Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Note sul licenziamento disciplinare nel lavoro pubblico contrattualizzato (di Alessandro Boscati, Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Milano)


Il saggio si pone l’obiettivo di analizzare il licenziamento disciplinare nel settore pubblico, ricostruendo la disciplina di riferimento, evidenziando i profili di criticità e suggerendo possibili soluzioni interpretative. L’enunciato obiettivo involge la preliminare ricostruzione dei profili di specialità del potere disciplinare nel settore pubblico, con particolare riferimento alla sua doverosità di esercizio, e poi si sviluppa approfondendo in via specifica le questioni concernenti il licenziamento, con particolare attenzione alle ipotesi tipizzate dal legislatore e alla loro interpretazione alla luce del principio di proporzionalità, per poi passare ad analizzare il rapporto tra procedimento disciplinare e penale, per concludere con l’approfondimento delle tutele riconosciute al dipendente illegittimamente licenziato, anche in un parallelo con il settore privato.

Notes on disciplinary dismissal in privatized public sector employment

The essay aims to analyze disciplinary dismissal in the public sector, reconstructing the reference discipline, highlighting the critical profiles and suggesting possible interpretative solutions. The objective statement involves the preliminary reconstruction of the specialty profiles of disciplinary power in the public sector, with particular reference to its duty to exercise, and then develops by specifically examining the issues concerning dismissal, with particular attention to the hypotheses typified by the legislator and their interpretation in light of the principle of proportionality, to then move on to analyze the relationship between disciplinary and criminal proceedings, to conclude with the in-depth analysis of the protections recognized to the illegitimately dismissed employee, also in a parallel with the private sector.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La specialità della disciplina del potere disciplinare nel settore pubblico - 2.1. Ambito soggettivo di applicazione: personale del comparto e categoria dirigenziale - 2.2. Finalità dell’esercizio del potere disciplinare e doverosità d’esercizio - 2.3. Natura privatistica del potere disciplinare e peculiare assetto dei poteri datoriali nel lavoro pubblico contrattualizzato - 3. Ipotesi legali di licenziamento: generalità - 3.1. Tipizzazioni legislative e principio di proporzionalità - 3.2. Le singole ipotesi tipizzate dal legislatore - 4. Rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale - 5. La tutela nel caso di licenziamento disciplinare illegittimo - 5.1. La reintegrazione generalizzata costituisce una soluzione costituzionalmente necessitata? - 5.2. Il limite massimo delle ventiquattro mensilità alla quantificazione del risarcimento del danno - 5.3. Revoca del licenziamento ed opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione - 5.4. Rideterminazione da parte del giudice della sanzione disciplinare annullata per difetto di proporzionalità - 5.5. Decorrenza della prescrizione dei diritti di credito del lavoratore: la discutibile differenza tra settore pubblico e privato - 5.6. Tutela reintegratoria per il whistleblower licenziato in ragione del­l’intervenuta segnalazione - 6. Riflessioni conclusive - NOTE


