Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello: Atene non è un'isola (per fortuna?) (di Antonello Olivieri. Ricercatore di Diritto del lavoro nell’Università di Foggia)


Il presente contributo intende offrire un’analisi del rapporto tra contratti collettivi di diverso livello che ha da sempre costituito terreno privilegiato sul quale registrare le oscillazioni giurisprudenziali, valutare le tendenze dell’ordinamento intersindacale e misurare le potenzialità di quello statale.

La codificazione, autonoma o eteronoma, di criteri idonei a risolvere eventuali conflitti tra interessi collettivi che trovano sede e dimensioni differenti esprime l’esigenza di offrire certezza a un quadro caratterizzato da una profonda precarietà in termini di effettività per la determinazione diretta della disciplina dei concreti rapporti individuali. L’organicità del rapporto tra contratti collettivi di diverso respiro ha sùbito, negli anni, una sorta di lacerazione nel movimento pendolare delle deroghe dall’alto e dal basso così da mettere in discussione l’esistenza di un ordinamento intersindacale.

The relationship between collective agreements of different levels: Athens is not an island (luck or not?)

This paper provides an overview of the multi-level bargaining system, in light of the new legislative framework and court decisions. It analyzes the criteria for resolving antinomies between the different levels of collective bargaining, showing how the latter express an instance of legal certainty in a context characterized by deep insecurity.

SOMMARIO:

1. Prologo - 2. I caratteri del confitto tra differenti livelli contrattuali - 3. Un sistema piramidale ad equilibrio storicamente instabile - 4. L'incertezza giurisprudenziale - 5. Dall'Accordo Scotti al Protocollo 1993 - 6. Gli accordi separati del 2009 - 7. Il triennio degli Accordi Interconfederali 2011-2014: la ricomposizione dell'unità sindacale - 8. L'Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018 - 9. Il conflitto tra contratti collettivi nell'ordinamento statuale: contratto di prossimità e art. 51 del d.lgs. n. 81/2015 - 10. In principio era il conflitto: identità e riconoscimento - 11. Dal conflitto collettivo alla giurisdizionalizzazione del conflitto - NOTE


1. Prologo

Perché Atene non è un’isola? Nel primo discorso che portò alla dichiarazione di guerra del Peloponneso, passando in rassegna i punti di forza della città di Atene, Pericle osservò: “se noi fossimo isolani, chi più di noi sarebbe invincibile? Questo è adunque il momento di avvicinarsi il più possibile col pensiero allo stato di isolani, abbandonare la campagna colle sue case” [1]. Ciononostante, l’insularità non è di per sé una condizione sufficiente. Se non protetta da una enorme distanza, infatti, un’isola può mantenersi indipendente ed, eventualmente, esercitare un qualche dominio sull’esterno solo se è in grado di governare (kybernein) il mare che la circonda; diversamente, rappresenterebbe un territorio facilmente espugnabile. Insularità ed egemonia sul mare, dunque, sono condizioni entrambe propedeutiche per il buon esito del conflitto. Orbene, il tema della insularità può rappresentare una interessante chiave di lettura anche per le vicende relative al rapporto tra contratti collettivi di diverso livello. I tentativi in atto di ristabilire un nuovo equilibrio all’interno dell’ordina­mento intersindacale, per la difesa dei propri confini, potrebbero essere declinati proprio alla luce della direttiva politico-strategica offerta dal discorso di Pericle. Ben consapevole della superiorità spartana nella battaglia per terra, Pericle coglie un fatto nuovo: puntare sulla potenza navale – grazie alle ricchezze possedute – come se si abitasse in un’isola. Così ragionando, la difesa del territorio sindacale non dovrebbe prescindere da una rinnovata strategia in grado di valorizzare i punti di forza dell’auto-governo collettivo. Operare il più possibile da isolani, pur non essendone, significa infatti predisporre le basi per la costruzione di un dialogo non “imposto dall’interesse, ma […] suggerito dalla convinzione” [2], anche per evitare o attenuare intromissioni eteronome e sovranazionali, il nemico alle porte, e costruire una forma di espressione legittima del e nel conflitto. Tuttavia, e sorge qui la prospettiva speculare, quella dell’ordinamento statuale, per fortuna Atene non è un’isola, commenta il “vecchio Oligarca” nel [continua ..]


