suo committente, per il fatto che non sopporta nessuno dei rischi finanziari e commerciali derivanti dall’attività economica di quest’ultimo e agisce come ausiliario integrato nell’impresa del committente’”, essendo, in ultima analisi, “l’affrancamento dal bisogno di tutela che segna il confine della ‘giustificatezza’ degli effetti restrittivi della concorrenza tra lavoratori inevitabilmente prodotti dalla contrattazione collettiva” [42]. Sembra, infatti, che, proprio in ragione delle caratteristiche insite nell’area considerata, non si possa escludere a priori la ricorrenza di tali requisiti. Invero, secondo la ricostruzione qui accolta, ci si troverebbe di fronte a collaborazioni parasubordinate, potendosi, dunque, trattare di rapporti tecnicamente e genuinamente autonomi, ma caratterizzati da una situazione di dipendenza economica dall’impresa altrui e/o di alienità rispetto all’organizzazione produttiva nel cui ambito la prestazione di lavoro va integrata, che mal si concilia con la capacità del soggetto di porsi nel mercato come operatore economico autonomo nel senso proprio di un’impresa.
In conclusione, la logica seguita dal d.lgs. n. 81/2015 non pare molto diversa da quella che aveva indotto il legislatore del 1973 ad estendere limitatissime protezioni alle collaborazioni di cui all’art. 409, comma 1, n. 3, c.p.c., e quello del 2003 a ritagliare per il lavoro a progetto una disciplina, seppur blanda [43], di tutela. Qui quell’idea è condotta alle estreme conseguenze e attuata con una tecnica molto diversa, avendo il legislatore “inteso discernere imperativamente, nell’ambito della parasubordinazione (e, quindi, tipologicamente parlando, nell’ambito del lavoro autonomo) collaborazioni che, per le peculiari caratteristiche di svolgimento del rapporto (etero-organizzazione delle modalità prestatorie, anche con riferimento all’elemento spazio-temporale: tempi e luogo di lavoro), implicazione personale (prestazioni di lavoro esclusivamente personali) e continuità temporale (continuative), esprimono una particolare condizione di bisogno di protezione sociale e quindi meritano, secondo la nuova valutazione della realtà compiuta dal legislatore, di godere della piena estensione delle tutele quanto alla ‘disciplina del rapporto di lavoro’” [44].
Il che, però, porta in primo piano il problema, che in questa sede non può essere affrontato poiché esula dall’oggetto del presente contributo, di tracciare il non semplice discrimine fra etero-direzione ed etero-organizzazione, da un lato, e fra coordinamento ed etero-organizzazione, dall’altro [45], con la necessità di ripensare anche alle nozioni che si confrontano con tale nuovo elemento, la cui interpretazione appare inevitabilmente destinata a retroagire altresì su quella di concetti maggiormente consolidati o, almeno, datati [46]. Problema ancor più enfatizzato a seguito dell’espunzione, dall’ordinamento, della fattispecie del lavoro a progetto, per cui al “tutto”, rappresentato dalla tutela propria del lavoro subordinato garantito alle collaborazioni etero-organizzate, si contrappone ora il “(quasi) nulla” riconosciuto alle “vecchie” collaborazioni coordinate e continuative (art. 2113 c.c., disciplina processuale, fiscale e previdenziale).
5. Quale sindacato (e quale contrattazione collettiva) per quale tutela?
Se questa sembra la ricostruzione meglio in grado di giustificare le nuove disposizioni collocandole in un quadro costituzionalmente orientato, pare allora doversi riconoscere come la previsione legislativa di cui all’art. 2, comma 2, lett. a) si incarichi di affidare all’autonomia collettiva non già una “funzione tipizzatrice, se non qualificatrice” [47] – occupandosi l’art. 2, comma 1, di collaborazioni autonome e non ravvisandosi in esso la volontà di procedere ad una riqualificazione delle stesse –, ma una competenza derogatoria del disposto normativo, che si concretizza nella possibilità di selezionare i rapporti (parasubordinati) ai quali, anche in presenza delle caratteristiche enunciate dal citato art. 2, comma 1, non si applicherà la disciplina propria del lavoro subordinato [48], purché nel rispetto delle condizioni indicate dalla legge.
La delega alla contrattazione, pertanto, non sembra poter essere riferita solo alla “facoltà di identificazione nei vari contesti produttivi di concrete forme di collaborazione riconducibili all’ipotesi astratta definita dall’art. 2” [49], ossia etero-organizzate. Piuttosto, e incontestata la praticabilità dell’opzione suddetta, pare doversi ritenere che essa si estenda fino all’individuazione di “statuti protettivi alternativi a quello proprio del lavoro subordinato per i prestatori d’opera interessati, investiti dalla ‘norma di disciplina’” [50], in una prospettiva volta a promuovere – rispetto al passaggio forzoso da una regolamentazione protettiva debole ad una forte – una transizione graduale e flessibile, capace cioè di farsi altresì carico, tramite l’elaborazione di specifiche forme di tutela, dell’esigenza di garantire la stabilità dei costi sopportati dalle imprese e, quindi, la salvaguardia dei livelli occupazionali [51].