1. Premessa

Nel lavoro pubblico contrattualizzato il tema del licenziamento, sia per motivi oggettivi, sia per motivi soggettivi presenta delle indiscusse peculiarità [1]. Il primo, fatte salve alcune limitate ipotesi, quali quelle di sopravvenuta inidoneità alle mansioni o del c.d. factum principis [2], è ricondotto nell’alveo della più ampia disciplina della mobilità collettiva; il secondo è connotato da una normativa speciale, sì da rappresentare sul piano scientifico uno dei temi più dibattuti, rinfocolato da un costante dialogo tra dottrina e giurisprudenza [3]. Indubbiamente, gran parte della nebulosità che ancora oggi avvolge la materia del licenziamento risiede nella sua costante esposizione a discorsi de iure condito e de iure condendo che sovente finiscono con il sovrapporsi senza condurre a un approdo definitivo. Per queste ragioni, con questo contributo si intende offrire al dibattito alcuni spunti di riflessione in tema di licenziamento disciplinare ponendosi sul crinale tra ordinamento positivo e diritto vivente, anche in una prospettiva de jure condendo. Il filo rosso dell’indagine è dato dall’esame della disciplina legislativa e contrattuale che verrà svolto alla luce dell’interpretazione offertane in dottrina e in giurisprudenza, con una attenzione specifica ad alcuni nodi applicativi ancora aperti e meritevoli di una considerazione critica. In particolare sono quattro i temi che verranno approfonditi. Il primo attiene all’ambito di applicazione della normativa in materia disciplinare, alla sostanziale doverosità di esercizio del potere disciplinare ed alla sua natura giuridica, profili intrinsecamente connessi e che si condizionano a vicenda; il secondo concerne l’applicazione del principio di proporzionalità che verrà trattato con specifico riguardo alle tipizzazioni legali delle ipotesi di licenziamento disciplinare, a loro volta oggetto di autonoma analisi; il terzo riguarda il rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale; il quarto, e ultimo, tratta delle tutele riconosciute dall’ordinamento al dipendente pubblico illegittimamente licenziato.


2. La specialità della disciplina del potere disciplinare nel settore pubblico

Al fine di meglio circoscrivere le problematiche concernenti il licenziamento disciplinare occorre preliminarmente affrontare tre questioni: la precisazione dell’ambito di applicazione soggettivo della normativa in materia disciplinare, comprendente anche i dirigenti, la qualificazione dell’esercizio del potere disciplinare in termini di sostanziale doverosità ed, infine, la natura comunque privatistica da riconoscere al potere disciplinare nell’ambito di un peculiare assetto dei poteri datoriali.


2.1. Ambito soggettivo di applicazione: personale del comparto e categoria dirigenziale

La prima importante precisazione concerne l’ambito di applicazione soggettivo della disciplina normativa: ai sensi del combinato disposto degli artt. 2, comma 2, 55 e 63, del d.lgs. n. 165/2001 esso ricomprende unitamente al personale del comparto anche la categoria dirigenziale, pur con alcune specificità derivanti dall’essere il dirigente nel contempo dipendente e datore di lavoro. A differenza del settore privato, ove solo per i dirigenti vige un regime legale di libera recedibilità e con il riconoscimento dell’applicazione delle sole garanzie procedimentali dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori [4], ferma, ai sensi del­l’art. 18 dello Statuto, la tutela reintegratoria piena nel caso di licenziamento nullo o inefficace perché intimato in forma orale, nel settore pubblico anche per la dirigenza, quale compiuto recepimento formale del principio affermato dalla Corte costituzionale all’indomani della privatizzazione nell’importante sentenza n. 313/1996 [5], il recesso deve essere causale, ovvero assistito da una giusta causa o da un giustificato motivo ed in caso di licenziamento illegittimo è prevista l’applicazione della tutela reintegratoria. Nondimeno i dirigenti pubblici sono assoggettati, al pari del personale del comparto e diversamente dalla dirigenza privata, a sanzioni disciplinari conservative, definite sia dal legislatore sia dai contratti d’area dirigenziale. Vi sono, tuttavia, due specificità «di sistema» rispetto al personale del comparto. La prima riguarda l’affian­ca­mento alla responsabilità disciplinare di una responsabilità dirigenziale che può condurre anch’essa, nei casi di maggiore gravità, al recesso dell’ammi­nistrazione, ma che si basa su diversi presupposti sostanziali e su di una diversa procedura di accertamento. La seconda è connessa alla già richiamata doverosità di esercizio del potere disciplinare che incide sull’assetto dei poteri riconosciuti al dirigente pubblico quale privato datore di lavoro con una compressione del pieno esercizio delle sue prerogative manageriali.