2. I caratteri del confitto tra differenti livelli contrattuali

È compito sicuramente arduo proporre qualche spunto di riflessione originale su un tema centrale e così indagato come quello del rapporto tra contratti collettivi di diverso livello che tuttora costituisce uno degli elementi più sollecitati delle relazioni industriali, nonché uno dei principali nodi interpretativi del diritto sindacale sia all’interno della dialettica tra fonti contrattuali, sia all’esterno dell’ordinamento intersindacale. Accanto a qualche sparsa considerazione di carattere personale sul diritto sindacale italiano, l’idea che ha animato il presente volume è stata di dare un respiro più ampio alla tematica oggetto del presente studio attraverso un esame comparato delle diverse soluzioni giuridiche e delle variegate proposte sindacali all’interno di alcune specifiche realtà nazionali. Il modo in cui viene strutturata la dimensione organizzata della contrattazione collettiva [14], vale a dire le sedi in cui si negozia e le competenze attribuite a ciascun livello, rappresenta un momento fondamentale che incide sulla dimensione conflittuale di qualunque sistema di relazioni industriali [15]. Tale aspetto è ben evidenziato da Ouchi soprattutto in considerazione del ruolo collaborativo e scarsamente conflittuale, anche per derivazioni culturali, che caratterizza il sistema industriale giapponese [16]. L’indagine assume, è evidente, una sua peculiare fisionomia se solo si tenesse conto di tutte le variabili (sociali, economiche, ideologiche) che si inscrivono all’interno del conflitto industriale e che interagiscono in un dato momento storico [17]. La relazione ambivalente e bidirezionale tra i due livelli [18] condiziona il piano macro-economico (dinamica dell’inflazione e della disoccupazione), micro-economico (la distribuzione degli incrementi di produttività) ed endosindacale (rappresentanza, organizzazione) [19]. A dimostrazione della complessità e della precarietà che caratterizza il tema che ci occupa, nel 1981 il Professor Grandi iniziava la sua relazione di apertura alle giornate di studio Aidlass svoltesi ad Arezzo, evidenziando come fosse ancora aperto il dialogo tra dottrina e giurisprudenza alla ricerca di “coerenti risposte risolutive” [20]. A distanza di quasi quarant’anni appare ancora attuale il suo incipit, seppur rideclinato [continua ..]


3. Un sistema piramidale ad equilibrio storicamente instabile

Per cogliere il senso giuridico e la portata politico-sindacale del rapporto tra contratti collettivi a diversa sfera applicativa, appare necessario ripercorrere, seppur brevemente, alcune importanti fasi che hanno un minimo comune denominatore: la ricerca e la predisposizione di regole certe nell’àmbito di un sistema comunque volontaristico. L’attuale morfologia che contraddistingue il rapporto tra contratti collettivi di diverso respiro, come già accennato, è il risultato di prassi e modelli succedutesi nel tempo, con un ritmo a volte rapsodico, all’interno di una costante “tensione tra l’aspirazione a salvaguardare la centralizzazione del sistema contrattuale […] e le spinte a dilatare i margini di autonomia della contrattazione periferica” [42]. L’autonomia del sistema sindacale costituisce tratto peculiare delle nostre relazioni industriali. L’articolazione su più livelli, con l’abbandono della contrattazione nazionale esclusiva, ha acquisito una certa stabilità [43] solo a partire dagli anni sessanta [44], con un notevole ritardo rispetto ad altre esperienze non solo europee [45]. L’avvento della contrattazione articolata aveva creato non pochi problemi ricostruttivi [46]. In precedenza, com’è noto, le prime difficoltà ermeneutiche poste all’at­ten­zione della dottrina e della giurisprudenza erano ruotate intorno alla natura del contratto aziendale e alla sua qualificazione come contratto collettivo o plurisoggettivo [47]. In quegli anni era possibile registrare, da parte dei Pretori, un ap­proccio centrifugo nel riconoscere soggettività giuridica autonoma anche alle commissioni interne, così attribuendo ai contratti stipulati (cosiddetti asindacali) efficacia di contratto collettivo [48]. L’esistenza di una gerarchia all’interno del sistema sindacale, con la prevalenza del regolamento di più ampio respiro su quello minore, è stata in passato giustificata dalla diversa ampiezza dell’interesse collettivo e, di conseguenza, da una differente graduazione assiologica tra i diversi àmbiti. Tuttavia, sul piano squisitamente giuridico, tale giustificazione veniva ricondotta all’interno dell’art. 2077 c.c. [49] ovvero dell’art. 2113 c.c. [50] attraverso una automatica e, [continua ..]


