Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Trasformazioni dell'impresa ed effettività delle tutele (di Luigi Menghini. Già Professore ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Trieste)


Lo scritto ripercorre lo sviluppo del diritto del lavoro italiano relativamente all’effettività delle tutele del lavoratore, muovendo dal periodo d’oro dell’effettività (anni ’70) e giungendo sino al Jobs Act ed al “decreto dignità”. Il punto d’arrivo del legislatore, che sacrifica importanti aspetti dell’effettività per incentivare qualsiasi tipo di occupazione, turba ed avvilisce che si era accostato al diritto del lavoro per l’effettività delle sue norme, ma un certo conforto deriva dalla sentenza della Corte Costituzionale del novembre 2018 in tema di licenziamento, che ha posto un freno all’onnipotenza della legge e ridato un po’ di spazio alla discrezionalità del giudici.

Enterprise transformations and effectiveness of worker protection

The writing goes through the development of the Italian labor law with respect to the ef-fectiveness of worker protection up to the present situation where the effectiveness has eased a lot. Also the disappointment of those who approached labor law for its strong character of effectiveness has been reduced by an important Constitutional Court ruling regarding dismissals. This has put a brake on the omnipotence of the law and has given some space to the discretion of the judges.

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SOMMARIO:

1. Il tema affrontato - 2. Tutela del lavoro ed effettività: il periodo d'oro - 3. La lunga fase della flessibilità in entrata - 4. Sistema delle tutele e mancata svolta degli inizi del nuovo millennio - 5. Il diritto del lavoro ondivago e il Collegato lavoro del 2010 - 6. Il nuovo diritto del lavoro. Le prime tappe: riforma Fornero e decreti Letta - 7. Il Governo Renzi ed il Jobs Act, Atto I - 8. Il Jobs Act, Atto II ed il diritto del lavoro completamente nuovo: la legge delega n. 184/2014 - 9. I decreti delegati e la perdita di effettività del diritto del lavoro - 10. Effettività della tutela e calo del contenzioso - 11. Jobs Act ed obiettivi occupazionali non mantenuti - 12. Dopo il Jobs Act: la legge n. 81/2017 ed il 'Decreto dignità' - 13. La sentenza della Corte Costituzionale sul licenziamento e la ripresa di spunti per l'effettività - NOTE


1. Il tema affrontato

In un convegno che, per dare omaggio alle straordinarie doti scientifiche ed umane di Carlo Cester, invita ad approfondire gli effetti delle trasformazioni dell’impresa sulle tutele del lavoro, intendo svolgere qualche riflessione sul grado di effettività che il nuovo contesto normativo e socio-economico fa assumere a parti rilevanti della nostra materia. Le recenti innovazioni hanno profondamente ridotto l’ampiezza della protezione del lavoratore e soprattutto la sua effettività, senza alcuna concreta compensazione sul piano della maggior protezione nel mercato [1]. Chi pensava che tagliando il sistema di protezione sarebbe aumentata l’occupazione ha trovato una puntuale smentita nei fatti: l’occupazione è tornata a calare appena la crescita è rallentata ed appena finiti i forti incentivi economici a favore delle assunzioni a tempo indeterminato sono di nuovo cresciuti i vari contratti con termine finale. I progetti e le idee generali prospettati per uscire da questa situazione mi sembrano irrealistici ed inapplicabili nel contesto attuale (novembre 2018) o comunque molto limitati e spesso contraddittori, come avviene per l’intervento sul lavoro del Governo giallo-verde, sbandierato sui social come soluzione a tutti i problemi di precarietà e povertà. Almeno per me, oggi è difficile scorgere possibilità di profondi cambiamenti di rotta nel futuro immediato e, non trovando nemmeno io ricette convincenti, mi chiedo, con grande delusione, cosa stia a fare. Ultimamente, però, alcune sentenze della Corte Costituzionale [2] hanno ridato fiato a concezioni che, valorizzando i riferimenti sistematici interni ed eurounitari, cominciano a frenare gli atteggiamenti di onnipotenza del legislatore e ridanno senso a riflessioni che, oltre ad approfondire il significato del “massacro” [3] subito negli ultimi anni dal nostro diritto del lavoro, cercano di porre rimedio in concreto ai danni provocati dal “terremoto” del biennio 2014-2015, di salvare le soluzioni positive e di prospettare soluzioni sistematiche “micro”, destinate col tempo ad essere inserite all’interno di ricostruzioni generali. Cerco, quindi, di riassumere l’evoluzione del diritto del lavoro con riguardo alla sua fondamentale caratteristica (l’effettività), dando uno sguardo anche al futuro.


