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La retribuzione del socio di cooperativa tra principi costituzionali e vincoli di sistema
Susanna Palladini (Prof. associato di diritto del lavoro dell’Università di Parma)
L’articolo esamina la disciplina del trattamento economico del socio lavoratore di cooperativa: partendo dall’interpretazione delle diverse disposizioni contenute all’interno della legge n. 142/2001, il saggio cerca di evidenziare i punti di specialità della disciplina, mettendo in risalto le ricadute del collegamento negoziale sulla disciplina tipica del rapporto di lavoro.
This essay has the scope to examine the rules governing cooperative shareholder’s emoluments. Starting with the interpretation of various provisions contained in L. n. 142/2001, this article highlights the disciplines’ peculiarities, focusing on the implications of related agreements on the standard regulation.
Keywords: Cooperative working, cooperative shareholder, emoluments, collective bargaining agreements, enforcement and derogatability
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1. Premessa
La “specialità” del rapporto di lavoro del socio di cooperativa trova in materia di retribuzione – insieme alla inapplicabilità dell’art. 18 St. lav. ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo – una delle sue maggiori estrinsecazioni, a dimostrazione, secondo alcuni, che in base al disposto normativo di cui alla legge n. 142/2001, soprattutto all’indomani della cd. «controriforma» di cui alla legge n. 30/2003, il rapporto associativo prevarrebbe su quello di lavoro e ne giustificherebbe l’allontanamento dalla disciplina tipica di alcuni dei suoi principali istituti [1]. La portata di questa impostazione, per quanto generalmente condivisa, deve essere attentamente valutata proprio in relazione alla disciplina del trattamento economico del socio lavoratore, per verificare se effettivamente ragioni di specialità portino all’applicazione di regole sostanzialmente diverse da quelle riferibili ad un lavoratore non socio, oppure non siano piuttosto procedure diversificate per arrivare ad un risultato analogo a quello riscontrabile al di fuori di questa particolare struttura contrattuale. Del resto, lo stesso motivo trainante dell’iniziativa riformatrice è stato quello di legittimare l’invasione di campo del diritto del lavoro rispetto al diritto societario per offrire al socio lavoratore garanzie e tutele recuperate direttamente dalla disciplina dell’impiego privato per così dire “ordinario”, per cui, per non vanificare lo sforzo, non pare possa negarsi una geometria del collegamento tra i due contratti che sia bi-direzionale [2], per dare ingresso, con la stipulazione dell’«ulteriore rapporto di lavoro, in forma subordinata o autonoma, o in qualsiasi altra forma, ivi compresi i rapporti di collaborazione non occasionale (…) (a)i relativi effetti di natura fiscale e previdenziale e tutti gli altri effetti giuridici rispettivamente previsti dalla legge, nonché in quanto compatibili con la posizione del socio lavoratore, da altre leggi o da qualsiasi altra fonte» (art. 1, comma 3, legge n. 142/2001).
La “specialità” del rapporto di lavoro del socio di cooperativa deve dunque essere intesa come “reagente” del diritto del lavoro nel contatto con il contesto cooperativistico: questo determina che tra lavoratore non socio e socio lavoratore vi sia identità di contratto, ma non identità di trattamento, perlomeno non in tutte le situazioni. I due momenti maggiormente nevralgici del rapporto di lavoro, infatti, vale a dire il trattamento economico e la tutela contro il licenziamento illegittimo, sono dal legislatore disciplinati in modo da non lasciare spazio al vaglio della compatibilità, come per altri istituti, ma vengono disciplinati direttamente in base alle ripercussioni derivanti dal collegamento negoziale connaturale alla figura del socio lavoratore.
Per quanto riguarda il trattamento economico, nel fisiologico andamento del rapporto, il socio riceve una retribuzione in tutto paragonabile a quella del lavoratore ordinario, ma la presenza dello scopo mutualistico interviene autorizzando modifiche che misurano le ripercussioni reciproche tra i due rapporti di cui egli è parte.
2. Il trattamento economico del socio di cooperativa: art. 36 Cost. e applicazione del contratto collettivo
La disciplina del trattamento economico del socio di cooperativa, con contratto di lavoro subordinato, si compone di tre principali disposizioni; la prima, contenuta all’art. 3, comma 1, prevede che il trattamento economico complessivo dovrà essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato, e comunque non inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine: un andamento per così dire “orizzontale” che ricalca lo schema del lavoro “ordinario”; nella stessa logica, ma con una direzione “verticale verso l’alto”, si riscontra la previsione di cui all’art. 3, comma 2, che ammette trattamenti economico ulteriori, deliberati dall’assemblea, ed attribuiti a titolo di maggiorazione retributiva (lett. a), oppure di ristorni, se risultanti dal bilancio di esercizio e in misura non superiore al 30% dei trattamenti economici complessivi (lett. b): fin qui, dunque, la distanza dallo schema classico del lavoro privato non appare significativa, riprendendo la distinzione tra soglia minima retributiva, propria del livello contrattuale nazionale, e trattamenti economici ulteriori, rimessi invece alla contrattazione collettiva aziendale o territoriale di secondo livello. Più rilevante quanto disposto dall’art. 6, comma 2, che autorizza ad una variazione “verticale verso il basso” del trattamento economico da parte del regolamento, il quale, nel rispetto del «solo trattamento economico minimo di cui all’art. 3, comma 1» può contenere disposizioni derogatorie in peius [3].
Il principio che governa la materia retributiva del socio pare dunque essere l’art. 36 Cost., non richiamato espressamente ma traslato direttamente all’interno della legge nella formulazione relativa alla proporzionalità, così da divenire non un inutile pleonasmo [4], ma la conferma che, nel momento in cui il socio instaura con la cooperativa un ulteriore rapporto di lavoro subordinato, anche a quest’ultimo vanno applicate le disposizioni costituzionali circa la giusta retribuzione [5].
È vero che la specificazione originaria della legge n. 142 andava oltre, nel momento in cui riconosceva il diritto, per il socio, non già ad avere riconosciuto un trattamento minimo, bensì un trattamento economico «complessivo» non inferiore a quello di base definito dal contratto collettivo di riferimento. In tal senso, la norma originaria forniva una interpretazione estensiva dell’art. 36 Cost., perché ciò che veniva garantito come inderogabile in peius non avrebbe riguardato solo i minimi [6], bensì tutte le voci retributive (straordinario, festivo) e le retribuzioni differite [7]. Le critiche sollevate sul punto dai primi commentatori rilevavano la possibile incostituzionalità dell’art. 3 della legge n. 142 se interpretato nel senso di ritenere le società cooperative obbligate all’applicazione dei contratti collettivi nei confronti dei soci lavoratori subordinati: vi sarebbe contrasto con l’art. 39 Cost., in quanto si andrebbe a generalizzare l’efficacia dei contratti collettivi di diritto comune [8].