4. L'incertezza giurisprudenziale

La stessa esperienza giurisprudenziale – all’interno di un “pluralismo nomofilattico” [71] – non ha contribuito in termini di certezza alla sistemazione della materia, dando spesso prova di una frammentarietà ed ambiguità nelle sue pronunce. L’introduzione di una disciplina peggiorativa attraverso il contratto decentrato e i problemi connessi al dissenso individuale, con la richiesta da parte dei lavoratori di applicazione del regolamento contrattuale più favorevole, avevano generato un notevole contenzioso [72]. Anche da questo punto di vista non si può guardare al tema del conflitto tra contratti collettivi di diverso livello in maniera atomistica, senza cioè tener conto delle altre difficoltà ermeneutiche legate all’efficacia soggettiva, per esempio. L’orientamento che si andava consolidando a partire dalla fine degli anni settanta, in direzione di una radicale trasformazione del contesto produttivo, tendeva a risolvere il conflitto tra contratti collettivi di diverso livello superando il principio gerarchico che giustificava l’automatica e meccanica prevalenza del contratto nazionale [73]. Il riconoscimento giudiziale di un’assoluta e piena autonomia del contratto di àmbito più ristretto incontrava, però, alcuni temperamenti laddove la preminenza non veniva più condizionata da elementi ab externo [74] al sistema contrattuale, ma ab interno come il collegamento negoziale, vale a dire dall’e­sistenza di limiti imposti dal contratto nazionale attraverso una o più clausole di rinvio [75]. Inoltre, la Corte di Cassazione affermò il principio in base al quale gli eventuali contrasti tra differenti previsioni contrattuali dovevano essere risolti con l’ausilio di una serie di elementi senz’altro fragili e comunque discrezionali: in primo luogo, l’effettiva volontà delle parti [76] da desumersi attraverso il coordinamento delle varie disposizioni della contrattazione e, in secondo luogo, la presenza di clausole di organizzazione dell’attività contrattuale (per e­sempio, determinazione delle competenze soggettive e oggettive) [77]. A dimostrazione del carattere ondivago e scarsamente omogeneo [78] delle decisioni giurisprudenziali, un altro principio affermatosi, mutuato da un’acuta e [continua ..]