2.2. Finalità dell’esercizio del potere disciplinare e doverosità d’esercizio

L’analisi deve proseguire richiamando le finalità dell’esercizio del potere disciplinare, così come definite dal legislatore, e che rappresentano il fondamento della specialità della disciplina. La norma da cui occorre partire è l’art. 67 del d.lgs. n. 150/2009, attuativo di un espresso principio di delega dettato dall’art. 7 della legge n. 15/2009, ove il legislatore, con formula inequivoca, ha dichiarato che le modifiche apportate in materia di sanzioni disciplinari e di responsabilità dei pubblici dipendenti sono state introdotte «al fine di potenziare il livello di efficienza degli uffici e di contrastare i fenomeni di scarsa produttività ed assenteismo» [6]; lo stesso articolo si è, poi, premurato di ribadire la permanente devoluzione al giudice ordinario delle controversie relative al procedimento e alle sanzioni disciplinari. Una previsione che non è stata messa in discussione dagli interventi normativi successivi e che deve essere innanzitutto letta alla luce di altre due disposizioni normative. La prima è l’art. 55 del d.lgs. n. 165/2001 ove al primo comma si afferma che «Le disposizioni del presente articolo e di quelli seguenti, fino all’articolo 55-octies, costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, secondo comma» e al secondo comma se ne rafforza la precettività statuendosi che «La violazione dolosa o colposa delle suddette disposizioni costituisce illecito disciplinare in capo ai dipendenti preposti alla loro applicazione». Un sistema speciale, ma non del tutto autosufficiente poiché il comma 3 dello stesso art. 55 opera un espresso richiamo all’applicabilità dell’art. 2106 del codice civile e, dunque, al principio privatistico di proporzionalità, di rilievo centrale in termini assoluti, ma con specifico riguardo al licenziamento disciplinare, in particolare con riferimento alle fattispecie legali definite dall’art. 55-quater. La seconda è costituita dall’art. 55-sexies, sempre del d.lgs. n. 165/2001, ove al comma 3, si asserisce che il mancato esercizio o la decadenza dal­l’azione disciplinare, dovuti all’omissione o al ritardo, senza giustificato motivo, degli atti del procedimento disciplinare, inclusa la segnalazione all’Ufficio per i procedimenti disciplinari, ovvero a [continua ..]


2.3. Natura privatistica del potere disciplinare e peculiare assetto dei poteri datoriali nel lavoro pubblico contrattualizzato

I descritti profili di specialità inerenti all’esercizio del potere disciplinare non ne inficiano, tuttavia, la natura privatistica quale esercizio di un potere datoriale volto a sanzionare un comportamento inadempiente del dipendente; la medesima natura privatistica deve essere riconosciuta al procedimento che si svolge davanti all’Ufficio per i procedimenti disciplinari [20]. Non pare condivisibile la diversa ricostruzione che ne ravvisa una connotazione pubblicistico-organizzativa sul presupposto della funzionalizzazione dell’esercizio del potere disciplinare al perseguimento di interessi esterni al contratto di lavoro [21]. Il potere disciplinare, pur nella specialità di disciplina, permane il potere di sanzionare chi non abbia osservato gli obblighi contrattualmente assunti, dettati dalla legge o dal codice di comportamento, fissati nella contrattazione collettiva e recepiti nel contratto individuale. Né in senso contrario può condurre la doverosità d’esercizio poiché l’ordinamento ha previsto anche nel settore privato l’esercizio doveroso del potere disciplinare in una prospettiva di indiretta tutela di interessi collettivi, si pensi, primo fra tutti, a quanto stabilito dalla legge n. 146/1990 in materia di sciopero nei servizi pubblici essenziali. Nondimeno è indubbio che l’assetto dei poteri datoriali assuma nel settore pubblico una connotazione diversa rispetto al privato. Infatti l’attribuzione al potere disciplinare, al pari di quello di controllo, di uno specifico rilievo finalistico tale da configurarne un sostanziale obbligo di esercizio [22], impedisce di poterlo considerare meramente strumentale rispetto a quello direttivo, com’è, invece, nel settore privato. In particolare mentre nel privato in presenza di condotte inadempienti il datore di lavoro possiede anche la «leva» organizzativa qualora sia ritenuta più idonea per la correzione comportamentale, nel settore pubblico la via obbligata è quella dell’esercizio del potere disciplinare. Ciò, in connessione con l’indicazione legislativa di una serie di necessari comportamenti puntuali cui sono tenuti i pubblici dipendenti, dirigenti in primis, e con il principio di parità di trattamento (da non confondere con il divieto di non discriminazione) garantito ai pubblici dipendenti [23], e, dunque, nel contempo [continua ..]