2. Tutela del lavoro ed effettività: il periodo d'oro

Sono sempre stato attirato dalla verifica delle conseguenze delle innovazioni normative sulla vita concreta delle persone. Ho scoperto il diritto del lavoro nell’a.a. 1970-71 e, preparando la tesi di laurea negli anni successivi, ho visto come risalisse nel tempo il problema della scelta degli strumenti migliori per rendere effettive le norme poste a protezione del lavoratore, specie dalla Costituzione. E la passione per il diritto del lavoro, con il quale alcuni di noi pensavano si potesse cambiare, se non il mondo, almeno il nostro Paese, è accresciuta in presenza dei dati sulla prima applicazione dello Statuto dei lavoratori, che evidenziavano come la legge stesse trovando una indiscussa attuazione concreta [4]. Negli anni ’70 il diritto del lavoro è effettivamente riuscito a cambiare la vita a milioni di persone, come del resto hanno fatto anche altre importanti riforme (famiglia, sanità, sofferenza psichica, ecc.), apprestando tutele nuove o rendendo effettive tutele tradizionali a lungo non attuate. È indiscusso che a tutto ciò abbia molto contribuito anche il contesto generale dei mutamenti sul piano politico, economico, sociale, ed in particolare l’acqui­sizione di maggior peso della sinistra e dei sindacati dei lavoratori, in un contesto di sviluppo economico che si pensava illimitato nel tempo, ma è altrettanto diffusa l’opinione che ricollega l’effettività delle norme anche ad alcune intuizioni sul piano strettamente giuridico: le regole dei primi due Titoli dello Statuto dei lavoratori e in particolare la previsione della reintegra nel posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo hanno di molto rafforzato le posizioni individuali e tolto il tradizionale metus di far valere le proprie ragioni; l’art. 28 Stat. lav. ha garantito l’effettiva presenza attiva del sindacato all’in­terno delle aziende ed ha avuto il merito, ove necessario, di bonificare i luoghi di lavoro da arcaiche prassi vessatorie [5]. Nel 1973 ha preso l’avvio, poi, il nuovo processo del lavoro. La sua gratuità, la relativa celerità, la rivalutazione dei crediti, la gestione sindacale del contenzioso e la nuova cultura di molti giudici hanno contribuito ad avverare in modo davvero rilevante le norme protettive astratte [6]. L’istituzione della cassa integrazione straordinaria per i dipendenti delle imprese industriali per le [continua ..]


3. La lunga fase della flessibilità in entrata

Dalla seconda metà degli anni ’70 e sino a tutti gli anni ’80 e ’90, di fronte alle ricorrenti fasi di crisi economica e finanziaria, vi è stata una sostanziale tenuta delle tutele nell’uscita dal rapporto e della loro effettività, mentre quelle in entrata hanno mostrato continui parziali cedimenti con passaggio, lento e contrastato, ma alla fine vincente, al sistema della flessibilità, spesso amministrata o contrattata, al quale ha corrisposto il mantenimento di un ruolo forte del sindacato che, tuttavia, ha cominciato ad esprimersi non più solo in termini rivendicativi, ma anche con specifiche forme di partecipazione ed assunzione di responsabilità sul piano generale e delle singole aziende [10]. Dopo la prima crisi petrolifera e la conseguente obsolescenza dell’intero settore industriale, l’inflazione galoppante e l’esigenza di ristrutturazione e riconversione delle imprese hanno condotto agli interventi che limitavano gli effetti degli automatismi salariali (ricordati per i tetti legislativi posti all’au­to­nomia contrattuale) ed alla legislazione “dell’emergenza”, che ha introdotto con estrema gradualità e prudenza il sistema della flessibilità delle tutele [11], accompagnato da vari interventi di sostegno alle aziende in crisi che alla fine si riducevano ad un esasperato uso della cassa integrazione [12]. Nei due decenni successivi le tendenze appena riassunte si sono rafforzate. Gi anni ’80 si sono aperti con la marcia dei 40 mila, e cioè degli impiegati e quadri della Fiat che protestavano contri i picchetti che impedivano loro di entrare in azienda e lavorare: l’evento è giustamente considerato il primo segnale della parzialità delle aree professionali tutelate dal sindacato tradizionale e dell’inizio del ridimensionamento del suo potere, eroso dalla disaffezione operaia dovuta alla sua collaborazione alla gestione delle crisi e dall’affermarsi di nuove professionalità che lamentavano scarsa attenzione [13]. La novità più rilevante del periodo è costituita dall’avvio del nuovo sistema di gestione delle politiche del lavoro e delle relazioni industriali basato sugli accordi triangolari tra Governo e parti sociali, i cui esiti all’oc­correnza (con estrema lentezza e laboriosità) venivano trasfusi in atti [continua ..]