Si comprende, dunque, l’introduzione del requisito della maggiore rappresentatività in termini comparati sul piano nazionale quale criterio di selezione dei contraenti (fermo restando che è sufficiente che gli accordi siano conclusi “da”, e non “dalle”, associazioni in questione). Il che, tuttavia, lascia irrisolto il problema della verifica del possesso di tale qualità, da parte delle organizzazioni sindacali stipulanti, rispetto ai prestatori qualificabili come autonomi; a meno che non si reputi che dette organizzazioni possano essere identificate anche con quelle maggiormente rappresentative dei lavoratori subordinati [52]. Ragionevolmente, comunque, il riconoscimento del requisito in parola non sembra possa essere negato ai soggetti, costituiti da Cgil, Cisl e Uil, ai quali si è accennato in apertura [53], la cui sfera di rappresentanza si allarga altresì a porzioni del lavoro subordinato (ad esempio, quello in somministrazione), non richiedendo il legislatore espressamente che si tratti di associazioni rappresentative del solo lavoro autonomo. In ogni caso, essendo stato il riferimento alle confederazioni, presente nello schema di decreto, opportunamente sostituito, nella versione definitiva, da quello alle “associazioni”, la platea dei possibili sottoscrittori potrà aprirsi altresì a contraenti che non assumono tale forma organizzativa [54]. D’altra parte, era dubbio che quella confederale fosse la sede più idonea per procedere ad una regolazione di tal fatta.
Del pari complicato risulta il soddisfacimento – in deroga all’art. 51 d.lgs. n. 81/2015, che contempla l’intervento anche dei livelli decentrati – del carattere nazionale degli accordi collettivi (verosimilmente appellati così, anziché contratti collettivi, a conferma della natura non subordinata dei rapporti disciplinati). Ciò a patto di non ritenere che detti livelli siano comunque legittimati ex se – quindi senza bisogno di uno specifico rinvio ad opera di quello nazionale, come si vedrà meglio tra breve – ai sensi dell’art. 8, d.l. n. 138/2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148/2011 in tema di contratti di prossimità [55], i quali, com’è noto, alle condizioni indicate possono disporre una regolamentazione – anche derogatoria rispetto alla legge e alla contrattazione collettiva nazionale, oltre che efficace erga omnes – altresì con riguardo alle “modalità d’assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite Iva”. La prospettiva, tuttavia, non convince del tutto [56], forse non tanto perché la previsione successiva, incompatibile con quella precedente, dovrebbe prevalere su quest’ultima quando entrambe insistono sulla stessa materia, trattandosi di due tipologie contrattuali diverse in primis sotto il profilo dell’efficacia soggettiva [57], quanto perché ad essere abrogata è innanzitutto la fattispecie di riferimento, ossia il lavoro a progetto.
Se, dunque, alla luce della ratio dell’art. 2, comma 2, lett. a), la disposizione legislativa di cui si discute appare pienamente comprensibile, essa, nondimeno, potrebbe rivelarsi di non semplice attuazione, specie per la difficoltà d’individuare soggetti in grado di assumere, e con effettiva capacità rappresentativa, la rappresentanza collettiva dal lato dei committenti/datori [58]. Non a caso, come si osservava [59], gli accordi finora conclusi sono stati essenzialmente di tipo aziendale e territoriale, rispetto ai quali quelli nazionali, menzionati dal legislatore, potrebbero d’ora in poi fungere da cornice, in qualità di accordi-quadro, così da evitare comunque quel rischio di eccessiva frammentazione regolativa che la norma per prima vuole scongiurare e, al contempo, corrispondere maggiormente alle caratteristiche proprie dei singoli contesti e all’eterogeneità del variegato universo dei collaboratori. In effetti, come poc’anzi accennato, pare che il riferimento testuale ai soli accordi collettivi nazionali non impedisca agli stessi di rimandare, per i profili individuati dalle parti sociali, alle sedi decentrate, nel caso chiamate ad intervenire – nei limiti definiti dalle apposite clausole di rinvio – in funzione integrativa/specificativa di quanto in essi concordato eventualmente soltanto in un’ottica di regolazione generale (essendo, ovviamente, rimessa all’autonomia collettiva la decisione se procedere in tal senso oppure predisporre, già in ambito nazionale, una disciplina esaustiva, dettagliata e in sé conclusa). Si tratterebbe, infatti, di un processo di decentramento pur sempre controllato, tale, pertanto, da non frustrare la volontà legislativa.