3. Ipotesi legali di licenziamento: generalità

Si può ora focalizzare l’attenzione al licenziamento disciplinare, con particolare riguardo alle condotte tipizzate dall’art. 55-quater del d.lgs. n. 165/2001. Tale articolo prevede che, ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve le ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, «si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi», ovvero in una serie di condotte specificate nella stessa norma [24]. Se per le nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo, nonché per il richiamo alle previsioni contenute nei codici disciplinari non si può che rimandare alla consolidata elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, una più accurata attenzione meritano sia l’analisi delle ipotesi legali di licenziamento, da svolgere in dialogo costante con la giurisprudenza, sia, ancor prima, l’interpretazione della formula «si applica comunque la sanzione del licenziamento», da cui si intende partire.


3.1. Tipizzazioni legislative e principio di proporzionalità

La questione che si è posta fin da subito agli operatori del diritto ha riguardato l’interpretazione della formulazione «si applica comunque». Se l’indi­scussa intenzione del legislatore era quella di rendere effettivo l’e­ser­cizio del potere disciplinare in presenza di un grave inadempimento del dipendente, era dibattuto se l’ente in presenza delle condotte tipizzate, fermo l’obbligo di attivarsi sul piano disciplinare, avesse la facoltà di optare per l’irrogazione di una sanzione conservativa, anziché espulsiva [25]. Tra le opposte tesi prospettate in dottrina tra chi riteneva che il legislatore avesse provveduto ad effettuare direttamente il giudizio di proporzionalità, precludendo una diversa valutazione sia all’amministrazione sia al giudice [26] e chi, al contrario, escludeva l’e­sistenza di un automatismo tra l’accertamento del comportamento inadempiente tipizzato dal legislatore e l’applicazione della sanzione espulsiva [27], la giurisprudenza (della Cassazione, prima [28], confermata dalla Corte costituzionale, poi) ha optato per la seconda soluzione escludendo che «la tipizzazione legale delle fattispecie di licenziamento disciplinare implichi un automatismo refrattario alla verifica giurisdizionale di congruità» [29]. Una conclusione che si pone in continuità con il divieto di sanzioni disciplinari automatiche (la sanzione espulsiva rappresenterebbe nella sostanza l’effetto diretto e necessario dell’accertamento di un fatto) già in precedenza più volte sancito dalla Corte costituzionale [30] e si fonda sull’ulteriore considerazione di carattere generale secondo cui la necessaria proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è regola valida per tutto il diritto punitivo, nonché sull’esigenza di una lettura coordinata dell’art. 55-quater con altre disposizioni dello stesso d.lgs. n. 165/2001, primo fra tutti il comma 2 dell’art. 55 che prevede l’appli­cabilità al rapporto di lavoro alle dipendenze di una pubblica amministrazione dell’art. 2106 c.c. e, dunque, del principio di proporzionalità, da accertare secondo l’inse­gna­mento della costante giurisprudenza «in concreto» [31]. La valutazione in concreto del comportamento [continua ..]