Tuttavia, in risposta a questi rilievi, è stato osservato come la norma di cui all’art. 6, comma 1, lett. a), nel prevedere che «il regolamento deve contenere in ogni caso: a) il richiamo ai contratti collettivi applicabili», conferma che l’applicazione del contratto collettivo rimane del tutto libera, e, solo se operata, questa deve essere esplicitamente formulata anche all’interno del regolamento [9]. Nel prevedere ciò, la legge non strumentalizzerebbe il regolamento interno al fine di costringere la cooperativa ad applicare il contratto collettivo [10], ma si limiterebbe a palesare, attraverso il regolamento, il contratto collettivo che la cooperativa intende applicare, sempre che lo voglia. Ed allora il regolamento non diviene strumento di estensione dell’efficacia del contratto collettivo, ma documento di riferimento nel richiamo di un contratto che è già applicabile, in base alle ordinarie regole di vincolatività, ai lavoratori subordinati [11]. Piuttosto, la limitazione al potere derogatorio del regolamento si spiega in riferimento a quegli eventuali casi in cui la cooperativa non sia vincolata all’applicazione di un contratto collettivo, per i lavoratori subordinati ovvero per quelli con rapporto diverso, e si voglia loro garantire un trattamento rispettoso delle previsioni contrattuali del settore o delle categorie affini.
Sul punto, l’interrogativo più problematico dovrebbe invece essere quello riferito alla legittimità di un eventuale obbligo, per la cooperativa, all’applicazione del contratto collettivo, quando tale previsione non sussiste per gli altri datori di lavoro. Nascerebbe, in tal caso, un problema di coerenza, ed eventualmente, di conformità alla Costituzione, nei confronti dell’art. 45, comma 1, Cost.: l’applicazione del contratto collettivo potrebbe diventare, infatti, anziché semplice onere, motivo di sfavore, e di limite, allo sviluppo della cooperazione [12]. In realtà, l’art. 45 Cost., se letto come sollecito al legislatore ordinario per assicurare il carattere e le finalità della cooperazione, ben potrebbe accompagnarsi ad uno strumento di tutela dei soci lavoratori quale costituito dal riconoscimento di condizioni economiche non inferiori a quelle minime stabilite dai contratti collettivi. Gioca a favore di questa lettura una seconda ragione, sottesa all’approvazione della legge n. 142/2001, quella di garantire la libera concorrenza all’interno del mercato comune, in precedenza compromessa dall’esistenza di una normativa frammentaria che permetteva, nelle cooperative, un costo del lavoro inferiore rispetto a quello del lavoro privato [13].
Per quanto concerne la parte retributiva, dunque, le cooperative continueranno ad applicare, nei confronti dei propri soci lavoratori, i parametri della contrattazione collettiva nazionale di riferimento, garantendo il trattamento complessivo nella sua globalità [14], e ad utilizzare lo strumento regolamentare per determinare eventuali corresponsioni differenziate [15]. Questa interpretazione costituzionalmente orientata risulta oggi avvalorata dal giudizio sull’art. 7, comma 4, d.l. 31 dicembre 2007, n. 248, convertito in legge 28 febbraio 2008, n. 31, ai sensi del quale «fino alla completa attuazione della normativa in materia di socio lavoratore di società cooperativa, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, le società cooperative che svolgono attività ricomprese nell’ambito di applicazione di quei contratti di categoria applicano ai propri soci lavoratori, ai sensi dell’art. 3, comma 1, legge 3 aprile 2001, n. 142, i trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria»: la censura di illegittimità costituzionale, ricondotta non solo alla sostenuta attribuzione di efficacia erga omnes al di fuori delle condizioni previste dall’art. 39, comma 4, Cost., ma anche nella imposizione al giudice, in presenza di una pluralità di contratti collettivi di settore, «di applicare un trattamento retributivo non inferiore a quello previsto da alcuni di tali contratti, senza una previa valutazione ex art. 36 Cost. del diverso contratto collettivo applicato» [16] in ragione dell’affiliazione sindacale dell’impresa, viene dalla Corte Costituzionale rigettata perché fondata su un erroneo presupposto interpretativo: l’articolo in questione, «lungi dall’assegnare ai predetti contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, efficacia erga omnes, in contrasto con quanto statuito dall’art. 39 Cost., mediante un recepimento normativo degli stessi, richiama i predetti contratti, e più precisamente i trattamenti economici complessivi minimi ivi previsti, quale parametro esterno di commisurazione, da parte del giudice, nel definire la proporzionalità e la sufficienza del trattamento economico da corrispondere al socio lavoratore, ai sensi dell’art. 36 Cost.». Recuperando poi la ratio sottesa all’emanazione della norma che si voleva censurare, ossia il tentativo di contrastare «l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazione datoriali e sindacali di non accertata rappresentatività, che prevedano trattamenti retributivi potenzialmente in contrasto con la nozione di retribuzione sufficiente, di cui all’art. 36 Cost.», la Corte gli attribuisce il significato di avvalorare la fonte collettiva per la sua capacità di recepire l’andamento delle dinamiche retributive in cui operano le società cooperative, ritenendo conformi ai requisiti di proporzionalità e sufficienza i trattamenti retributivi contenuti nei contratti collettivi firmati da associazioni comparativamente più rappresentative [17].
3. La retribuzione variabile
Dalla partecipazione all’attività sociale vengono direttamente collegate le due ulteriori voci che compongono il trattamento economico del socio, e la cui previsione aggiunge un ulteriore tassello alla “specialità” della fattispecie del lavoro in cooperativa. Dall’attività di impresa può scaturire una serie di vantaggi economici che, legati all’esistenza di una realtà mutualistica, necessitano di appositi strumenti per essere ridistribuiti tra i soci [18] Le due forme suppletive di compenso sono previste, rispettivamente, alla lett. a) dell’art. 3 – le c.d. “maggiorazioni” – e alla lett. b) dello stesso articolo – i c.d. “ristorni” [19].
Le maggiorazioni sono stabilite dall’assemblea dei soci, ma la loro commisurazione è sottratta alla libera determinazione dell’organo societario, per essere rimessa a criteri predefiniti dai contratti collettivi, in linea con la natura retributiva riconosciuta a tali emolumenti, che ne attrae la regolamentazione anche sotto il profilo contributivo e dei privilegi [20]. Doppia la legittimazione che si richiede, però, alla fonte contrattuale che dispone dei criteri circa le modalità di erogazione delle maggiorazioni: da un lato, il consenso sindacale deve provenire da associazioni del movimento cooperativo, per parte datoriale, di rilevanza nazionale, così come, per parte dei lavoratori, le organizzazioni stipulanti devono possedere il crisma della maggiore rappresentatività comparata; dall’altro, la contrattazione può essere di qualsiasi livello, anche territoriale o aziendale, purché sia mantenuta la partecipazione di rappresentanze nazionali alla stipulazione [21]. L’intervento della contrattazione collettiva mette al riparo da possibili dubbi interpretativi circa la fruibilità pratica di tali maggiorazioni. Infatti, la necessità di parametrare gli altri tipi di retribuzione diversi da quelli di lavoro subordinato a valori correnti e congrui in relazione al tipo, alla quantità e alla qualità del lavoro svolto, poteva porre il problema di come individuare il parametro quantitativo definito al quale rinviare attraverso le deliberazioni dell’assemblea [22]. Il passaggio dalla contrattazione collettiva appare, in questo senso, necessario, proprio per allontanare le incertezze possibili riguardo l’ammontare di eventuali maggiorazioni.