5. Dall'Accordo Scotti al Protocollo 1993

Lo spostamento dei rapporti di forza dal centro alla periferia avvenne, tra l’altro, in assenza di specifiche previsioni sulle procedure e competenze e in generale di una chiara istituzionalizzazione del rapporto tra le diverse sedi contrattuali. La tendenza nei sindacati a non razionalizzare il sistema attraverso la predisposizione di regole stabili e formali per la distribuzione delle competenze tra i vari ambiti negoziali aveva disorientato la stessa giurisprudenza. Dopo l’esperienza dell’accordo del 22 gennaio del 1983 strutturato in termini prevalentemente centralistici, considerati i limiti disposti alla contrattazione decentrata [92], l’occasione per offrire una risposta interna al sistema sindacale fu fornita dall’acuta crisi in cui versava l’economia italiana agli inizi degli anni novanta. L’innovazione del sistema contrattuale [93], dopo la vicenda della scala mobile che aveva “nel bene e nel male costituito un punto di equilibrio del sistema salariale” [94], è stata dettata in primo luogo dall’esigenza di rigore, di austerity si direbbe oggi, imposta ai comportamenti delle parti sociali nella determinazione della dinamica salariale. L’eccezionale turbolenza di quel periodo condusse alla razionalizzazione degli assetti contrattuali e alla predisposizione di due accordi triangolari del 1992 e del 1993. In particolare, il Protocollo del 1993, nel tentativo di uscire da un clima prevalentemente informale, ebbe l’ambizioso obiettivo di scrivere una “carta costituzionale delle relazioni industriali” [95]. Le parti avevano predisposto, tra le altre cose, un insieme di princìpi volti non solo a coordinare la struttura contrattuale, ma soprattutto a dare finalmente certezza alle regole sulla competenza con esplicite indicazioni sulle funzioni riconosciute ai diversi livelli [96]. Infatti, all’interno di un chiaro governo dal centro dei livelli periferici, venne confermata la struttura negoziale bipolare e riconosciuto formalmente un principio di specializzazione e di non ripetibilità delle materie e degli istituti [97], seppur limitatamente a quelli retributivi, già definiti in àmbito nazionale [98]. La sede decentrata divenne un luogo significativo per superare la stagione degli automatismi di adeguamento dei salari al costo della vita e allo stesso tempo sede privilegiata per la [continua ..]


6. Gli accordi separati del 2009

Senonché, dopo un’iniziale capacità di auto-governo delle relazioni industriali [112], la mutata situazione della realtà produttiva e il graduale sviluppo della condizione economica italiana avevano evidenziato una certa debolezza e inefficacia dell’impianto predisposto nel 1993 e reso sempre più urgente un nuovo cambiamento di rotta, più incisivo e coraggioso, vòlto a differenziare funzionalmente (o per competenza) i livelli contrattuali, promuovendo una maggiore specializzazione del contratto decentrato ed estendendone la sua diffusione [113]. La relazione ambivalente e bidirezionale tra le due sedi negoziali [114] diventa uno dei momenti principali, ma anche più conflittuali dell’ultimo decennio. Alla luce di tali considerazioni, nel biennio 2009-2011 vennero predisposte nuove regole e procedure della negoziazione e della gestione della contrattazione collettiva, in sostituzione del regime fino ad allora vigente. Regole che tentarono di dare una risposta concreta alle criticità presenti nel sistema di relazioni collettive, soprattutto con riferimento all’assetto dei livelli negoziali. Procedendo con ordine, l’Accordo quadro del 22 gennaio 2009 – nato dal “vizio genetico” dell’autoesclusione della Cgil [115] – e il successivo Accordo Interconfederale del 15 aprile 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali, hanno dato vita a una fase storica altamente conflittuale. L’A.Q. nel rinviare ai successivi accordi interconfederali la definizione di specifiche modalità, criteri, tempi e condizioni per l’attuazione dei princìpi ivi contenuti, ha confermato il sistema articolato di contrattazione collettiva su due livelli, con il riconoscimento formale – sulla scorta di un consolidato orientamento giurisprudenziale – della possibilità di deroga in peius da parte del contratto decentrato. Sul piano del rapporto tra le due sedi negoziali, l’A.Q. e l’A.I. del 2009 ripercorrono in buona sostanza l’itinerario tracciato dal Protocollo Ciampi-Giugni [116] di decentramento “regolato dal centro” [117], ampliandone, però, i contenuti devolutivi e aumentando i margini di conflittualità. Sotto il primo profilo, la clausola di non ripetibilità, non più limitata alla retribuzione, è stata [continua ..]


