Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

19/10/2024 - Una tradizionale, ma non convincente posizione sul preteso (e inesistente) divieto di riduzione della retribuzione.

argomento: Giurisprudenza - Corte di Cassazione

Gli accordi di riduzione della retribuzione sono legittimi solo nel caso di modificazione delle mansioni.

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La significativa libertà delle parti individuali nel regolare la retribuzione, con il rispetto dei vincoli quantitativi dell’art. 36, primo comma, cost. e delle “clausole sociali”, si esprimerebbe solo nell’originaria manifestazione di volontà, poiché, in una successiva fase, soccomberebbe di fronte al principio di irriducibilità, desunto dall’art. 2103 cod. civ., con la comminazione della nullità di qualsiasi patto contrario (v. Cass. 1 agosto 2017, n. 19092), con l’eccezione per cui “nel rapporto qualificato dall’origine come autonomo e poi convertito con provvedimento giudiziale in uno subordinato non opera il principio di irriducibilità” (v. Cass. 24 agosto 2021, n. 23329, ord.). Vi sono sporadici precedenti contrari, volti a riconoscere il possibile contenimento del trattamento economico a fronte di una transazione conclusa in sede protetta, ferme le mansioni (v. App. Milano 15 gennaio 2020, pubblicata in questo Sito). Non si vede quale rilievo potrebbe avere l’art. 2113 cod. civ., poiché, per un verso, la remunerazione sufficiente è oggetto di un diritto indisponibile e, per altro verso, quella finale non è fissata da clausole inderogabili della legge o di un accordo sindacale. Se mai, tali pronunce contrastano con la tesi dominante della nullità (in questo senso, v. Trib. Milano 8 giugno 2017, in Giur. it. rep., 2017).

Questa troverebbe ora un preteso avallo nell’art. 2103, quinto comma, cod. civ., a differenza di quanto accadeva con la versione introdotta dall’art. 13 St. lav.. Tuttavia, il supporto normativo è di scarso rilievo, poiché, nel sancire l’irriducibilità del compenso se non per le voci collegate alle modalità di esecuzione del fare, la disposizione fa riferimento a ipotesi specifiche di dequalificazione imposta e unilaterale. In tale evenienza, cioè in quella di trasformazione delle mansioni per volontà e nell’interesse dell’impresa, è logico prescrivere la conservazione del precedente trattamento economico. Non si vede perché se ne dovrebbe dedurre la nullità dell’accordo modificativo del corrispettivo, in contrasto con la definizione stessa di contratto e con la sua idoneità a intervenire sul rapporto, a maggiore ragione su quello di durata. Fermo l’art. 2113 cod. civ. per i compensi sanciti dalla legge e dal negozio collettivo, dunque per quelli voluti dall’art. 36 cost. e dalle cosiddette “clausole sociali” o dall’ordinaria applicazione del negozio sindacale, l’obbligazione del datore di lavoro è suscettibile di essere modificata alla stregua dell’art. 1321 cod. civ. e l’art. 2103 cod. civ. nulla prevede in senso contrario.

Tra l’altro, esso non riguarda affatto l’oggetto di accordi destinati a cambiare l’assetto retributivo del rapporto e si preoccupa dell’obbligazione di fare, non della remunerazione in quanto tale. Anzi, l’art. 2103, quinto comma, cod. civ. è in contraddizione con un preteso, generale criterio di irriducibilità (in senso opposto, v. Cass. 8 maggio 2008, n. 11362, in Giur. it. rep., 2008; Cass. 19 febbraio 2008, n. 4055, ibid., 2008), per compensi superiori al minimo del contratto collettivo, a prescindere dall’entità. Le intese individuali in contrasto con norme di legge (l’art. 36 cost. e le cosiddette “clausole sociali”) sono nulle, quelle a proposito del compenso sancito dal negozio sindacale senza il sostegno di una disposizione eteronoma sono nulle se attengono al futuro, mentre, per i compensi maturati, possono essere transazioni e rinunce e ricadere nell’oggetto dell’art. 2113 cod. civ., gli accordi sulla quota aggiuntiva della remunerazione sono liberi, fermo il fatto che il dipendente non ha obbligo di stipularli e può non avere interesse. Però, questo vi può essere, per esempio per agevolare il recupero della competitività aziendale.

Ne deriva l’irrilevanza della distinzione fra la remunerazione corrisposta per “le qualità professionali intrinseche” e quella attinente a “particolari modalità” del fare (invece, v. Cass. 20 agosto 1987, n. 6974, in Giur. it. rep., 1987). A maggiore ragione, il divieto di riduzione è in contrasto con l’attuale stesura dell’art. 2103 cod. civ., dove è sancito solo per la dequalificazione unilaterale, mentre è ammesso per quella concordata. Ma essa giustifica l’intervento sul salario, valido nonostante non vi sia trasformazione del fare. Se si accetta questa impostazione, in completa distonia dalle indicazioni giurisprudenziali, lo spazio del contratto individuale si allarga e ciò è in linea con i generali principi privatistici.