L’altra forma di compenso suppletivo, i ristorni, sono invece ad esclusiva competenza assembleare, con l’unico vincolo di non superare il 30% della retribuzione di base e del trattamento eventualmente riconosciuto ai sensi dello stesso art. 3, lett. a) [23]. Le somme così erogate concorrono alla formazione di quel vantaggio mutualistico che sta alla base della cooperativa: la condizione di maggior favore, rispetto al mercato, nelle cooperative di produzione e lavoro si traduce nella previsione di una retribuzione maggiore di quella offerta dall’impiego ordinario, mediante somme aggiuntive che possono derivare direttamente, attraverso la corresponsione di «retribuzioni pari al provento netto dell’impresa», oppure, in maniera indiretta, «corrispondendo ai soci retribuzioni pari a quelle correnti per la generalità dei lavoratori e solo successivamente, in relazione all’andamento dei costi e dei ricavi, corrispondendo ai soci le differenze tra le retribuzioni già corrisposte e i ricavi» [24].
Una delle modalità di attribuzione dei ristorni è quello della integrazione della retribuzione. Sul punto, all’indomani dell’approvazione delle legge n. 142, si è aperto un dibattito interpretativo circa la natura di tali emolumenti. Da una parte, che affermava la non appartenenza dei ristorni alla retribuzione, basandosi sulla previsione di cui all’art. 4, comma 2, in cui vi è l’esplicita esclusione degli stessi dalla contribuzione previdenziale: da qui, veniva fatto discendere il loro inquadramento tra gli utili di gestione: «infatti il lessico della disposizione sarebbe stato più adeguato se avesse semplicemente fatto riferimento alla remunerazione, anziché alla retribuzione, dal momento che questa integrazione è erogabile a favore anche dei soci non subordinati che tecnicamente non ricevono retribuzione dalla cooperativa» [25]. Dall’altra parte, chi ricollegava la definizione della natura del ristorno dal disposto dell’art. 3, comma 2, il quale, sotto la definizione di trattamento economico ulteriore, accomuna i ristorni alle maggiorazioni retributive ammesse a seguito di contrattazione collettiva, anche di secondo livello, da attuarsi fra i sindacati dei lavoratori e associazioni di rappresentanza e tutela delle cooperative [26]. Lo stesso art. 4, poi, confermerebbe questa lettura quando va ad assoggettare i ristorni alle norme fiscali valide per le imposte sui redditi da lavoro dipendente, e li esclude dalla sola contribuzione a fini previdenziali. Più corretta pare questa seconda interpretazione, che valorizza il collegamento dei ristorni con il rapporto di lavoro (in coerenza con la loro inclusione nell’ambito del trattamento economico del socio lavoratore), e non con quello associativo come accadrebbe, al contrario, ricollegandoli agli utili e, quindi, ad una forma di remunerazione del capitale [27]. Solo in tale maniera è poi possibile spiegare la previsione delle diverse ed alternative forme che i ristorni possono assumere pur restando accomunate dalla funzione di trattamento economico, senza divenire, cioè, «modelli autonomi di compenso» [28].
L’effettuazione del confronto fra la corresponsione della retribuzione, contrattualmente determinata, e l’attribuzione del ristorno nelle cooperative di lavoro, permette di osservare che mentre nel caso della retribuzione, sussistendo i presupposti di rispondenza alla quantità e qualità del lavoro svolto, sorge un vero e proprio diritto del socio lavoratore alla percezione del salario; nel caso del ristorno non pare configurabile un diritto del socio lavoratore alla percezione di una remunerazione aggiuntiva e l’esistenza di un obbligo della cooperativa alla corresponsione dello stesso, poiché ciò non trova alcuna corrispondenza nella legge. Di conseguenza, non appare configurabile un diritto soggettivo del socio al ristorno, ma semplicemente l’esistenza di una aspettativa che rimane in ogni caso subordinata alla determinazione di un bilancio economico di esercizio in positivo [29].
Le altre due modalità di attribuzione del ristorno possono realizzarsi attraverso aumento del capitale sociale sottoscritto e versato, ovvero attraverso la distribuzione gratuita di titoli azionari di partecipazione alla società cooperativa. Anche in questo caso, vale la limitazione quantitativa del 30% dei trattamenti retributivi complessivi (art. 3, comma 2, lett. b) [30]. La legge n. 142 manifesta, così, un interesse normativo a salvaguardare la prevalenza del trattamento economico sulla distribuzione degli utili, in coerenza con la funzione dei ristorni di ripartire tra i soci i maggiori ricavi come piena affermazione della causa mutualistica. La stessa legge non mette invece in discussione la funzione dei ristorni, né altera il loro collegamento con il rapporto di lavoro e con la causa mutualistica. Proprio tale interesse giustifica, invece, i sopra visti limiti e vincoli all’autonomia privata [31]. L’intento della riforma, in questo senso, è di limitare le scelte assembleari dalle quali dipende la distribuibilità dei ristorni e la relativa quantità.
4. Retribuzione, contratto collettivo e regolamento
Le previsioni legislative sul trattamento economico del socio lavoratore denotano l’evidente volontà di differenziare il lavoratore socio rispetto al lavoratore ordinario, in ragione del carattere di mutualità che sta alla base causale del contratto del primo, assente, invece, nel secondo. E questo è vero sia nel caso di contratto subordinato, che autonomo.
In questa seconda ipotesi, l’art. 3, comma 1, riconduce quantum dovuto al socio lavoratore autonomo a due diversi parametri di riferimento che, nella loro combinazione, conferiscono quel carattere di innovatività, o, quanto meno, di originalità, già vista nell’ipotesi di lavoro subordinato [32]: innanzitutto, il trattamento economico discenderà dalle previsioni di contratti o accordi collettivi definiti dalla legge 142 “specifici”, a sottolineare il discrimine qualificatorio tra socio lavoratore subordinato e socio lavoratore autonomo. Con ciò il legislatore ha voluto mettere in evidenza la latitanza, fino ad oggi, di una significativa produzione contrattual collettiva applicabile al lavoro autonomo e, dunque, l’intento di non assimilare nel trattamento le due fattispecie, per evitare la creazione di una situazione di appiattimento della fisionomia del socio lavoratore sul solo archetipo di quello subordinato [33]. In via suppletiva, se mancano tali accordi, deve valere il rispetto, in ogni caso, dei compensi medi in uso per prestazioni analoghe rese in forma di lavoro autonomo. La specialità del socio lavoratore autonomo diventa qui interesse diretto del legislatore nello stabilire parametri certi di raffronto: come sarebbe stato, di lì a pochi anni, per il collaboratore a progetto di cui al d.lgs. n. 276/2003, nella premessa della costituzione di un “ulteriore” contratto di lavoro autonomo caratterizzato dalle particolarissime modalità di svolgimento della prestazione (là coordinate e continuative con uno stesso committente, qui con il coinvolgimento diretto del prestatore perché anche parte della compagine sociale), il corrispettivo viene ricollegato ad una misura definita non dalla libera determinazione delle parti, ma da un parametro esterno che ne garantisca l’allineamento alle condizioni di mercato, e scongiuri così lo sfruttamento della prestazione a costi ribassati.