Peraltro, a proposito di quanto detto circa lo sviluppo di un livello nazionale di negoziazione, va rimarcato come abbiano da sempre fatto eccezione in primo luogo i settori delle ricerche di mercato e dei call center [60], quest’ultimo probabilmente preso a riferimento per estendere a tutti gli ambiti – con le difficoltà che però si sono segnalate – quanto il d.l. n. 83/2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134/2012, contemplava unicamente per esso. Invero, nel settore dei call center outbound,per svolgere attività diretta di vendita di beni o servizi, dopo le modifiche apportate dai citati provvedimenti all’art. 61, comma 1, d.lgs. n. 276/2003, il ricorso alle collaborazioni a progetto era consentito, in deroga alle previsioni generali, sulla base del corrispettivo definito dai contratti collettivi nazionali che regolassero il trattamento economico dei prestatori [61]. Con il d.lgs. n. 81/2015, si è, dunque, innanzitutto voluto evitare che, con l’abrogazione del contratto a progetto, a tali collaboratori si applicasse automaticamente la disciplina propria del lavoro subordinato, con un sensibile aumento dei costi per il committente, secondo la logica di gradualità testé ricordata.
In aggiunta, a livello contenutistico si richiede ora che la regolamentazione contrattuale intervenga tanto a livello retributivo, che normativo [62]: ciò che, per vero, la negoziazione finora sviluppatasi ha quasi sempre fatto, tanto più che alla norma sembra doversi riconoscere anche una funzione ricognitiva dell’attività contrattuale svolta sino ad oggi, purché avente le caratteristiche indicate, di modo che alle parti sociali è data la possibilità di far salve, per l’appunto, le ipotesi di collaborazione già disciplinate che le stesse ritengano opportuno dover sottrarre all’applicazione della normativa propria del lavoro subordinato, in virtù delle caratteristiche di esecuzione e delle specificità dei settori nei quali sono attivate [63]. Trattasi, peraltro, dell’imposizione di un vincolo di scopo, che, se, da un lato, potrebbe determinare una certa funzionalizzazione della contrattazione collettiva delegata, dall’altro, appare destinato ad orientare le esperienze in quest’ambito [64]. V’è comunque da dubitare che detta funzionalizzazione consenta di superare i noti limiti soggettivi d’efficacia del contratto collettivo, anche in ragione dei problemi, in questo caso particolarmente acuti per i motivi ricordati, in tema di rappresentatività, con l’ulteriore aggravante che, dal punto di vista del lavoratore non iscritto, l’interesse sarebbe probabilmente a non vedersi applicati i trattamenti disposti dall’autonomia collettiva, difficilmente preferibili a quelli tipici del lavoro subordinato.
Proprio con riguardo a tale ultimo aspetto occorre altresì chiedersi quanto le parti sindacali – diverso, invece, il discorso per quelle datoriali – possano essere invogliate a sottoscrivere accordi destinati a sottrarre all’integrale operatività della normativa di protezione, applicabile ai lavoratori subordinati, collaborazioni che, senza il loro intervento, vi sarebbero soggette. In altri termini, pare non potersi escludere a priori che il sindacato, anziché cogliere le peculiarità di settori che richiedono una disciplina ad hoc per le ragioni indicate, possa essere tentato di ritrarsi. Nondimeno, lo spettro di una possibile contrazione dei livelli occupazionali, in conseguenza dell’aggravio dei costi derivante dall’operazione legislativa, fungerà verosimilmente da potente molla per agire, essendo, d’altra parte, incontrovertibile che i rapporti di forza fra i contraenti, a loro volta condizionati dalle dinamiche del sistema produttivo e del mercato del lavoro, siano destinati a giocare un ruolo decisivo altresì sul quomodo della regolazione, non diversamente, del resto, da ciò che sempre avviene.
In questo complesso scenario, sembra, comunque, che la sfida implicitamente lanciata all’attore collettivo sia innanzitutto quella di farsi portavoce autentico dei bisogni di tutela che provengono da quote del mondo del lavoro non sovrapponibili all’area tradizionalmente rappresentata. Sotto tale profilo – affinché ne risulti valorizzata appieno l’ottica di sostegno allo sviluppo di un maturo sistema di relazioni industriali in quest’ambito, adottata, almeno all’apparenza, dal legislatore [65] – l’ampia apertura di credito fatta al sindacato pare presupporre in primo luogo la sua capacità di resistere alle sirene dell’assimilazione tout court dei rapporti in questione a quelli di lavoro subordinato, per cimentarsi in un’attività che, a partire, per l’appunto, dalle “particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”, dia prova della propensione ad elaborare specifici statuti protettivi. Certo, attribuire un ruolo così rilevante ad una contrattazione ancora poco consolidata costituisce sicuramente un atto di notevole coraggio, forse al limite della ragionevolezza costituzionale ex art. 3, tenuto conto dei rischi di differenze, anche significative e non è detto sempre giustificabili, fra collaborazioni regolamentate e non. Tuttavia, non può escludersi che, se l’autonomia collettiva riuscisse a fornire qualche dimostrazione dell’attitudine a sperimentare peculiari modelli di tutela, potrebbe derivarne una positiva influenza sulla stessa futura attività del legislatore [66], qualora si decidesse di procedere, come accennato [67], in una prospettiva regolativa più generale.