4. Sistema delle tutele e mancata svolta degli inizi del nuovo millennio

Sino a questo momento il diritto del lavoro non era molto cambiato, specie nel suo corpo centrale, rispetto a quello del periodo d’oro, anche se le inconcludenze della seconda metà degli anni ’90 iniziavano ad evidenziare le sue difficoltà nell’affrontare fenomeni nuovi. All’inizio del nuovo millennio, invece, con la riforma del lavoro a termine e con il c.d. decreto Biagi, si è cercato di cambiare rotta in modo deciso, ma i risultati pratici non sono stati tanto rilevanti rispetto ai progetti teorici in cui si inserivano. Quanto alla prima, le innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 368/2001, pur enfatizzate dal Governo di allora nella relazione che accompagnava il decreto [24], si sono affiancate a clamorosi silenzi su aspetti fondamentali sia delle condizioni sostanziali richieste per l’apposizione della clausola, sia delle conseguenze del loro mancato rispetto: con il tempo i giudici li hanno colmati ripristinando, pur a costo di un gigantesco contenzioso di cui sono stati responsabili non loro, ma alcune, poche, aziende, una disciplina praticamente non molto dissimile rispetto a quella precedente [25]. La vicenda relativa al d.lgs. n. 276/2003 (c.d. decreto Biagi) è più complessa. Una concezione del diritto del lavoro che rompeva drasticamente con il passato era contenuta nel Libro bianco del Governo Berlusconi dell’ottobre 2001, caratterizzato dall’esaltazione dell’autonomia individuale del lavoratore e dal contemporaneo ridimensionamento del ruolo del sindacato; all’accentua­zione della flessibilità avrebbero dovuto accompagnarsi, peraltro, un miglioramento del sistema di sostegno del reddito e di welfare. Questa nuova visione dell’intero diritto del lavoro, prevalentemente contestata dalla dottrina [26], è stata inizialmente combattuta, una volta tradottasi in un disegno di legge governativo, da tutte e tre le confederazioni storiche dei sindacati dei lavoratori, che sono riuscite, nell’ambito di un conflitto sociale molto aspro, ad ottenere l’accantonamento delle ipotesi di modifica dell’art. 18 dello Statuto e di ampliamento delle soluzioni arbitrali. Questi risultati hanno indotto Cisl e Uil, ma non la Cgil, nel luglio 2002, alla stipula con il Governo e controparti datoriali, del “Patto per l’Italia” [27], cui poi è seguita l’approvazione del disegno così [continua ..]