7. Il triennio degli Accordi Interconfederali 2011-2014: la ricomposizione dell'unità sindacale

L’internazionalizzazione dei mercati, il fragile impianto edificato dagli accordi separati e i contraccolpi sull’ordinamento intersindacale derivanti dalle vertenze Fiat [129] avevano richiesto un nuovo processo di rimeditazione del complessivo assetto della contrattazione collettiva in termini di effettività [130]. La regolamentazione interconfederale che va dal 2011 al 2014 ha assunto un valore ben oltre gli specifici contenuti perché ha significato la ripresa di un dialogo bruscamente interrotto pochi anni prima ed esploso, soprattutto nel settore metalmeccanico, con la tormentata stagione degli accordi separati [131]. Se si esclude la parentesi dell’Accordo Interconfederale sulle Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia del 2012 (non firmato dalla Cgil) [132], sono almeno tre gli accordi unitari intervenuti in quegli anni: l’Accordo interconfederale del 28 giugno 2011, con la postilla del 21 settembre dello stesso anno, il Protocollo di intesa del 31 maggio 2013 e il Testo Unico del 10 gennaio 2014, che riassume, con qualche novità, i due precedenti accordi [133]. “L’autoricomposizione secondo nuovi equilibri” [134] e le tecniche di governo del conflitto collettivo [135] rappresentano il tratto caratteristico e attraverso tale elemento devono essere interpretati gli accordi, seppur può avanzarsi sul piano dell’effettività qualche nota. Nel merito, ci si occuperà solo di alcuni aspetti relativi alla presente indagine, rinviando per l’analisi complessiva alla copiosa letteratura in materia. Orbene, “tra simboli e fatti” [136], anche nel T.U. 2014 [137] il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello viene declinato sotto il profilo della certezza, questa volta per conciliare competitività dell’impresa e centralità del lavoro, come precondizione di una crescita produttiva, occupazionale, retributiva [138]. Una certezza interna al sistema autonomo e volontaristico, ma funzionale anche agli interessi dell’ordinamento generale e alle richieste europee. È essenziale, si legge, costruire un sistema in grado di dare certezze a tutto campo, con riguardo ai soggetti, ai livelli, ai tempi e ai contenuti della contrattazione collettiva, nonché sulla affidabilità e il [continua ..]


8. L'Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018

Se la postilla del 21 settembre 2011 aggiunta in sede di ratifica all’A.I. 2011 ha rappresentato il “giorno dell’orgoglio” [173] delle parti sociali e un richiamo forte all’autosufficienza dell’ordinamento intersindacale, l’Accordo Interconfederale del 28 febbraio 2018 rappresenta, al di là dei contenuti della proposta, un ottimo esempio di autogoverno del conflitto. Sul piano del merito appare ben lontano dalle aperture di credito a favore di una regolazione decentrata del lavoro, seppur governata dall’alto. L’impianto è tutto incentrato sulla predisposizione di nuove regole che possano offrire certezza ed effettività all’ordinamento intersindacale. Le parti intendono riordinare il sistema di relazioni industriali con alcune rilevanti novità. Il più importante tassello, fino ad ora forse un po’ troppo trascurato, è rappresentato dalla misurazione certificata della rappresentanza non solo dei sindacati dei lavoratori, ma anche delle associazioni imprenditoriali [174]. L’obiettivo è di fronteggiare il fenomeno dei contratti pirata e in generale del dumping contrattuale [175] anche attraverso la regolamentazione del “pluralismo competitivo della rappresentanza dei datori di lavoro” [176]. Del resto, il discorso sulla democrazia sindacale non può prescindere da quello dei soggetti [177], anche datoriali. Rinviando per un’analisi più approfondita di tutti gli aspetti del “Patto per la Fabbrica” [178], sul piano del rapporto tra contratti collettivi le parti inseguono, con una formula elegante, un modello di “governance adattabile” in grado di assicurare coerenza di sistema [179]. Riaffiora anche in questo testo l’esigenza di certezza e stabilità: “la competitività delle imprese e la valorizzazione del lavoro si possano meglio conseguire affidando ai diversi livelli di contrattazione collettiva compiti e funzioni distinti entro un quadro regolatorio flessibile, ma coerente nel suo disegno complessivo e, quindi, organico e certo” [180]. Attraverso un vero e proprio decalogo in cui il gubernum è ben saldo nelle mani della contrattazione centrale è stato ribadito il sistema fondato su un livello nazionale e uno aziendale, ovvero territoriale laddove [continua ..]