Il trattamento economico del socio lavoratore subordinato invece, come visto, non può «comunque» essere inferiore ai minimi previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine (art. 3, comma 1). Questa disposizione, più che una garanzia ulteriore rispetto a quella offerta ai normali lavoratori subordinati [34], in riferimento alla estensione di minimi contrattuali previsti in settori o categorie affini, costituisce un argine al trattamento economico complessivo, che non può quindi scendere al di sotto di quanto riconosciuto ai lavoratori ordinari: ciò significa che la proporzionalità “speciale” degli emolumenti del socio di cooperativa si compone di un parametro sicuro, quello della contrattazione collettiva nazionale, pur se “mobile”, perché oscillante tra il medesimo settore e le categorie affini, proprio al fine di poter individuare quel trattamento in grado di rendere il carattere “qualitativamente” diverso della prestazione del socio, ricompensata in modo più vantaggioso rispetto a quanto accadrebbe applicando le regole ordinarie, riferite alla sola, propria, contrattazione collettiva. La formula utilizzata dal legislatore non può per questo dirsi meramente tralatizia, né sostenere quanti vorrebbero vedere in essa, in realtà, un utilizzo, con altre parole, del principio di sufficienza di cui all’art. 36 Cost. [35].
Né pare possa trarsi argomento utile a sostenere la limitazione del trattamento economico «complessivo» solamente a quello minimo contrattuale, la modifica apportata dalla legge n. 30/2003 all’art. 6, comma 1, della legge n. 142/2001 [36]: nel circoscrivere i poteri del regolamento, si intende tracciare un confine alla disponibilità dei risvolti patrimoniali del trattamento del socio lavoratore, in considerazione del fatto che tale documento, nel disporre degli altri emolumenti al socio in quanto tale, quali ristorni e distribuzione degli utili, potrebbe utilizzare i secondi per colmare il quantum riferito al primo, e far scadere, perciò, la posizione lavorativa del socio con riferimento al particolare trattamento dovutogli in ragione del vantaggio mutualistico [37].
Le due parallele formulazioni dimostrano la volontà del legislatore di garantire al socio lavoratore un reddito che abbia i caratteri voluti dalla Costituzione, e, per farlo, richiama i riferimenti della contrattazione collettiva nella loro interpretazione “classica” di parametri non imposti dal legislatore – cosa, questa, che ne obbligherebbe l’applicazione generalizzata, a discapito dei principi di cui all’art. 39, Cost. [38] – ma dallo stesso indicati nella misura in cui possono valere a rispondere alla garanzia costituzionale di cui all’art. 36, primo comma, Cost. [39]. Parametro costituzionale che, tuttavia, per non risultare pleonastico [40], deve ritenersi riferito non ai soli trattamenti minimi, ma al trattamento economico risultante dall’intero complesso delle clausole retributive dei contratti collettivi. Così interpretata la norma, oltre a recuperare significato sul piano logico, in ragione della necessaria distinzione che il trattamento del socio lavoratore deve avere rispetto al trattamento del lavoratore non socio, dimostra nuova coerenza rispetto al successivo, e novellato, art. 6, comma 2.
La modifica al divieto di deroghe in peius mette maggiormente in risalto la riacquisizione, da parte del regolamento, della capacità di conferire una effettiva specialità al rapporto di lavoro – attraverso deroghe alle condizioni generali di lavoro previste dai contratti collettivi – piuttosto che la volontà di chiarire la misura del trattamento economico del socio lavoratore. La nuova espressione utilizzata, di «trattamento economico minimo», non permette infatti una perfetta sovrapposizione con la norma di cui all’art. 3, comma 1, visto che il rinvio formale a quest’ultima da parte dell’art. 6, comma 2, richiama entrambi i concetti di «trattamento economico complessivo» e di «minimi» previsti dalla contrattazione collettiva, presupponendo che il divieto di deroghe da parte del regolamento di estenda in entrambe le direzioni, sia quella rivolta ai corrispettivi complessivi erogati in proporzione alle quantità e qualità del lavoro svolto, sia quella ricavata, in assenza di diverse disposizioni, dai trattamenti, anch’essi da intendersi come complessivi, rispondenti ai parametri di cui alla contrattazione collettiva. Solo così, del resto, può cogliersi coerenza con la complessiva formulazione dell’art. 3, comma 1, che riferisce allo stesso contesto di trattamento economico anche quello per lavoratori non subordinati che sono più spesso sprovvisti di contrattazione collettiva ed hanno, invece, «compensi medi» ai quali risulta difficile riferire la nozione di «minimo retributivo» a quella identificabile con la retribuzione sufficiente di cui all’art. 36, comma 1, Cost. [41]. Più della reiterazione dell’aggettivo «minimo» potrebbe forse valere la scomparsa, tra art. 3, comma 1, e art. 6, comma 2, del predicativo «complessivo»; ma, anche in questo caso, l’interpretazione va condotta considerando tutti i riferimenti contenuti nelle due norme, e l’esplicito rinvio, nella seconda, a quanto previsto nella prima, non può che portare a riconoscere un medesimo complemento oggetto – trattamento economico – cui riferire la concordanza di entrambi gli aggettivi, «complessivo» e «minimo», e che del resto non offre, di per sé solo, alcun criterio selettivo in grado di suffragarne la lettura più restrittiva [42].
Questa impostazione permette di salvaguardare la “specialità” del rapporto di lavoro del socio sotto il profilo retributivo, che riesce in questa maniera a dare seguito al contributo che «comunque» questi dà al raggiungimento degli scopi sociali; e, nel contempo, mantiene spazi al regolamento interno per specializzare il trattamento del socio per profili non economici, ovvero incidenti su quella parte di vantaggio mutualistico non identificabile con la retribuzione – derivante direttamente dal rapporto di lavoro – ma definita quale “ristorno”, che trova al contrario il proprio titolo di derivazione dal contratto associativo. Le deroghe in peius al trattamento economico del socio vanno infatti a toccare quella parte di ricavo economico derivante dalla partecipazione al rischio d’impresa, delimitata dal legislatore ai ristorni, per non generare evidenti profili di incompatibilità con le voci che, al contrario, perché riconducibili al contratto di lavoro ed al concetto di retribuzione, godono delle caratteristiche di quest’ultima.
5. Poteri dell’assemblea in caso di crisi aziendale e derogabilità del trattamento economico del socio lavoratore
L’esigenza di un contemperamento tra il valore della mutualità e quello della tutela del lavoro si rivela centrale se considerato alla luce della disciplina introdotta per la gestione dei casi di crisi aziendale. La legge prevede che sia il regolamento ad intervenire in tali evenienze, attribuendogli la possibilità di introdurre deroghe, anche significative, ai trattamenti economici previsti per i soci lavoratori, che costituiscono, come visto, la principale estrinsecazione del vantaggio mutualistico legato alla partecipazione cooperativa [43].