Resta, poi, aperto il campo d’intervento a favore delle “vecchie” collaborazioni coordinate e continuative, le quali, oramai prive di garanzie al pari di quanto accadeva antecedentemente all’entrata in vigore degli artt. 61 ss., d.lgs. n. 276/2003, costituiscono un’area elettiva per l’azione del sindacato, che dalla loro protezione è partito nelle prime pratiche contrattuali e a quella sembra ora destinato a tornare, arricchito, peraltro, dell’esperienza maturata nel frattempo.
NOTE
[1] Cfr. G. BALLARINO-R. PEDERSINI, La rappresentanza degli outsiders: in Italia, in Europa, in QRS-Lavori, 2005, n. 1, 173.
[2] F. DE FRANCESCHI-V. PULIGNANO-L. ORTIZ, Il lavoro precario e le strutture sindacali. Le strategie adottate dai sindacati italiani e spagnoli, in QRS-Lavori, 2014, n. 1, 168.
[3] Valga per tutti l’esempio di Ver.di, nato in Germania dalla fusione di quattro preesistenti sindacati del settore dei servizi: K. VANDAELE-J. LESCHKE, Una nuova “cultura dell’organizzazione” per attirare i lavoratori atipici? Il caso della Germania, in QRS-Lavori, 2010, n. 3, 227 ss.
[4] Ci si permette di rinviare a C. LAZZARI, Nuovi lavori e rappresentanza sindacale, Giappichelli, Torino, 2006; in generale, sull’argomento, cfr. almeno G. NATULLO, Lavoro parasubordinato e contrattazione collettiva: un “progetto” ancora incompleto, in Istituzioni e regole del lavoro flessibile, a cura di M. RUSCIANO-C. ZOLI-L. ZOPPOLI, Editoriale Scientifica, Napoli, 2006, 515 ss.; P. PASSALACQUA, Lavoro a progetto e fonti collettive, in Subordinazione e lavoro a progetto, a cura di G. SANTORO-PASSARELLI-G. PELLACANI, Utet, 2009, 253 ss.; M.C. AMBRA, Modelli di rappresentanza sindacale nella società post-industriale. Come i sindacati si stanno riorganizzando, in QRS-Lavori, 2013, n. 4, 78 ss.; F. DE FRANCESCHI-V. PULIGNANO-L. ORTIZ, op. cit., 175 ss.
[5] Il riferimento, presente nella prima stesura del decreto, al “contenuto ripetitivo”, che tante perplessità aveva suscitato (cfr. M. TIRABOSCHI, Riforma delle tipologie contrattuali e nuova disciplina delle mansioni, in Guida lav., 2015, n. 11, 30; T. TREU, In tema di Jobs act. Il riordino dei tipi contrattuali, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2015, 165-166, nonché la Relazione svolta dal presidente Maurizio Sacconi alla Commissione Lavoro del Senato ed il Parere della XIª Commissione permanente della Camera), è stato successivamente eliminato.
[6] Parla giustamente di “un vuoto di disciplina per le collaborazioni che non confluiranno nel lavoro subordinato” T. TREU, op. cit., 163; cfr. anche A. PIZZOFERRATO, L’autonomia collettiva nel nuovo diritto del lavoro, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2015, 429 e L. FOGLIA, L’actio finium regundorum tra lavoro subordinato e lavoro autonomo nel Jobs Act, in Mass. giur. lav., 2015, 751.
[7] Cfr., all’indomani della legge n. 183/2014, le proposte di A. PERULLI, Un Jobs Act per il lavoro autonomo: verso una nuova disciplina della dipendenza economica?, in WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, It, 2015, n. 235 e, sulla base dello schema di decreto legislativo approvato il 20 febbraio 2015, quelle di T. TREU, op. cit., 168 ss.
[8] Peraltro, non ricorre a tale nozione nemmeno la bozza di ddl collegato alla legge di stabilità 2016, rubricato Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato a tempo indeterminato, che, nel definire una sorta di statuto di protezione per il lavoro autonomo, individua, all’art. 1, il proprio campo di applicazione per l’appunto con riferimento “a tutti i rapporti di lavoro autonomo”, con esclusione dei piccoli imprenditori artigiani e commercianti iscritti alla Camera del commercio: v., in proposito, le considerazioni di A. PERULLI, Le tutele del lavoro autonomo nel DDL collegato alla legge di stabilità: una prima riflessione, www.
nelmerito.com, 5 novembre 2015.