9. Il conflitto tra contratti collettivi nell'ordinamento statuale: contratto di prossimità e art. 51 del d.lgs. n. 81/2015

La competenza regolativa del contratto aziendale è stata diversificata negli ultimi anni non solo all’interno dell’ordinamento intersindacale, ma anche per via eteronoma con l’art. 8, l. n. 148/2011 e l’art. 51, d.lgs. n. 81/2015 che segnano un abbandono – sempre per via legale – della prospettiva verticistica e del sistema piramidalmente strutturato tra i diversi livelli della contrattazione collettiva. L’impianto derogatorio investe anche il rapporto tra contratti collettivi di diverso livello, incidendo – attraverso la soluzione eteronoma al problema del­l’efficacia soggettiva – sull’assetto interno all’ordinamento intersindacale. Per fortuna Atene non è un’isola ricordava il vecchio oligarca. Atene lasciò in balìa del nemico l’Attica per conquistare nuovi territori per mare e ciò creò disagio tra la popolazione che già tentava un contatto col nemico, aprendo le porte da terra per farlo entrare. Si potrebbe affermare che la manovra di ferragosto [186] nacque anche dal disagio. Il disagio della crisi finanziaria globale, quello della politica interna e della sua credibilità internazionale, ma soprattutto delle relazioni industriali italiane con la rottura dell’unità d’azione e il trasferimento nelle aule giudiziarie del conflitto. Un’incertezza mal digerita oltre i confini nazionali, come testimoniano i decreti attuativi del Jobs Act. La crisi, nelle sue proteiformi declinazioni, ha sempre rappresentato un fattore di alterazione delle regole di gioco nella dinamica conflittuale, facendo registrare un marcato intervento del legislatore, tutt’altro che contingente, nella regolamentazione dei rapporti individuali e collettivi. La lettera della Banca centrale europea [187] ha trovato così una breccia, una crepa, un sistema fragile, un istmo – per rimanere all’interno della metafora – nonostante l’accordo interconfederale di qualche mese precedente, ricordato positivamente dalla stessa missiva europea [188]. Il riordino delle relazioni tra i differenti livelli è nato e si è sviluppato, come si è avuto modo di osservare, dalla consapevolezza dell’inesistenza nel­l’ordinamento di qualunque dato normativo in grado di sancire l’inderogabilità del contratto collettivo [continua ..]