La prima previsione derogatoria è quella della lett. d), comma 1, dell’art. 6, con la quale si riconosce all’assemblea dei soci il potere di elaborare, prima, e di deliberare, poi, un piano di crisi aziendale, il cui obiettivo fondamentale è quello della salvaguardia dei livelli occupazionali [44]. Obiettivo, questo, realizzabile ricercando, evidentemente, forme di risparmio per la società, recuperabili prima di tutto dalle voci accessorie del trattamento economico dei soci lavoratori: ristorni, prima, ed utili, poi. La possibilità di intervenire su entrambi questi fronti è parso ad alcuni un’estensione fittizia più che reale, visto che in caso di crisi aziendale difficilmente saranno conteggiabili avanzi di gestione da poter destinare, quali utili, ai soci: in tal modo, la previsione di divieto di distribuzione diventerebbe «oggettivamente superflua» [45]. Maggiormente effettiva, invece, la previsione di una riduzione, se non anche di una eliminazione completa [46], del trattamento di cui all’art. 3, comma 2, lett. b), da limitare comunque nel senso della temporaneità in ragione della soluzione della crisi aziendale.
La parte disponibile del trattamento economico risulta dunque solo quella eccedente i «minimi retributivi», salvaguardati oggi, a seguito della riformulazione da parte dell’art. 9, legge n. 30/2003, anche da incursioni, in senso diminutivo, del regolamento (art. 6, comma 2) [47]. Questa riscrittura permette, ad un tempo, di dare sostegno a quanti, commentando la prima versione dell’art. 6, reclamavano uno spazio di intervento, da parte del regolamento, per quella parte del trattamento economico ricompresa nella lett. a), comma 2, dell’art. 3, quale maggiorazione sulla retribuzione stabilita a livello di contrattazione collettiva. L’affermazione di una precisa preclusione ad un intervento della cooperativa per convogliare nel piano di crisi aziendale anche le maggiorazioni di cui all’art. 3, comma 2, lett. a) si fondava sulla riconosciuta natura retributiva di tale voce, che sarebbe valsa ad impedirne la disponibilità unilaterale da parte della cooperativa [48]. Già in quel contesto, c’era chi, valendosi della riconosciuta «specialità della retribuzione cooperativa» [49], sosteneva l’ammissibilità di temporanei abbassamenti dei livelli retribuitivi dei soci, anche di quelli rapportabili alle maggiorazioni di cui alla lett. a) del comma 2, art. 3, visto che le stesse, collegate all’andamento complessivo della società, potevano avvicinarsi in qualche maniera agli emolumenti ulteriori dati da conguagli di fine bilancio e, quindi, dai ristorni, per loro natura aleatori e, quindi, riducibili nell’ammontare. L’abrogazione del riferimento ai «trattamenti retribuitivi (…) previsti dai contratti collettivi nazionali di cui all’art. 3» apre oggi ad uno spazio liberamente aggredibile unilateralmente dalla società, previa deliberazione assembleare: si tratta delle maggiorazioni di cui alla lett. a) del comma 2, art. 3, non più ricomprese nel trattamento economico minimo salvaguardato anche da deroghe in peius del regolamento nella sola parte richiamata all’art. 3, comma 1. Se infatti la riduzione della remunerazione avrebbe richiesto, normalmente, la specifica adesione ed il consenso espresso dal socio [50], l’attuale formulazione dell’art. 6, comma 2, suggerisce invece l’opposta conclusione per cui il regolamento può contenere, oltre le previsioni circa lo stato di crisi e le conseguenti deliberazioni assembleari, anche una clausola che si aggiunga a quelle disposizioni e facoltizzi un intervento su quella parte di remunerazione che poteva pensarsi, al contrario dei ristorni, esclusa per sua natura dalla partecipazione al rischio d’impresa [51].
Un ulteriore vulnus alla normale intangibilità dei trattamenti economici viene inferto dalla previsione, contenuta nell’art. 6, comma 1, lett. e) che attribuisce all’assemblea la facoltà di deliberare apporti anche economici da parte dei soci lavoratori per favorire la soluzione della crisi aziendale. Parrebbe in questo caso configurarsi non tanto un principio di responsabilità diretta dei soci per le obbligazioni sociali, quanto piuttosto quello di un potere di disponibilità dell’apporto sociale in capo all’assemblea, secondo modalità, ed in presenza di determinati presupposti, che sarà cura del regolamento precisare. La formula usata dal legislatore consente di riconoscere l’eventuale contributo richiesto al socio lavoratore non come decurtazione del salario, ma come diminuzione del reddito complessivo quale componente della compagine sociale, che mantiene un carattere di straordinarietà e, in quanto tale, non può essere oggetto di applicazione estensiva [52]. Ed è proprio la specialità del contesto in cui si inserisce la norma che suggerisce di leggere l’imposizione dell’apporto richiesto ai soci non solo in chiave strettamente monetaria: l’uso della congiunzione «anche» può infatti lasciare intendere apporti di altra natura, identificabili, nel caso di soci lavoratori, con una prestazione supplementare di attività, parzialmente o completamente non remunerata [53]. Così interpretata, però, la norma finirebbe per consentire ad una eventuale autorizzazione dell’assemblea a frustrare l’identità del rapporto mutualistico, negando la condizione di miglior favore, rispetto al mercato, che determina il costituirsi dell’ulteriore contratto di lavoro [54]. Prevedere forme di lavoro “coatto”, anche se consensualmente stabilite, vorrebbe dire privare il socio di una delle prerogative fondamentali del suo ruolo di lavoratore all’interno della cooperativa, lasciandogli, di fronte ad un dissenso circa l’imposto autofinanziamento, l’unica alternativa di uscire dalla compagine sociale sciogliendo contestualmente il rapporto di lavoro.
Queste considerazioni spingono a ritenere maggiormente corretta un’interpretazione restrittiva della congiunzione «anche», che limiti la capacità dispositiva dell’assemblea al solo vantaggio mutualistico, quale dato dai ristorni e dalle altre eventuali maggiorazioni economiche: da quegli emolumenti, cioè, che, come detto, non vengono versati in ottemperanza al sinallagma contrattuale riferito al rapporto di lavoro, ma sono più propriamente riconducibili al vincolo associativo che affianca quello di lavoro, condizionandone la regolamentazione. È dunque ben possibile che la richiesta, da parte dell’assemblea, sia più propriamente economica, anche se riferita a conferimenti che si traducono, nella pratica, nel versamento di quella parte delle retribuzioni o di quegli emolumenti ulteriori attribuiti al socio lavoratore in ragione dell’esistenza dell’originario rapporto associativo [55].
Il peso delle scelte assembleari sui soci, nei casi di crisi aziendale, impongono una attenta verifica non tanto, o non solo, delle opzioni in sé, quanto della sussistenza effettiva, e della conseguente dichiarazione, dello stato di crisi, e della congruità del piano escogitato per superarla. Un’indagine in questo senso, lasciata al vaglio giudiziale conseguente all’impugnativa delle delibere assembleari, incontra qui, come del resto nel settore privato non cooperativo, il limite della valutazione di una scelta imprenditoriale insindacabile [56]. Tuttavia, la sede assembleare, e quindi la partecipazione e la condivisione, anche da parte di chi impugna la delibera, alle scelte organizzative e produttive, possono suggerire spazi valutativi normalmente preclusi al giudice, poiché l’istruttoria sull’idoneità dei piani di crisi aziendale va confrontata, in questo caso, con la posizione ricoperta dal socio lavoratore rispetto al rischio di impresa: nella sua doppia veste, questi può invocare una salvaguardia in riferimento solamente a quella parte della retribuzione coperta dalla tutela di cui all’art. 36 Cost., mentre, all’infuori di questa, si riespande la considerazione degli spazi di equo contemperamento i principi di cui all’art. 41 Cost. [57].