[9] Cfr. le dure critiche di A. PERULLI, Il “falso” superamento dei cococo nel Jobs Act, in www.nelmerito.com, 6 marzo 2015, con riguardo alle prestazioni di lavoro organizzate dal committente.
[10] Cfr., al riguardo, L. MARIUCCI, Il diritto del lavoro ai tempi del renzismo, in Lav. dir., 2015, 28.
[11] Per un accenno in tal senso, ma in chiave più generale, T. TREU, op. cit., 162.
[12] M. MISCIONE, Le collaborazioni autonome dopo il Jobs Act, in Dir. prat. lav., 2015, 865.
[13] A proposito dell’art. 2, comma 1, parla di “una norma di disciplina, e non di fattispecie” R. DEL PUNTA, Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2015, 371; proprio per questo P. ICHINO, Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, in http://www.pietroichino.it/?p=36980, 28 settembre 2015, nega che l’oggetto della prestazione sia autoritativamente trasformato in lavoro subordinato, e quindi assoggettato ad etero-direzione piena, essendogli piuttosto solo estesa la disciplina propria di quello, con la conseguenza che sul collaboratore etero-organizzato non graverebbe lo stesso obbligo di obbedienza del lavoratore subordinato, restando, perciò, egli tecnicamente autonomo; peraltro, sulla complessa questione di quale sia la regolamentazione, tipica del lavoro subordinato, applicabile a tali rapporti cfr., per tutti, V. FILÌ, Le collaborazioni organizzate dal committente nel D.Lgs. n. 81/2015, in Lav. Giur., 2015, 1096 ss.
[14] Non a caso anche T. TREU, op. cit., 163 osserva che l’operazione legislativa determina “una estensione dell’intera disciplina del lavoro subordinato al nuovo ambito indicato dalla norma, cioè in realtà alla nuova fattispecie”.
[15] Per tutti, O. RAZZOLINI, La nuova disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente. Prime considerazioni, in WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, It, 2015, n. 266, 4 ss.; sul fatto che il tenore letterale dell’art. 2, comma 1, non costituisca un ostacolo insuperabile, ex multis, E. GRAGNOLI, in Il lavoro parasubordinato organizzato dal committente, Colloqui Giuridici sul Lavoro, a cura di A. VALLEBONA, 2015, 52.
[16] Cfr., rispettivamente, in Foro it., 1993, I, 2434 e 1994, I, 2656.
[17] A giudizio della Corte, infatti, l’art. 13, comma 2, legge n. 498/1992 (Interventi urgenti in materia di finanza pubblica), così come sostituito dall’art. 6 bis, d.l. n. 9/1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 67/1993 – secondo cui “Le province, i comuni, le comunità montane e i loro consorzi, le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (IPAB), gli enti non commerciali senza scopo di lucro che svolgono attività socio-assistenziale e le istituzioni sanitarie operanti nel Servizio sanitario nazionale non sono soggetti, relativamente ai contratti d’opera o per prestazioni professionali a carattere individuale da essi stipulati, all’adempimento di tutti gli obblighi derivanti dalle leggi in materia di previdenza e di assistenza, non ponendo in essere, i contratti stessi, rapporti di subordinazione” – si limiterebbe ad escludere che ai contratti d’opera e di prestazione professionale da esso considerati siano applicabili gli obblighi previdenziali e assistenziali previsti per il lavoro subordinato, senza che da ciò possa desumersi altresì l’operatività di tale esclusione qualora il rapporto, anche in contrasto con quanto scritto nel contratto, abbia di fatto assunto contenuti e modalità di esecuzione propri del lavoro subordinato; peraltro, ritiene condivisibilmente il ragionamento un “artificio retorico con cui la Corte salva le apparenze”, dal momento che “la “leggina” sarebbe stata confezionata per dire che non sono soggetti agli obblighi contributivi quei rapporti di collaborazione che non sono di lavoro subordinato”, M. D’ANTONA, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale, in Arg. dir. lav., 1995, 65.
[18] M. DE LUCA, Rapporto di lavoro subordinato: tra “indisponibilità del tipo contrattuale”, problemi di qualificazione e nuove sfide della economia postindustriale, Riv. it. dir. lav., 2014, I, 400.
[19] Cfr. O. RAZZOLINI, op. cit., 23, ed ivi per ulteriori riferimenti bibliografici.
[20] T. TREU, op. cit., 162; R. SCOGNAMIGLIO, La disponibilità del rapporto di lavoro subordinato, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, 117.
[21] Foro it., 2015, 1849.
[22] O. RAZZOLINI, op. cit., 24-25.