3.2. Le singole ipotesi tipizzate dal legislatore

Si passa ora all’analisi delle ipotesi tipizzate dall’art. 55-quater che indica anche, come sarà riportato a fianco dell’indicazione di ognuna di esse, le condotte che comportano il licenziamento per giusta causa (la norma, in realtà, utilizza la formulazione «senza preavviso»). I casi indicati dalla norma sono i seguenti. a) «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia» che costituisce giusta causa di licenziamento. La previsione contempla due diversi comportamenti illeciti, la «falsa» attestazione di presenza in servizio e la «falsa» certificazione di una malattia (differenziando tra una certificazione non redatta dal medico e una certificazione che, ancorché redatta da un medico, attesta in maniera non veritiera una malattia). Le ipotesi differiscono da quelle della assenza ingiustificata della successiva lett. b) per il maggior disvalore dei comportamenti, astrattamente idonei a giustificare il licenziamento anche in presenza di una singola condotta illecita di allontanamento dal posto di lavoro. L’importanza delle due fattispecie indicate trova un’indubbia conferma nella considerazione di tali comportamenti illeciti da parte di altre norme del Capo VII del decreto n. 165/2001 dedicato alla materia disciplinare. Così l’art. 55-quinquies prevede per il lavoratore (considerando congiuntamente la falsa attestazione di presenza in servizio e la falsa attestazione della malattia) anche sanzioni penali (la reclusione da uno a cinque anni e la multa da euro 400 ad euro 1.600, con estensione della medesima pena al medico e a chiunque altro concorre nella commissione del delitto) e risarcitorie (il lavoratore, ferme la responsabilità penale e disciplinare, è obbligato a risarcire il danno patrimoniale pari al compenso corrisposto a titolo di retribuzione nei periodi per i quali sia stata accertata la mancata prestazione, nonché il danno all’immagine subiti dall’amministrazione) [37]. La norma disciplina in via specifica anche le conseguenze del comportamento illecito del medico che abbia falsamente attestato uno stato di malattia (oltre all’ipotesi [continua ..]


4. Rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale

Anche le disposizioni dell’art. 55-ter del d.lgs. n. 165/2001 nel disciplinare il rapporto tra procedimento disciplinare e procedimento penale confermano la sostanziale obbligatorietà del primo. Tre sono le indicazioni normative che conducono a tale conclusione. La prima è quella relativa alla sospensione del procedimento disciplinare avente ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede il giudice penale [90]; una sospensione che è consentita solo in presenza di ben definiti presupposti, ovvero quando si proceda per infrazioni per le quali è applicabile una sanzione superiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione fino a dieci giorni e unicamente qualora l’accertamento del fatto addebitato al dipendente sia di particolare complessità e all’esito dell’i­struttoria l’Ufficio per i procedimenti disciplinari non disponga di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione [91]. Si tratta di una valutazione rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione, rispetto alla quale, in assenza di espressa previsione normativa che la presupponga, non è richiesta l’esplicitazione di una contestuale motivazione, potendosi contestare la decisione di sospensione solo nel caso di una sua palese irrazionalità ed illogicità. Mentre l’originaria formulazione della norma, introdotta nel 2009, prevedeva che, una volta sospeso, il procedimento disciplinare potesse essere riattivato solo all’esito di quello penale, la novella del 2017 ne ha consentito la riattivazione anche prima qualora l’amministrazione giunga in possesso di elementi nuovi, sufficienti per concludere il procedimento, ivi incluso un provvedimento giurisdizionale non definitivo [92] e fatta in ogni caso salva la possibilità di adottare la sospensione o altri provvedimenti cautelari nei confronti del dipendente [93]. Se già nel 2009 il legislatore aveva rovesciato l’as­setto risalente al d.P.R. n 3/1957, confermato nel primo periodo della privatizzazione dalla contrattazione collettiva di comparto (ma non da quella d’area dirigenziale) che aveva disposto la sospensione dell’azione disciplinare in pendenza del procedimento penale fino all’esito della decisione giudiziale sul reato, la riforma del 2017 ha rafforzato l’autonomia dei due procedimenti nella [continua ..]