6. La promozione dell’imprenditorialità e la deliberazione del piano di avviamento
Il favor verso lo sviluppo di nuova imprenditorialità “mutualistica” viene realizzato con la previsione, contenuta con espresso richiamo nel regolamento, di una speciale facoltà all’assemblea di «deliberare un piano di avviamento alle condizioni e secondo le modalità stabilite in accordi collettivi tra le associazioni nazionali del movimento cooperativo e le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative» (art. 6, comma 1, lett. e).
La finalità è, chiaramente, quella di agevolare, sotto il profilo economico – che, si suppone, all’inizio non facile [58] – le nuove iniziative imprenditoriali di matrice cooperativa. Il sostegno è indirizzato unicamente a nuove entità, e non a meri settori che vengono a crearsi per diversificare la produzione, ma che si innestano su strutture già esistenti e operanti sul mercato: la norma, infatti, appare del tutto complementare ai paralleli provvedimenti di carattere generale che sono studiati per recare incentivi alle aziende di nuova costituzione che intendano, così, favorire la creazione di nuova occupazione [59]. La previsione del vincolo mutualistico è, in questo caso, motivo non di vantaggio individuale e diretto, ma collettivo e indiretto, che va ad incidere non sul rapporto associativo, attraverso forme di conferimenti economici ulteriori rispetto a quelli inizialmente versati, ma sul trattamento economico dei soci, mediante la sua riduzione [60]. L’intangibilità, da parte del regolamento, del solo trattamento economico minimo di cui all’art. 3, comma 1, ripropone qui la possibile eccezione alla regola per i casi considerati alle lett. d) e) ed f) dell’art. 6, comma 1, e ammette perciò che, anche in sede di piano di avviamento, vi possa essere un accordo collettivo che vada ad incidere sul complessivo trattamento economico dei soci, comprensivo di quello “minimo”, nonché su eventuali condizioni di lavoro che siano disponibili da parte dell’autonomia collettiva [61].
La mutualità, nel caso del piano di avviamento, si indirizza dunque verso l’esterno, per realizzare una sorta di «contratto di inserimento» [62] rivolto non direttamente ai singoli lavoratori, ma ad una nuova attività produttiva svolta nella forma della cooperativa, in grado di offrire ritorni occupazionali, anche a scapito della garanzia del trattamento economico minimo [63]. Lo scambio mutualistico va ricondotto in questo caso non ad una condizione occupazionale di maggior favore, ma ad una occupazione tout court che permetta l’inserimento, o il reinserimento, di lavoratori nel mercato. Ed è allora ovvio che il sacrificio economico possibile non sarà primariamente quello, come nei casi di crisi aziendale, riferito ai ristorni e agli utili, ma, sin da subito, quello che ricomprende l’intero trattamento economico, visto che il vantaggio mutualistico non è qui dato da una maggiore remunerazione, ma da una remunerazione senza aggettivi, e che si contrappone, quale elemento di miglior favore in sé, ad una condizione di disoccupazione. Del resto, diversamente argomentando, se l’interpretazione da dare alla lett. f) fosse quella riferibile ai soli trattamenti di cui all’art. 3, comma 2, lett. b) o, al più ed in subordine, lett. a), «la disposizione in esame sarebbe pleonastica ed inutile perché è nelle cose che il piano di avviamento verrà deliberato dalla prima (o dalle prime) assemblee sociali, prima dell’inizio dell’attività della cooperativa e delle correlate prestazioni lavorative dei soci» [64].
Il ruolo riservato, in questo processo, alla contrattazione collettiva, garantisce, anche se in via generale ed astratta, la correttezza delle linee di definizione del piano di avviamento, ed il rispetto di criteri di deroga ai trattamenti dei soci oggettivi e necessari, anche se non si ritiene indispensabile un accordo ad hoc, risultando sufficiente una qualche clausola generale presente negli accordi o contratti collettivi di cui agli artt. 2 e 3, legge n. 142/2001 [65]. Una tale previsione, adottata in sede collettiva, non obbliga comunque di per sé la cooperativa di nuova costituzione a deliberare un piano di avviamento, secondo il disposto della lett. f), comma 1, art. 6; potrebbe infatti essere sufficiente una contrattazione collettiva specifica, questa volta, in cui siano presenti criteri e limiti per circoscrivere l’eventuale ricorso iniziale ad un intervento riduttivo della remunerazione del lavoro [66].
NOTE
[1] L. DE ANGELIS, La disciplina del lavoro cooperativo dopo la legge 14 febbraio 2003, n. 30, in L. MONTUSCHI, P. TULLINI (a cura di), La cooperativa e il socio lavoratore. La nuova disciplina, Giappichelli, Torino, 2004, 30; G. RICCI, Il lavoro nelle cooperative tra riforma e controriforma, in Dir. merc. lav., 2003, 337. Contra, nel senso di ridimensionare la portata innovativa della modifica lessicale, G. MELIADÒ, Nuove incertezze per il lavoro in cooperativa, in Foro it., 2003, V, 134; M. PALLINI, Il rapporto di lavoro del socio di cooperativa dopo la riforma del 2003, in Riv. giur. lav., 2004, I, 204. Più recentemente, M.C. CATAUDELLA, La retribuzione del socio di cooperativa, in Mass. giur. lav., 2015, 9 ss.
[2] Sul punto cfr. M. PALLINI, La “specialità” del rapporto di lavoro del socio di cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 371; M. DE LUCA, Nuova normativa sulla posizione del socio lavoratore di cooperativa (legge 3 aprile 2001, n. 142), in Foro it., 2001, V, 232; M. MISCIONE, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001), in Dir. prat. lav., 2001, n. 34, inserto, VI; M. TREMOLADA, Relazioni tra rapporto sociale e rapporto di lavoro, in L. NOGLER, M. TREMOLADA, C. ZOLI (a cura di), La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in Nuove leggi civ. comm., 2002, 373.
[3] La capacità determinativa del regolamento è stata limitata dall’intervento della legge n. 30 del 2003, che ha sostituito alla garanzia dell’intero «trattamento retributivo e condizioni di lavoro» il «solo» trattamento economico minimo indicato all’art. 3, comma 1: cfr. M. IENGO e C. MARIGNANI, Socio lavoratore e rapporto di lavoro, in I regolamenti delle cooperative per i soci lavoratori dopo la legge n. 142/2001, in Dir. prat. lav., 2001, n. 47, inserto, III.
[4] L. DI PAOLA, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore (commento alla l. 3 aprile 2001, n. 142), in Nuove leggi civ. comm., 2001, 931; M. MISCIONE, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001), cit., XVII; D. VEDANI, La posizione del socio lavoratore di cooperativa, in Dir. prat. lav., 2003, n. 10, inserto, XXX; ID., Il socio lavoratore di cooperativa, in Dir. prat. lav. Oro, 2002, n. 2, 5.