[23] L’obiezione è di G. FERRARO, Collaborazioni organizzate dal committente, dattiloscritto, 11, in corso di pubblicazione, ed è riproposta da V. NUZZO, Il lavoro personale coordinato e continuativo tra riforme e prospettive di tutela, in WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, It, 2015, n. 280, 14; v., tuttavia, la replica di R. PESSI, Il tipo contrattuale: autonomia e subordinazione dopo il Jobs Act, ibidem, n. 282, 14.
[24] Non si ritiene, infatti, di aderire all’interpretazione ricordata in chiusura del § 3.
[25] In argomento, ex multis, T. TREU, op. cit., 164-165; M. DEL CONTE, Premesse e prospettive del Jobs Act, in Dir. rel. ind., 2015, 954; A. ANDREONI, La nuova disciplina per i collaboratori etero-organizzati: prime osservazioni, in RDSS, 2015, 732-733; C. SANTORO, Eterorganizzazione e attività lavorative tipologicamente subordinate, in Lav. giur., 2015, 822; sulla valorizzazione dell’elemento dell’etero-organizzazione da parte della giurisprudenza di altri Paesi europei cfr. M. PALLINI, Il lavoro economicamente dipendente, Cedam, 2013, 23 ss. e, per quanto riguarda la Corte di Giustizia, P. ICHINO, Sulla questione del lavoro non subordinato ma sostanzialmente dipendente nel diritto europeo e in quello degli Stati membri, Riv. it. dir. lav., 2015, II, 574 ss.; pur se in un’ottica diversa da quella qui accolta (v. infra, in questo §), cfr. anche L. NOGLER, La subordinazione nel d.lgs. n. 81 del 2015: alla ricerca dell’”autorità dal punto di vista giuridico”, WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona.It, 2015, n. 267, 18, secondo cui l’art. 2, comma 1, potrà “giocare un ruolo di consolidamento dei nuovi e più innovativi orientamenti di questi ultimi anni” e V. NUZZO, op. cit., 8, per la quale i rapporti di cui all’art. 2, comma 1, sembrano situarsi in quell’area che, secondo l’interpretazione dell’art. 2094 c.c. fornita da certa giurisprudenza, sarebbe da ricondurre ad una nozione attenuata di subordinazione; contra, su quest’ultimo profilo, C. PISANI, Eterorganizzazione ed eterodirezione: quale differenza tra l’art. 2 D.lgs. 81/2015 e l’art. 2094 c.c.?, in Giur. lav., 2015, n. 48, 64.
[26] V. pure, per tutti, A. PERULLI, Il lavoro autonomo, le collaborazioni coordinate e le prestazioni organizzate dal committente, in WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, It, 2015, n. 272, 14-15; C. PISANI,op. cit., 66; V. NUZZO, op. cit., 13; ritiene irragionevoli, alla luce dell’art. 3 Cost., le esclusioni previste, sottraendo esse alla disciplina del lavoro subordinato rapporti che dovrebbero esservi ricondotti G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409, n. 3, c.p.c. (art. 2), in Commento al d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81: le tipologie contrattuali e lo jus variandi, a cura di F. CARINCI, Adapt Labour Studies e-Book series n. 48, 2015, 22.
[27] O. RAZZOLINI, op. cit., 22.
[28] Cfr., per questa prospettiva, G. FERRARO, op. cit., 13; per A. ANDREONI, op. cit., 735, l’accordo potrebbe solo derogare a specifiche norme concernenti singoli istituti del rapporto di lavoro subordinato; secondo C. CESTER, in Il lavoro parasubordinato, cit., 30, l’autonomia collettiva dovrebbe garantire una “disciplina sostanzialmente equivalente, solo adattata alla (poco chiara) specialità della situazione”.
[29] E. GHERA, in Il lavoro parasubordinato, cit., 50; cfr. pure O. RAZZOLINI, op. cit., 5, la quale parla di “giudizio legislativo di equivalenza funzionale della fattispecie al tipo lavoro subordinato”.
[30] Così L. NOGLER, op. cit., 17, secondo cui (25) la mancata adozione della presunzione assoluta con riferimento alle ipotesi ex art. 2, comma 2, si giustificherebbe in ragione del fatto che nei settori indicati non sussisterebbero situazioni patologiche di lavoro subordinato simulato; parla di “presunzione (relativa, non certo assoluta) di subordinazione” M. TIRABOSCHI, Prima lettura del d.lgs. n. 81/2015 recante la disciplina organica dei contratti di lavoro, Adapt Labour Studies e-Book series n. 45, 2015, 5 e, amplius, ID., Il lavoro etero-organizzato, in Dir. rel. ind., 2015, 980 ss.; in generale, per una sintetica panoramica delle varie posizioni A. VALLEBONA, in Il lavoro parasubordinato, cit., 153.
[31] F. MARTELLONI, La zona grigia tra subordinazione e autonomia e il dilemma del lavoro coordinato nel diritto vivente, in Dir. rel. ind., 2010, 647 ss.