10. In principio era il conflitto: identità e riconoscimento

Non è l’aspra conflittualità a far crollare le fondamenta edificate dall’or­dinamento sindacale. Anzi. Il conflitto, si potrebbe affermare, è il pane quotidiano del sistema di relazioni collettive [218]. Senza conflitto, pur duro, esacerbato, rovinoso, mancherebbe lo stesso presupposto costitutivo per la formazione dell’ordinamento autonomo. La tenuta del sistema è condizionata, evidentemente, dal grado di condivisione e accettazione delle regole, cioè dei criteri di regolazione individuati dal­l’alto ed è, invece, scossa dall’eventualità di accordi separati che accentuano il rischio del contenzioso giudiziario [219]. La cosiddetta vicenda Fiat, per esempio, non ha rappresentato la parabola discendente del tradizionale assetto delle relazioni industriali. È piuttosto la modalità con cui si è affrontata la presunta crisi a mettere in discussione l’in­tero impianto. La crisi, se davvero possiamo ritenerla tale, dipende dalla mancata accettazione delle regole interne, vale a dire dal non voler riconoscere ed eventualmente risolvere il conflitto con gli strumenti pattizi [220]. In sintesi, la fragilità del principio del reciproco riconoscimento tra i soggetti dell’ordina­mento intersindacale rende il sistema sempre meno propenso alla prospettiva tendenzialmente universale delle regole. Le esigenze di coesione interna possono essere garantite da una regolazione a monte del sistema di relazioni sindacali [221] (com’è avvenuto già con il Protocollo del 1993 e con gli A.I. del 2011-2014), senza però dimenticare che accanto alla fase di conclusione degli accordi vi è quella della loro applicazione, altrettanto importante e, forse, più delicata [222]. Tuttavia, non è sufficiente la razionalità funzionale dell’autonomia collettiva con i suoi criteri interni per eliminare le spinte dissociative e disgregative dei soggetti (la vicenda Fiat ne è il più fulgido esempio) e per garantire la solidità del sistema così come si era delineato. Il dissenso tra i sindacati è un fatto fisiologico e non patologico [223]. Non che questo comporti una perdita di credibilità dell’ordinamento intersindacale che rimane immutato nei suoi presupposti fondativi. È la dimensione della prassi in chiave [continua ..]


11. Dal conflitto collettivo alla giurisdizionalizzazione del conflitto

La tenace e orgogliosa opposizione degli stessi sindacati, desiderosi di risolvere direttamente il conflitto attraverso la capacità di autogoverno delle eterogenee istanze, ha lasciato il posto a una più generosa accettazione dell’in­tervento esterno, ritenuto sempre meno ostile e indebito, all’ordinamento sindacale. Le parti hanno, però, proiettato sull’intervento giudiziale più le “rivendicazioni della propria autonomia [rispetto] ai concreti risultati ottenuti o ottenibili nella dialettica del confronto” [232]. C’è da chiedersi cosa rimanga del principio di reciproco riconoscimento tra gli interlocutori del sistema autonomo [233]. Nell’attuale fase del diritto sindacale italiano si è delineato un nuovo assetto di interessi che ha comportato nuove posizioni di potere, nuovi conflitti e nuove mediazioni. La relazione sempre più intensa tra iniziativa sindacale e tutela giurisdizionale ha implicato un evidente affievolimento dell’autotutela collettiva e un travaso all’interno dell’ordinamento generale degli effetti dell’ordinamento autonomo. In questo modo, è stata in sostanza misconosciuta la reciproca legittimazione e il mutuo riconoscimento tra gli attori del sistema. Negli anni cinquanta e sessanta la ritrosia dei sindacati verso pratiche giudiziali trovava una sua chiara giustificazione in relazione a un marcato pragmatismo, piuttosto che alla difesa di uno specifico profilo identitario [234]. Infatti, in termini di certezza e prevedibilità dei risultati derivanti dal conflitto, i sindacati preferivano non superare i confini granitici dell’ordinamento autonomo anche a seguito di una inadeguatezza degli strumenti tecnici messi a disposizione dal legislatore. Quel certo, certissimo divenne, poi, riecheggiando Flaiano, probabile e i primi dubbi sulla reale capacità delle parti di risolvere il conflitto nelle mura domestiche vennero seminati con il mutare dello scenario economico-sociale, la predisposizione di specifici strumenti normativi, nonché con l’emergere di un “uso alternativo del diritto” [235] sempre più funzionale alle classi subalterne. Il reticolo interno di certezza venne progressivamente sgretolato a favore del contenzioso giudiziale quale strumento prevalente di reazione sindacale. Il conflitto tra Fiat e Fiom e in generale la [continua ..]


NOTE