5. Il diritto del lavoro ondivago e il Collegato lavoro del 2010

A forza di moltiplicare i contratti atipici, dopo il 2005 ha cominciato a prendere consistenza il problema della precarietà. All’incremento delle assunzioni con tipologie contrattuali diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato si è accompagnata la formazione di un mercato del lavoro secondario che non comunicava con quello principale: la flexsecurity teorizzata a livello europeo con il Libro Verde del 2006 non riusciva ad essere attuata nel nostro Paese sul versante del sistema di sicurezza [36], con conseguente emarginazione soprattutto di giovani e donne. Per questa ragione la lotta alla precarietà del lavoro ha costituito uno dei punti principali del programma del secondo Governo Prodi e nel corso del 2006 varie proposte sono state prospettate al riguardo. Risultati concreti sono stati raggiunti con vari meccanismi di stabilizzazione di rapporti precari nel lavoro pubblico, ma in quello privato la “Riforma del Welfare” del dicembre 2007, in attuazione del relativo Protocollo del luglio precedente, ha inciso davvero poco (alcune tipologie contrattuali introdotte dal decreto Biagi sono state eliminate [37] o rese meno elastiche [38]), ma non vi è stato tempo, per la caduta del governo, di avviare le novità sul terreno del sostegno al reddito e del Welfare [39]. L’approvazione di questa legge è costata la vita dell’esecutivo ed il successivo secondo governo Berlusconi, proseguendo il moto ondivago del diritto del lavoro italiano [40], pur senza prospettare nell’immediato riforme generali, ha subito ripreso la strada del ripristino delle precedenti ipotesi flessibili (lavoro intermittente [41] e somministrazione di lavoro a tempo indeterminato [42]), dell’attribuzione alla contrattazione collettiva della facoltà di derogare le nuove norme sul limite dei 36 mesi per la successione dei contratti a termine con lo stesso lavoratore e le regole sulle precedenze [43], del tentativo, fallito, di attenuare la temporaneità delle occasioni di lavoro che giustificavano il contratto a termine [44] e di eliminare la “sanzione” della trasformazione del rapporto in caso di clausole nulle apposte, in pratica, nei contratti a termine stipulati da Poste Italiane [45]. Nella seconda metà del 2008 è iniziata la grande crisi finanziaria mondiale, con effetti devastanti sulle [continua ..]


6. Il nuovo diritto del lavoro. Le prime tappe: riforma Fornero e decreti Letta

La crisi economica e finanziaria ha toccato il suo culmine nel nostro Paese nell’estate del 2011, quando i mercati non lo hanno più ritenuto in grado di fronteggiarne gli effetti interni, facendo salire lo spread a più di 500 punti. Con una lettera del 5 agosto le istituzioni europee e internazionali hanno spinto per la caduta del Governo Berlusconi e la costituzione di un governo tecnico. Ne è nato l’esecutivo di Mario Monti, già commissario europeo, caratterizzato da un indirizzo di rigoroso contenimento della spesa pubblica e delle prestazioni sociali. Le raccomandazioni europee e internazionali invitavano il nostro Governo ad effettuare tutta una serie di riforme strutturali, tra cui quella del mercato del lavoro in attuazione della logica della flexsecurity, all’interno della quale il tema del licenziamento era centrale. Il Governo Monti e la maggioranza della grande coalizione hanno prima drasticamente riformato il sistema pensionistico e poi dato vita ad un estenuante e inconcludente confronto con le parti sociali sulla riforma del mercato del lavoro. Ad un certo punto il Ministro del lavoro, Elsa Fornero, ha presentato un disegno di legge che scontentava tutti, ma che è stato approvato dal Parlamento in tempo utile per un summit europeo di fine giugno 2012 nel corso del quale è servito per far accettare il deficit ed il debito italiani [58]. I partiti della “strana maggioranza” di allora, in concomitanza con le elezioni amministrative ed in vista di quelle politiche del 2013, piuttosto che concentrarsi su pochi punti chiari e condivisi, hanno preferito mostrare all’opinione pubblica di aver ceduto il minimo possibile rispetto alle loro tesi su ogni specifico punto. Ne è nato un provvedimento lungo e complesso, di difficile lettura e foriero di incertezze e confusione. La legge 28 giugno 2012, n. 212 (riforma Fornero) per la prima volta ha aumentato la flessibilità sia in entrata che in uscita, ma lo ha fatto in modo tormentato, contraddittorio ed equivoco. La legge enunciava esplicitamente il proprio obiettivo fondamentale: dar vita ad un mercato del lavoro inclusivo e dinamico, in grado di contribuire sia alla crescita dell’occupazione, non solo numerica ma anche qualitativa, sia alla crescita sociale ed economica. Tra i vari strumenti destinati a raggiungerlo indicava, per quanto qui interessa, quelli volti a favorire l’instaurazione di [continua ..]