[32] Per tutti, A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., 13; R. PESSI, op. cit., 11 ss.; V. FILÌ, op. cit., passim; parla di “forme di lavoro parasubordinato, cui si applica lo statuto del lavoro subordinato”, G. PROSPERETTI, in Il lavoro parasubordinato, cit., 114; contra, ex multis, G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione, cit., 18; G. FERRARO, op. cit., 15 ss.; V. NUZZO, op. cit., 14 ss.
[33] A. TURSI, Jobs Act, riforma del lavoro autonomo: i due punti deboli, in http://www.ipsoa.
it/, 4 aprile 2015.
[34] R. PESSI, op. cit., 11.
[35] A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., 13.
[36] R. PESSI, op. cit., 11.
[37] M. DE LUCA, op. cit., 402 e Cass. 5 settembre 2005, n. 17759, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 552 ss.; tuttavia, per G. FERRARO, op. cit., 9, il principio d’indisponibilità del tipo opererebbe “in termini bidirezionali”, cioè “anche nel senso che non è possibile negare l’appartenenza a una determinata categoria, ancorché dilatata, a rapporti sociali a cui si applica la relativa disciplina”.
[38] Cfr. anche G. FERRARO, op. cit., 14, ma con diverso significato e nell’ambito di una ricostruzione che si muove in una prospettiva opposta a quella qui accolta.
[39] V. supra, nt. 13.
[40] Cfr. infra, § 5.
[41] V. NUZZO, op. cit., 14, citando C. giust., sez. I, 4 dicembre 2014, C-413/13.
[42] V. NUZZO, op. cit., 14-15, 20.
[43] L. ZOPPOLI, Contratto a tutele crescenti e altre forme contrattuali, in Dir. lav. merc., 2015, 29.
[44] A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., 13-14, corsivo dell’A.
[45] Un ausilio potrebbe forse venire a quest’ultimo proposito dall’art. 13 della citata bozza del ddl collegato alla legge di stabilità 2016, il quale, modificando l’art. 409, comma 1, n. 3, c.p.c., precisa che “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente la propria attività lavorativa”.
[46] Su tali questioni, cfr. A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., 24 ss.; ID., Costanti e varianti in tema di subordinazione e autonomia, in Lav. dir., 2015, 275 ss.; O. RAZZOLINI, op. cit., 10 ss.; T. TREU, op. cit., 171 ss.; G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione, cit., 19 ss.; R. PESSI, op. cit., 16 ss.; V. FILÌ, op. cit., 1095 ss.; M. MAGNANI, La riforma dei contratti e del mercato del lavoro nel c.d. Jobs Act. Il Codice dei contratti, in Dir. rel. ind., 2015, 972 ss.; D. MEZZACAPO, La nuova figura delle “collaborazioni organizzate dal committente”. Prime osservazioni, in Quest. giust., 2015, n. 3, 62 ss.; A. ANDREONI, op. cit., 736 ss., nonché il dibattito in Il lavoro parasubordinato, cit.; v., tuttavia, G. FERRARO, op. cit., 4, secondo cui “il riferimento all’attività organizzata dal committente ha un contenuto espositivo sostanzialmente neutro, alludendo al più generale potere organizzativo che compete a qualunque operatore economico con conseguenti riflessi sulle relazioni di lavoro: non vuole tipizzare una modalità specifica di esercizio di tale potere in questi termini differenziata sia dal potere direttivo … che dal potere di coordinamento …”.
[47] M. PEDRAZZOLI, Sulla cosiddetta indisponibilità del tipo lavoro subordinato: ricognizione e spunti critici, in Scritti in onore di Edoardo Ghera, II, Cacucci, Bari, 2008, 859, nt. 21; alla luce del d.lgs. n. 81/2015, cfr. O. RAZZOLINI, op. cit., 21; sul rapporto fra legge e autonomia collettiva, da ultimo, L. ZOPPOLI, Le fonti (dopo il Jobs Act): autonomia ed eteronomia a confronto, in WP C.S.D.L.E. Massimo D’Antona, It, 2015, n. 284.
[48] Parla di funzione autorizzatoria A. PERULLI, Il lavoro autonomo, cit., 19 e di norma (l’art. 2, comma 1) non imperativa, ma seminderogabile, in quanto cedevole nei confronti dell’autonomia collettiva, E. GHERA, op. cit., 51.
[49] Così, invece, L. FOGLIA, op. cit., 747; per P. TOSI, in Il lavoro parasubordinato, cit., 138, la norma affiderebbe alle parti sociali il compito di fornire ai giudici indicazioni utili, nell’accertamento dei requisiti della subordinazione, alla luce delle peculiarità dei settori nei quali le stesse intervengono.