5. La tutela nel caso di licenziamento disciplinare illegittimo

Le specificità del potere disciplinare nel settore pubblico si estendono anche alle tutele previste dal legislatore per il caso di licenziamento illegittimo, applicabili sia al personale del comparto sia alla categoria dirigenziale. La riforma del 2017 con la novella dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 ha disciplinato la materia, ponendo fine ad una lunga e dibattuta querelle interpretativa che vedeva coinvolta la dottrina e la giurisprudenza [104]. La questione nasceva dal fatto che la legge n. 92/2012 (c.d. legge Fornero), con cui si novellava l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, ai commi 7 e 8 dell’art. 1, affermava rispettivamente che le sue disposizioni «per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del d.lgs. n 165/2001» e che il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, avrebbe individuato e definito, «anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche». Si poneva, dunque, la questione dell’applicabilità o meno ai dipendenti pubblici contrattualizzati del novellato art. 18. In presenza di un panorama dottrinale che contemplava tre diverse posizioni, differenziate tra chi invocava, pur con diverse argomentazioni, la permanente applicabilità del «vecchio» art. 18 [105], chi, all’opposto, prediligeva l’applicabilità del «nuovo» art. 18 [106] e chi, in posizione intermedia, propendeva per l’applica­bilità del testo riformato, ma limitatamente alla c.d. tutela reintegratoria forte prevista per il licenziamento nullo [107] e di una giurisprudenza di merito parimenti divisa, ma che pareva privilegiare la tesi della immediata ed integrale applicazione del riformato articolo 18 [108], la Suprema Corte di Cassazione nel breve arco di un biennio era riuscita ad esprimere tre soluzioni tra loro diverse. Dapprima (a novembre 2015), nell’affermare l’applicabilità ai pubblici dipendenti del riformato art. 18, aveva, tuttavia, individuato quale unica forma di tutela quella c.d. [continua ..]


5.1. La reintegrazione generalizzata costituisce una soluzione costituzionalmente necessitata?

La successiva domanda è se la generalizzata tutela reintegratoria sia una soluzione costituzionalmente necessitata e, in maniera correlata, se tale generalizzazione sia effettivamente funzionale a garantire le finalità del potere disciplinare. In merito, in senso affermativo rispetto all’essere la reintegrazione generalizzata una soluzione costituzionalmente generalizzata, si è invocato il rispetto dei valori costituzionali dell’imparzialità e del buon andamento, di cui è corollario il principio dell’accesso per concorso [119], vincolanti per entrambe le parti del rapporto, amministrazione e lavoratore [120]. Ed a supporto è stato richiamato quanto affermato dalla Corte costituzionale, ancorché con riguardo ad una norma particolare coinvolgente la dirigenza apicale della sanità [121], secondo cui «forme di riparazione economica (…) in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativo» poiché «un ristoro economico, non attenua in alcun modo il pregiudizio da quella rimozione arrecato all’interesse collettivo al­l’imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione» [122]. Si è così affermato che «è plausibile sostenere che la reintegrazione costituisca davvero, per i dipendenti pubblici, l’unico paradigma attuativo dei principi evincibili dagli artt. 4 e 35 Cost. in ragione delle concorrenti necessità di assicurare una precondizione essenziale del ‘buon andamento’ ex art. 97, comma 2, Cost., vale a dire la destinazione delle risorse finanziarie disponibili al perseguimento degli scopi istituzionali dell’amministrazione datrice di lavoro e il loro impiego efficiente; e di contenere la spesa pubblica mantenendo l’equi­librio di bilancio ex art. 81 Cost.» [123]. In senso contrario si è ritenuto non convincente «un generico richiamo alla presenza dell’interesse generale o, solo parzialmente più specifico, al buon andamento e all’imparzialità, con l’accento sulla interrelazione con il principio del concorso o su un rischioso esborso di denaro imposto dalla tutela obbligatoria» [124]; ed [continua ..]