7. Il Governo Renzi ed il Jobs Act, Atto I

Malgrado tutti questi interventi normativi [83], la recessione economica ha bloccato ogni miglioramento sul terreno dell’occupazione. Quando quest’ulti­ma ha toccato minimi inauditi, per dare una scossa al Paese in via d’urgenza, il Governo Renzi, succeduto a quello Letta nel febbraio 2014, ha puntato su una serie di incentivi di carattere generale, incentivando fortissimamente prima il contratto a termine, poi quello a tempo indeterminato, e proseguendo la stretta contro le collaborazioni autonome. La prima scelta è avvenuta con il decreto Renzi-Poletti della primavera del 2014 [84] che, modificando il testo del d.lgs. n. 368/2001, ha rivoluzionato la disciplina della materia generalizzando la possibilità di assunzioni a termine a-causali, pur mantenendo il testo del comma 01 dell’art. 1 introdotto dalla legge Fornero (“il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”). Il singolo contratto a termine veniva ammesso senza necessità di alcuna causale per un massimo di tre anni e con possibilità di 5 proroghe all’interno dello stesso contratto, ma nel rispetto del limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato. Dai limiti qualitativi, basati sulle causali, si è passati a limiti esclusivamente di durata e quantitativi; il superamento delle percentuali, modificabili ad opera della contrattazione collettiva, comportava espressamente soltanto una sanzione amministrativa (art. 5, commi 4-septies e 4-octies). Il decreto poneva vari problemi applicativi: la nuova disciplina della proroga era scritta senza tener conto del venir meno della causali; non era del tutto chiaro il modo di conteggiare i dipendenti ai fini delle percentuali; ci si chiedeva se il superamento delle stesse, oltre alla sanzione amministrativa, potesse comportare anche la nullità della clausola con tutte le relative conseguenze [85]. Questi problemi (ma non altri) sono stati risolti dal d.lgs. n. 81/2015, che ha recepito, con lievi modifiche, il decreto Renzi-Poletti [86]. L’attenzione degli studiosi si è concentrata, tuttavia, non su questi aspetti particolari, ma sul significato generale del decreto e sulla sua conformità alla disciplina euro unitaria. Sul primo aspetto va innanzitutto ricordato che l’eliminazione della necessità delle causali, da un lato, ha fatto intravedere una piena [continua ..]


8. Il Jobs Act, Atto II ed il diritto del lavoro completamente nuovo: la legge delega n. 184/2014

L’auspicata scossa all’occupazione non c’è stata, dato che a fine dicembre 2014 i dati erano stati ancora negativi ed al limite della drammaticità per i giovani [97], mentre a crescere ancora erano stati i contratti a termine [98]. Il Governo Renzi è allora passato dal Jobs Act, Atto I (costituito dal decreto Renzi-Poletti) al Jobs Act, Atto II, costituito dalla legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 e dai successivi decreti delegati. Il cammino per giungere alla legge è stato lento e tortuoso ed alla fine costellato da astuzie ed accelerazioni. Sulla scorta di quanto affermato dall’art. 1 della legge di conversione del decreto Renzi-Poletti si poteva pensare che dopo la fase emergenziale e provvisoria di grande favore per il lavoro a tempo determinato avrebbero dovuto seguire gli altri capitoli del Jobs Act, uno dei quali volto a riequilibrare la preferenza tra contratto a termine e quello a tempo indeterminato a favore di quest’ultimo. E di fatti nei mesi di giugno e luglio 2014 in Commissione Lavoro del Senato si stava discutendo su un progetto che prevedeva varie deleghe legislative al Governo, tra cui quelle concernenti la riforma degli ammortizzatori e dei servizi per l’impiego, quali prosecuzioni di quanto già innovato dalla legge Fornero, oltre ad una generica “semplificazione dei contratti di lavoro”. In quel frangente la maggioranza dei membri della Commissione aveva trovato un’intesa solo sulle prime due deleghe, ma non sulla terza, quella concernente – come si è poi capito – l’introduzione del contratto a tutele crescenti in relazione all’anzianità di servizio, quale futura forma normale di rapporto di lavoro [99]. Sino all’agosto del 2014, nelle discussioni sulla riforma del lavoro non si parlava di licenziamento e di Statuto dei lavoratori. Da agosto, invece, Renzi, Poletti ed esponenti della maggioranza parlamentare hanno cominciato ad affermarne il carattere obsoleto. Alla fine il Senato, con un voto di fiducia, ha approvato un testo di legge delega misterioso, che non menzionava per nulla la materia del licenziamento, mentre nello stesso tempo il Ministro del lavoro ed esponenti della maggioranza preannunciavano un intervento sul tema, alla fine chiarendo che le innovazioni avrebbero ripreso quanto deciso in una delibera della direzione nazionale del Pd in cui si prevedeva, per i licenziamenti [continua ..]