[50] R. PESSI, op. cit., 13.
[51] Cfr. anche supra, § 4 e R. PESSI, op. cit., 14; in tema, v. pure i comunicati delle associazioni datoriali Assirm, Assocontact e Unirec ricordati da L. IMBERTI, in Il lavoro parasubordinato, cit., 56.
[52] Cfr. G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione, cit., 17.
[53] Cfr. supra, § 1; al contrario, sull’incerta rappresentatività di altre sigle che hanno firmato gli accordi del 6 agosto 2015, per il settore della scuola non statale, e del 6 luglio 2015, per quello dei call centers in outsourcing, cfr. C. SANTORO, La delega “in bianco” alla contrattazione collettiva sulle collaborazioni “etero-organizzate” e prime applicazioni concrete, in Dir. rel. ind., 2015, 1169-1170.
[54] Non pare però possibile, a meno che non adottino una forma associativa, riferire la previsione alle pratiche di auto-organizzazione e auto-rappresentanza che si affiancano alle classiche organizzazioni sindacali, a volte anche siglando accordi di collaborazione con esse: sul tema, cfr. A. CIARINI-D. DI NUNZIO-C. PRATELLI, Nuove forme di autorganizzazione in Italia, in QRS-Lavori, 2013, n. 4, 134 ss.
[55] Così, invece, A. LASSANDARI e F. MARTELLONI, entrambi in Il lavoro parasubordinato, cit., rispettivamente 67-68 e 72.
[56] Cfr. anche M. MISCIONE, op. cit., 866.
[57] V. quanto si dirà sul punto infra, in questo §; sul rapporto fra l’art. 8, d.l. n. 138/2011 e il d.lgs. n. 81/2015 cfr. L. ZOPPOLI, Le fonti, cit., 17 ss.
[58] In generale, sui fermenti che percorrono il sistema di rappresentanza degli interessi datoriali in Italia, cfr. i contributi pubblicati in QRS-Lavori, 2011, n. 4.
[59] Cfr. supra, par. 1.
[60] Volendo, già C. LAZZARI, op. cit., 291 ss.; post legge n. 92/2012, cfr. R. RESPINTI, Collaborazioni a progetto e riforma Fornero. Nuove opportunità per le relazioni industriali e la contrattazione collettiva fra certezza delle regole e sussidiarietà, in Dir. rel. ind., 2014, 500 ss.
[61] Cfr. G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa. Una fattispecie in via di trasformazione?, Jovene, Napoli, 2015, 33 ss.
[62] In tal senso, G. SANTORO-PASSARELLI, I rapporti di collaborazione organizzati dal committente e le collaborazioni continuative e coordinate ex art. 409 n. 3 c.p.c., http://www.pietro
ichino.it/wp-content/uploads/2015/11/Santoro-Passarelli.XI15.pdf, 7, nt. 27, rimarca come non possa essere considerato attuativo del disposto legislativo l’accordo concluso, in data 5 novembre 2015, tra Unirec, FisascatCisl e Uiltucs (non risultando la Filcams Cgil tra i firmatari, ma solo tra i partecipanti alle trattative) per aggiornare il protocollo d’intesa stipulato il 3 dicembre 2012 con riferimento alle attività telefoniche di tutela del credito, limitandosi esso a stabilire soltanto il trattamento economico e non quello normativo. Peraltro, anche in virtù del riferimento esclusivo a tali trattamenti non sembra potersi ammettere l’intervento dell’autonomia collettiva sul versante previdenziale, fermo restando il nodo di quale disciplina applicare al riguardo ai rapporti ex art. 2, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, se cioè quella propria del lavoro subordinato o quella di cui all’art. 2, comma 26, legge n. 335/1995: per opinioni contrapposte cfr., per tutti, A. ANDREONI, op. cit., 739 ss. e V. FILÌ, op. cit., 1096-1097.
[63] In proposito, è stato osservato come i primi accordi disponibili si limitino, per lo più, proprio a coordinare formalmente con le nuove previsioni normative pattuizioni già concluse: C. SANTORO, op. cit., 1168; v. anche G. BUBOLA, D. VENTURI, La parasubordinazione non etero-organizzata dopo il Jobs Act, in WP Adapt, 21 dicembre 2015, n. 187, 8.
[64] Cfr. anche T. TREU, op. cit., 167; in senso analogo, A. ANDREONI, op. cit., 735.
[65] In effetti, S. NAPPI, in Il lavoro parasubordinato, cit., 84, vede nelle disposizioni ricordate, più che una volontà autenticamente promozionale dell’autonomia collettiva, il cedimento del legislatore nei confronti delle grandi imprese, nelle quali l’etero-organizzazione apparirebbe elemento costante delle collaborazioni utilizzate.
[66] Cfr. anche T. TREU, op. cit., 167.
[67] Cfr. supra, § 2.