5.2. Il limite massimo delle ventiquattro mensilità alla quantificazione del risarcimento del danno

La seconda questione attiene alla quantificazione del risarcimento del danno, considerata in sé e con riferimento ai tempi processuali. Innanzitutto, a differenza di quanto stabilito per il settore privato, non è previsto un risarcimento minimo di cinque mensilità, neppure nei casi di nullità o di inefficacia. Ma soprattutto, ed è l’aspetto più significativo, ne è stabilito un limite massimo: il periodo di riferimento per sua la quantificazione è fissato in quello decorrente dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, non potendo, però, essere superiore alle ventiquattro mensilità, dedotto l’eventuale aliunde perceptum. Anche nel settore privato nel caso della c.d. reintegrazione debole è previsto (sia dall’art. 18, sia dal Decreto a tutele crescenti) un limite massimo al risarcimento (mentre nella c.d. reintegrazione forte tale limite non vi è) che è inferiore, in quanto limitato alle dodici mensilità, ma per la cui quantificazione si prende a riferimento un differente periodo, ovvero quello dal licenziamento alla pronuncia di condanna alla reintegrazione. Le soluzioni tra pubblico e privato coincidono in relazione alla corresponsione dei contributi previdenziali ed assistenziali per i quali non è previsto alcun massimale. L’individuazione del massimale di ventiquattro mensilità è stato oggetto di critica nella parte in cui non è stato limitato al periodo antecedente alla pronuncia del giudice. Si è, infatti affermato che «un ‘massimale’ è logicamente concepibile solo per un periodo limitato» in quanto diversamente si «permetterebbe ad una parte l’inadempimento senza fine e senza costi» [129]. E sulla scorta di tale premessa e della mancanza del minimo di cinque mensilità si è sostenuto, con una soluzione condivisa da chi scrive, che «la mancata previsione esplicita o implicita di un trattamento, per il periodo successivo alla sentenza di reintegra, elimina ogni ipotetica ‘legittimazione’ dell’inottemperanza e conferma che per il periodo successivo si ha diritto ad un risarcimento dei danni proprio per inottemperanza dell’ordine del giudice» con la conseguenza che «la restituzione in caso di riforma della sentenza va esclusa a causa della natura risarcitoria del danno, che comunque [continua ..]


5.3. Revoca del licenziamento ed opzione per l’indennità sostitutiva della reintegrazione

La terza questione attiene a due rilevanti profili di specialità rispetto al privato. Il primo riguarda l’inapplicabilità della regola contenuta nell’art. 18 dello Statuto e nell’art. 5 del c.d. Decreto a tutele crescenti che consente al datore di lavoro di revocare il licenziamento entro quindici giorni dal ricevimento della comunicazione di impugnazione del licenziamento, con conseguente ripristino senza soluzione di continuità del rapporto di lavoro e con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, non trovando applicazione i regimi sanzionatori previsti per il licenziamento illegittimo. L’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 si pone come disciplina speciale autosufficiente, ragion per cui non risultano applicabili le cennate disposizioni del settore privato, ferma la possibilità per l’amministrazione di revocare il licenziamento prima che la comunicazione della sua irrogazione giunga al lavoratore. Il secondo concerne l’impossibilità per il lavoratore di optare per l’inden­nità sostituiva della reintegrazione [136], con alcune problematicità per la dirigenza derivanti dalle previsioni della fonte collettiva. In linea generale l’im­possibilità di optare per l’indennità sostituiva deriva dall’indicata autosufficienza e specialità dell’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001. Per la dirigenza, tuttavia, la contrattazione collettiva prevede la possibilità per l’amministrazione o per il dirigente di proporre all’altra parte, in sostituzione della reintegrazione, il pagamento di un’indennità supplementare determinata, in relazione alla valutazione dei fatti e delle circostanze emerse, tra un minimo pari al corrispettivo del preavviso maturato, maggiorato dell’importo equivalente a due mensilità, ed un massimo pari al corrispettivo di ventiquattro mensilità [137]. Un’indennità che è automaticamente aumentata, ove l’età del dirigente sia compresa fra i quarantasei e i cinquantasei anni, secondo misure predeterminate dal contratto collettivo e variabili a seconda dell’età. Il testo contrattuale riconosce, dunque, la corresponsione, su accordo delle parti, dell’indennità risarcitoria come alternativa alla reintegrazione. Tuttavia una notazione sorge spontanea e [continua ..]