9. I decreti delegati e la perdita di effettività del diritto del lavoro

La fretta di approvare la legge delega e di emanare i successivi decreti dipendeva dagli stretti legami tra la riforma del lavoro e la legge di stabilità, nel senso che la prima, insieme con altre riforme, doveva far ottenere dagli organismi dell’Unione europea maggiore elasticità circa gli obblighi di bilancio [109]. Dopo la consistente apertura verso il lavoro a termine, doveva essere resa più morbida per le imprese la disciplina del licenziamento e di altri aspetti del rapporto di lavoro, con il contorno di misure di sicurezza. La prima è stata introdotta, anche se solo per i nuovi assunti, dal d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, che nega ogni spazio alla reintegrazione nel posto di lavoro in caso di recesso datoriale privo di giustificato motivo oggettivo e ne restringe di molto quello conservato per l’assenza di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo [110], ridimensionando gli importi degli indennizzi e legandoli rigidamente all’anzianità di servizio, di modo che il costo del licenziamento ingiustificato fosse basso ed esattamente prevedibile [111]. Il livello così basso degli indennizzi ha fatto parlare di mercantilizzazione del lavoro e di rottura di un rilevante equilibrio sociale [112]. Il punto fondamentale, a mio avviso, è che le recenti modifiche, unite a quelle già introdotte dalla legge Fornero, hanno fatto venir meno quella stabilità che aveva giustificato la decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto [113] e con essa il principale strumento di effettività del diritto del lavoro, costituito dalla mancanza di metus nel far valere i propri diritti derivante da una tutela forte in caso di licenziamento ingiustificato [114]. In presenza di contratti flessibili, poi, l’appetibilità della conversione in contratti a tempo indeterminato si riduce di molto se si ottiene solo un rapporto dal quale il datore di lavoro può liberarsi pagando indennità che possono essere veramente basse, oltre che predeterminate. E d’altra parte, le misure che avrebbero dovuto compensare la minore tutela nel rapporto con una serie di protezioni e servizi nel mercato hanno funzionato solo sul versante della tutela del reddito, ma non su quello degli strumenti di ricollocazione al lavoro [115]. Degli altri aspetti del rapporto di lavoro investiti dall’ondata della flessibilità quelli [continua ..]