[5] Cass., sez. lav., 11 novembre 2002, n. 15840, in Guida lav., 2003, 62; ma contra Cass., 17 giugno 1989, n. 4145, in Riv. giur. lav., 1989, II, 94; Cass., 12 dicembre 1986, n. 7434, in Rep. Foro it., voce Lavoro (rapporto), 1986, n. 651.
[6] A. MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in Arg. dir. lav., 2002, 624.
[7] A. ANDREONI, La riforma del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. giur., 2001, 206; F. AMATO, La tutela economica prevista per il socio-lavoratore dalla legge n. 142/2001, in Dir. rel. ind., 2002, 189; M. BARBIERI, Il lavoro nelle cooperative, in P. CURZIO (a cura di), Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, Cacucci, Bari, 2004, 377.
[8] D. VEDANI, La posizione del socio lavoratore di cooperativa, cit., XXXI.
[9] A. MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in L. MONTUSCHI e P. TULLINI (a cura di), Il lavoro in cooperativa tra mutualità e mercato. Commento alla legge 3 aprile 2001, n. 142, Giappichelli, Torino, 2002, 28.
[10] M. BARBIERI, Cinque anni dopo: il rapporto di lavoro del socio di cooperativa tra modifiche legislative, dottrina e giurisprudenza, in P. CURZIO (a cura di), Lavoro e diritti a tre anni dalla legge n. 30/2003, Cacucci, Bari, 2006, 556 ss.
[11] Cfr. D. MEZZACAPO, Lavoro nelle cooperative, in P. LAMBERTUCCI (a cura di), Diritto del lavoro, in Dizionari del diritto privato promossi da N. IRTI, Giuffrè, Milano, 2010, 393; S. LAFORGIA, La cooperazione e il socio-lavoratore, Giuffrè, 2009, 100 ss.
[12] A. VALLEBONA, L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, in Mass. giur. lav., 2001, 813; A. MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in L. MONTUSCHI e P. TULLINI (a cura di), Il lavoro in cooperativa tra mutualità e mercato, cit., 28.
[13] Sia il non obbligo di applicazione, o di rispetto, dei contratti collettivi di riferimento, sia la speciale normativa previdenziale (soprattutto la disciplina di cui al d.p.r. 602 del 1970), avevano creato una sostanziale disparità di partenza fra imprese cooperative e non.
[14] In questo senso Cass., 4 agosto 2014, n. 17583, in Foro it., DVD, sentenza integrale; Cass., 28 agosto 2013, n. 19832, in Foro it., DVD, sentenza integrale.
[15] L. IMBERTI, Il socio lavoratore di cooperativa. Disciplina giuridica ed evidenze empiriche, Giuffrè, Milano, 2012, 183; M. COLUCCI, La giusta retribuzione del socio-lavoratore di cooperativa tra diritto individuale e autonomia collettiva, in Riv. giur. lav., 2011, II, 203.
[16] S. LAFORGIA, La giusta retribuzione del socio di cooperativa: un’altra occasione per la corte costituzionale per difendere i diritti dei lavoratori ai tempi della crisi (nota a Corte Cost., 1 aprile 2015, n. 51), in Arg. dir. lav., 2015, 935.
[17] Corte Cost., 1° aprile 2015, n. 51, in Riv. giur. lav., 2015, II, 493, con nota di M. BARBIERI, In tema di legittimità costituzionale del rinvio al CCNL delle organizzazioni più rappresentative nel settore cooperativo per la determinazione della retribuzione proporzionata e sufficiente; in Dir. rel. ind., 2015, 823, con nota di D. SCHIUMA, Il trattamento economico del socio subordinato di cooperativa: la Corte costituzionale e il bilanciamento fra libertà sindacale e il principio di giusta ed equa retribuzione. Ma vedi già L. IMBERTI, La Coste costituzionale (non) si pronuncia sul trattamento economico del socio lavoratore di cooperativa: perdura il conflitto tra i Ccnl Unci/Confsal e i Ccnl Legacoop, Confcooperative, Agci/Cgil, Cisl e Uil (nota a Corte Cost., 29 marzo 2013, n. 59), in Dir. rel. ind., 2013, 779. Il punto di diritto espresso dalla Corte Costituzionale risulta pienamente recepito dalla giurisprudenza successiva: cfr. Trib. Parma, 12 novembre 2015, n. 367, con nota di G. BONANOMI,Concorrenza tra CCNL, maggiore rappresentatività comparata e trattamento economico del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 2016, II, 433; Trib. Ivrea, 25 novembre 2015, in Leggi d’Italia, 2015.
[18] Consistono in «un rimborso ai soci di parte del prezzo pagato per i beni o i servizi acquistati dalla cooperativa (nel caso della cooperativa di consumo), ovvero in integrazione alla retribuzione corrisposta dalla cooperativa per le prestazioni del socio (nelle cooperative di produzione e lavoro)»: Cass. 8 settembre 1999, n. 9513, in Foro it., 2000, I, 3280, con nota di P. GALLO, La disciplina dei ristorni nelle cooperative.
[19] B. FIORAI, Il «nuovo» lavoro in cooperativa. Tra subordinazione e autonomia, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2002, 213.
[20] In conformità all’ammissione della natura retributiva delle maggiorazioni, infatti, l’art. 5, comma 1, legge n. 142 del 2001 stabilisce in favore del prestatore socio la garanzia del privilegio generale sui beni mobili del debitore, secondo quanto dispone l’art. 2751 bis c.c., privilegio di cui invece non godono i ristorni. Cfr., sul punto, F. AMATO, La tutela economica prevista per il socio lavoratore dalla legge 142/2001, in Dir. rel. ind., 2002, 194; L. DI PAOLA, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, cit., 935; F. ALLEVA, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. giur. lav., 2001, I, 370.
[21] M. MISCIONE, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001), cit., XVII.
[22] B. FIORAI, Il «nuovo» lavoro in cooperativa, cit., 215.
[23] L’assimilazione tra voci retributive e ristorni, utilizzata, in passato, per evitare forme elusive di tassazione di utili di gestione, mascherandoli come ristorni, appare superata oggi dal limite del 30% dei trattamenti retributivi complessivi exart. 3, comma 1, nonché delle maggiorazioni retributive ex comma 2, lett. a): entro tale limite, che si sostituisce quindi alla vecchia soglia del 20% di cui all’art. 47 T.U.I.R., i ristorni verranno assoggettati alla tassazione per i compensi percepiti in ragione dell’attività svolta, mentre al di sopra di tale limite verranno trattati fiscalmente come redditi da impresa.
[24] D. GAROFALO, Il trattamento economico ulteriore, in D. GAROFALO e M. MISCIONE (a cura di), La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, Ipsoa, Milano, 2002, 89.
[25] F. AMATO, La tutela economica prevista per il socio lavoratore dalla legge n. 142/2001, cit., 195.
[26] R. MOSCONI, Le società cooperative, in Il Sole 24 Ore, Milano, 2001, 227.