10. Effettività della tutela e calo del contenzioso

L’effettività del diritto del lavoro è diminuita per tutte le ragioni concernenti le modifiche subite dal diritto sostanziale sin qui riassunte, ma qualche effetto sul punto è stato prodotto anche dal calo del contenzioso che da anni si registra in materia di lavoro [121]. Il fenomeno può essere valutato anche positivamente, quale prodotto della maggior certezza delle regole e della loro spontanea maggior osservanza, ma per me dipende in modo prevalente dalla forte riduzione della spinta a ricorrere al giudice nei casi sino a poco fa di maggior interesse per il lavoratore, vale a dire il licenziamento ritenuto ingiustificato ed il termine finale apposto oltre i previsti limiti, casi nei quali può ottenere molto meno di prima [122]. Il calo del contenzioso, tuttavia, a mio avviso dipende anche da un’altra ragione alla quale tendo a dare molta importanza, e cioè la fine della gratuità del processo del lavoro [123] e la crisi della gestione sindacale dell’accesso alla giustizia. Dal 2011 anche per le cause di lavoro è richiesto il pagamento del contributo unificato, con limitate eccezioni e con possibile suo raddoppio in certe evenienze [124]. Quanto alle spese di giustizia, è da tempo venuta meno la prassi della loro compensazione in caso di soccombenza del lavoratore. Pur criticata, questa abitudine aveva contribuito all’ampliamento del contenzioso, a volte favorendo degli abusi, ma in linea di massima agevolando fortemente l’attuazione giudiziale dei diritti. A ad un certo punto, a partire dal 2009, il legislatore, con vari interventi, l’ha limitata moltissimo con l’obiettivo di limitare i costi della giustizia [125]. Prima del recente intervento della Consulta, il testo dell’art. 92 c.p.c. modificato nel 2014 ammetteva la compensazione, oltre che nell’ipotesi, indiscussa, della soccombenza reciproca, soltanto in altri due casi tassativi, e cioè l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto a questioni dirimenti [126].Da ciò che mi si dice, il pagamento del contributo unificato e la possibilità di pagamento delle spese della controparte pone in difficoltà la gestione sindacale del contenzioso e se a ciò si aggiunge il forte peggioramento della situazione economica dei lavoratori, è chiaro che [continua ..]


11. Jobs Act ed obiettivi occupazionali non mantenuti

Si era detto che una riforma che si poneva l’obiettivo di incrementare l’oc­cupazione ed il lavoro stabile doveva essere valutata a seconda dei risultati che avrebbe raggiunto [128]. Cosa ha prodotto il Jobs Act su questo versante? All’inizio i risultati sono stati raggiunti. Grazie agli incentivi economici previsti dalla legge di stabilità per il 2015 [129], nel corso di quell’anno vi è stata una significativa crescita dell’occupazione ed in particolare delle assunzioni a tempo indeterminato, rimanendo stabili quelle a termine [130]. In questo nuovo contesto l’espressione per la quale il contratto a tempo indeterminato costituisce la forma comune dei rapporti di lavoro aveva assunto una effettività molto forte, tale da superare la spinta verso i contratti a termine tentata con la loro quasi liberalizzazione dal decreto Renzi-Poletti. La legge di stabilità per il 2016 (legge n. 208/2015) ha ridotto gli incentivi contributivi a favore di chi assumeva a tempo indeterminato nel corso dello stesso anno [131] e di conseguenza il 2016 ha visto, rispetto al 2015, un freno della crescita delle assunzioni a tempo indeterminato ed un aumento di quelle a termine [132]. La ripresa occupazionale del 2015 e 2016 ha riguardato soprattutto la popolazione più matura, toccando pochissimo il settore giovanile [133]; per questa ragione la finanziaria per il 2017 ha concentrato la decontribuzione sulle assunzioni dei giovani. La situazione del 2017, tuttavia, in mancanza di una decontribuzione di carattere generale a favore delle assunzioni stabili, malgrado la lieve ripresa economica, ha rivisto una forte crescita dei contratti a termine ed un rispettivo calo di quelli a tempo indeterminato, il che ha condotto il legislatore, con la legge di bilancio 2018 (legge 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, commi 100 e ss.) ad introdurre dal 1° gennaio 2018 un esonero contributivo strutturale a favore dei datori di lavoro privati (non quelli di lavoro domestico) in relazione alle assunzioni a tempo indeterminato con contratto a tutele crescenti, sia a tempo pieno che a tempo parziale, ovvero alle trasformazioni, dalla stessa data, di contratti a termine in contratti sine die, di soggetti che non abbiano ancora compiuto nel 2018 trentacinque anni di età o trent’anni dal 2019. Questi incentivi non hanno avuto successo e nel 2018 si è tornati ad un boom di [continua ..]


12. Dopo il Jobs Act: la legge n. 81/2017 ed il 'Decreto dignità'

Dopo il Jobs Act ed i suoi mille decreti, la fase del diritto del lavoro italiano apertasi nel 2014 si è conclusa con la legge del 22 maggio 2017, n. 81 che, per la parte concernente il lavoro autonomo, estende forme di tutela ridotte, rispetto a quelle proprie del lavoro subordinato (a loro volta trasferite anche alle collaborazioni etero organizzate), al lavoro autonomo in cui “nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo tra le parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa” (art. 15, che modifica l’art. 409, n. 3, c.p.c.). I contenuti delle tutele attengono sia ai rapporti com­merciali con i committenti sia alle esigenze personali del lavoratore. È indubbio che rispetto alle tante sottolineature della debolezza dei lavoratori autonomi, il rilievo concreto dell’intervento non è eclatante, ma non può sfuggire il contributo di chiarezza (relativa) apportato dalla legge e la possibilità di riprendere la riflessione teorica sul lavoro ed i lavori partendo da basi di diritto positivo e cercando che il tutto non porti ad un indebolimento generale [136]. Per la parte che concerne il lavoro agile, la legge si propone di contemperare gli interessi delle aziende (“incrementare la competitività”) e quelli dei lavoratori (“agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”) affidandosi ad un accordo tra le parti che promuova il lavoro agile stabilendo le modalità di esecuzione del rapporto di lavoro, che possono prescindere da precisi vincoli di orario o luogo di lavoro e prevedere l’utilizzo di strumenti tecnologici, nonché l’esercizio del potere di controllo sulla prestazione resa fuori dai locali aziendali. Si è molto discusso sulla scelta di affidarsi all’autonomia individuale, facendo fare passi indietro alla protezione eteronoma, legale e contrattuale [137]. Rimango dubbioso sulla forza contrattuale dei lavoratori agili, ma non mi sfugge che l’accordo può fissare dei paletti importanti, se vi è la forza di farli valere, soprattutto per evitare l’isolamento del prestatore e favorire il suo inserimento nell’organizzazione complessiva e la sua crescita personale. Il lavoro agile, quello, autonomo o subordinato, sulle piattaforme digitale costituisce indubbiamente una rilevante frontiera per il diritto del [continua ..]


13. La sentenza della Corte Costituzionale sul licenziamento e la ripresa di spunti per l'effettività

Sono frequenti le affermazioni per le quali negli ultimi anni il diritto del lavoro ha cambiato verso o funzione, passando dalla tutela del soggetto debole a quella del soggetto forte [144], dalla considerazione della persona, con i suoi valori, principi e diritti, alla considerazione delle esigenze “naturali” dell’im­presa [145]; i valori che lo ispirano sono quelli dell’efficacia e dell’utilità, con ciò essendo cambiato il paradigma scientifico della nostra materia [146]. In questo contesto, da una parte, vi è chi assegna al giuslavorismo il compito di individuare dei limiti ineludibili nella salvaguardia dei “diritti dell’uomo” oltre i quali non sarebbe comunque possibile andare [147] o ritiene che ormai il diritto del lavoro potrà svolgere una utile funzione di partecipazione alla trasformazione della società e di costruzione di diversi modelli di sviluppo sociale solo a seguito della migrazione di milioni di uomini nuovi, con mutazione antropologica della composizione demografica dei paesi europei [148]. Dall’altra, vi è chi non si meraviglia che siano cambiati i paradigmi della materia degli anni ’70, se tutto è mutato di ciò che la circonda, e non ritiene un male ricercare nuovi orizzonti valoriale che tengano ferme le tutele sociali, ma in una prospettiva compatibile con la riscoperta dei valori di autonomia e responsabilità individuale [149]. Infine, vi è un atteggiamento che invita non usare, nei confronti della recente legislazione, toni esaltati o drammatici, lasciando perdere le contrapposte narrazioni dei policy makers ed essendo pronti a valorizzare i principi espressi ed inespressi che condizionano ogni innovazione legislativa [150]. Forse quest’ultima posizione è stata un po’ profetica. Tutti noi orfani del ’68 dobbiamo abbandonare lo sgomento ed il senso di impotenza nei confronti del sommovimento attuato con il Jobs Act e certo non attenuato dalla legge n. 81/2017. Per noi il colpo è stato forte, specie se visto nell’ottica di questa mia riflessione sul tasso di effettività delle norme di protezione e nella consapevolezza che non sarà facile concepire un nuovo diritto del lavoro capace di conciliare le esigenze di tutela con la globalizzazione dei mercati e degli investimenti e con la contemporanea presenza di [continua ..]


NOTE
Fascicolo 2 - 2019