[27] A. DI PIETRO, Riflessi della riforma del socio lavoratore sull’imposizione dei redditi, in L. MONTUSCHI e P. TULLINI (a cura di), Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, cit., 117; E. CUSA, I ristorni nelle società cooperative, Giuffrè, Milano, 2000; ID., I ristorni, in L. NOGLER, M. TREMOLADA e C. ZOLI (a cura di), La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, cit., 416 ss.
[28] A. DI PIETRO, Riflessi della riforma del socio lavoratore sull’imposizione dei redditi, cit., 120.
[29] Cass., 8 settembre 1999, n. 9513, in Mass. giust. civ., 1999, 1923.
[30] Come per i ristorni attribuiti con la forma della maggiorazione sulla retribuzione, così nei casi di erogazione nelle altre due forme il superamento del limite del 30% del trattamento economico complessivo non produce alterazione della natura del ristorno, né cambia i criteri di imponibilità fiscale. Infatti, la distribuzione oltre la soglia del 30% concreta un comportamento illecito che però non fa venire meno il titolo giuridico di attribuzione che rimane quello del trattamento economico. Ciò permette inoltre di combinare senza difficoltà il carattere retributivo dei ristorni con le diverse forme di prestazioni lavorative previste dalla legge di riforma.
[31] A. DI PIETRO, Riflessi della riforma del socio lavoratore sull’imposizione dei redditi, cit., 120.
[32] ZOLI, Le modifiche alla riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, in M.T. CARINCI (a cura di), La legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro, Ipsoa, Milano, 2003, 299.
[33] B. FIORAI, Il «nuovo» lavoro in cooperativa, cit., 218.
[34] L. FERLUGA, La tutela del socio lavoratore tra profili lavoristici e societari, Giuffrè, Milano, 155; F. ALLEVA, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, cit., 367.
[35] L. FERLUGA, La tutela del socio lavoratore tra profili lavoristici e societari, cit., 154; L. DE ANGELIS, Spunti in tema di lavoro cooperativo dopo la l. 14 febbraio 2003, n. 30, in Foro it., 2003, V, 163; A. MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in L. MONTUSCHI e P. TULLINI (a cura di), Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, cit., 32; G. MELIADÒ, La nuova legge sulle cooperative di lavoro: una riforma necessaria, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 356.
[36] In tal senso cfr. G. DONDI, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi, in Arg. dir. lav., 2004, 97.
[37] L. FERLUGA, La tutela del socio lavoratore tra profili lavoristici e societari, cit., 159; E. CUSA, I ristorni, in L. NOGLER, M. TREMOLADA e C. ZOLI (a cura di), La riforma della posizione giuridica del socio di cooperativa, cit., 415.
[38] M. MISCIONE, Il socio lavoratore di cooperativa (regolamentazione forte dopo la legge n. 142/2001), cit., XVI; F. AMATO, La tutela economica prevista per il socio lavoratore dalla legge n. 142/2001, cit., 191; B. FIORAI, Il «nuovo» lavoro in cooperativa, cit., 218.
[39] G. DONDI, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi, in Studi in onore di Giorgio Ghezzi, Cedam, Padova, 2005, vol. I, 688.
[40] C. ZOLI, Le modifiche alla riforma della posizione giuridica del socio, cit., 299.
[41] Contra G. DONDI, La disciplina della posizione del socio di cooperativa dopo la c.d. legge Biagi, cit., 690.
[42] M. MISCIONE, Soci di cooperativa: applicazione dei Ccnl, cit., 1814.
[43] Sul punto, per una ricostruzione sistematica del ruolo del regolamento, cfr. S. COSTANTINI, Crisi della cooperativa e modifica in peius del trattamento economico dei soci lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2010, I, spec. 310 ss.
[44] M. DE LUCA, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa, cit., 240.
[45] M. DE LUCA, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa, cit., 247.
[46] F. AMATO, La tutela economica del socio lavoratore, cit., 199.
[47] A. ANDREONI, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, cit., 277.
[48] F. AMATO, La tutela economica del socio lavoratore, cit., 199.
[49] G. MELIADÒ, Il lavoro nelle cooperative: tempo di svolte, in Riv. it. dir. lav., 2001, I, 42.
[50] G. MELIADÒ, Il lavoro nelle cooperative: basta la tutela del socio?, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, 703; M. GENGHINI, Il rapporto di lavoro nelle società cooperative, in Dir. lav., 1985, I, 239. In giurisprudenza, Trib. Pistoia, 31 agosto 1999, in Riv. it. dir. lav., 2000, II, 262.
[51] R. COSTI, Il socio lavoratore tra contratto di società e rapporto di lavoro, in L. MONTUSCHI e P. TULLINI (a cura di), Lavoro e cooperazione tra mutualità e mercato, cit., 15.
[52] M. DE LUCA, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa, cit., 247.
[53] A. ANDREONI, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, cit., 278.
[54] F. AMATO, La tutela economica del socio lavoratore, cit., 200.
[55] A. MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, cit., 9.
[56] Cass., 16 dicembre 2000, n. 15894, in Not. giur. lav., 2001, 340.
[57] A. MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, cit., 9.
[58] F. AMATO, La tutela economica del socio lavoratore, cit., 200.
[59] R. MOSCONI, Il regolamento interno delle cooperative di lavoro, in Dir. prat. soc., 2004, 57; F. AMATO, La tutela economica del socio lavoratore, cit., 202.
[60] D. SIMONATO, Il regolamento interno, in L. NOGLER, M. TREMOLADA e C. ZOLI (a cura di), La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa, cit., 473.
[61] D. VEDANI, Le novità per il socio lavoratore di cooperativa, in Dir. prat. lav., 2001, 1315; D. SIMONATO, Il regolamento interno, cit., 473.
[62] L. DE ANGELIS, Il lavoro nelle cooperative dopo la legge n. 142/2001: riflessioni a caldo su alcuni aspetti processuali, in Lav. giur., 2001, 813.
[63] In questo senso, la previsione della legge n. 142 si inserisce, nel senso della continuità, all’interno di quella sperimentata esperienza legislativa volta a ridurre in capo al datore di lavoro gli oneri economici per favorire il mantenimento degli organici, ovvero il riallineamento “controllato” dei trattamenti (contratti di solidarietà esterni; contratti di riallineamento; contratti d’area e patti territoriali): cfr. sul punto D. SIMONATO, Il regolamento interno, cit., 474. Si tratta, perciò, di una sorta di evoluzione di quanto già agli inizi degli anni 90 si prevedeva per la realizzazione di forme di riassorbimento di manodopera espulsa a seguito di processi di mobilità, promuovendo l’autoimprenditorialità degli stessi lavoratori: cfr., sul punto, F. SANTONI, Commento all’art. 20, legge 223/1991, in G. FERRARO, F. MAZZIOTTI e F. SANTONI (a cura di), Integrazioni salariali, eccedenze di personale e mercato del lavoro, Jovene, Napoli, 1991, 140; E. BALLETTI, Commento all’art. 7, legge n. 223/1991, in M. GRANDI e G. PERA (a cura di), Commentario breve alle leggi sul lavoro, Cedam, Padova, 1996, 1041.
[64] F. AMATO, La tutela economica del socio lavoratore, cit., 203.
[65] A. ANDREONI, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, cit., 277.
[66] F. AMATO, La tutela economica del socio lavoratore, cit., 204.