5.4. Rideterminazione da parte del giudice della sanzione disciplinare annullata per difetto di proporzionalità

La quarta questione si riferisce alla portata del comma 2-bis dell’art. 63 che consente al giudice che annulli la sanzione disciplinare per difetto di proporzionalità di rideterminarla sostituendo la propria valutazione a quella del titolare del potere [140]. La legge è, dunque, esplicita nell’attribuire al giudice tale potere e, a differenza del privato [141], a prescindere da un’istanza di parte [142], definendone anche i parametri di esercizio in cui si coniugano la tutela del­l’interesse del dipendente («gravità del comportamento») e della collettività («specifico interesse pubblico violato»). La finalità della norma è, infatti, quella di consentire l’irrogazione di una sanzione nei confronti del dipendente inadempiente in conformità alla logica ispiratrice dell’esercizio del potere disciplinare nel settore pubblico [143]. Non è revocabile in dubbio che la norma si applichi anche al caso di annullamento del licenziamento in caso di accertato difetto di proporzionalità (e non solo nel caso di annullamento di sanzioni conservative) proprio perché, diversamente, rischierebbero di restare impunite le condotte più gravi, con una soluzione che appare ex se intrinsecamente irrazionale rispetto all’affermata sostanziale doverosità dell’azione disciplinare a protezione di più generali interessi collettivi [144]. Occorre, invece, chiedersi se la medesima rideterminazione vi possa essere anche nel caso in cui il giudice dichiari la nullità del licenziamento per essere illecito, discriminatorio o per l’aver violato specifiche disposizioni assistite dalla garanzia della nullità degli atti contrari alle prescrizioni in esse contenute. Ad un dato letterale che propende per la soluzione negativa (la norma si riferisce all’annullamento e non anche alla dichiarazione di nullità) si affianca il dato logico-sistematico che conduce alla medesima conclusione. La nullità del licenziamento, infatti, nelle ipotesi indicate è ravvisabile qualora la decisione datoriale sia connotata da un particolare disvalore, non assumendo rilievo diretto una valutazione di proporzionalità della condotta del dipendente. Ciò che viene valutato non è il comportamento del dipendente, bensì quello del datore di lavoro. Ed in questa [continua ..]


5.5. Decorrenza della prescrizione dei diritti di credito del lavoratore: la discutibile differenza tra settore pubblico e privato

La quinta questione è relativa alla decorrenza della prescrizione dei diritti di credito del lavoratore, segnatamente se la tutela prevista dall’art. 63 del d.lgs. n. 165/2001 per il licenziamento illegittimo sia idonea a farla decorrere nel corso del rapporto di lavoro [146]. La problematica è articolata e complessa e l’interprete nelle proprie riflessioni non può che confrontarsi con quanto affermato dalla Corte costituzionale e dalla Corte di Cassazione. La prima nel lontano 1966, allorquando nel settore privato era vigente un regime legale di libera recedibilità, aveva escluso per i dipendenti ivi occupati, e a differenza di quelli del settore pubblico, la decorrenza della prescrizione «durante il rapporto di lavoro», in quanto impiegati «in un rapporto non dotato di quella resistenza, che caratterizza invece il rapporto d’impiego pubblico». Secondo la Corte «il timore del recesso, cioè del licenziamento, spinge o può spingere il lavoratore sulla via della rinuncia a una parte dei propri diritti» [147]. Una situazione di soggezione che, come la Corte avrà modo di ribadire dopo pochi anni (nel 1969), non ricorreva nei rapporti di pubblico impiego, anche di carattere temporaneo, in ragione della loro «particolare forza di resistenza» «data da una disciplina che normalmente assicura la stabilità del rapporto o delle garanzie di rimedi giurisdizionali contro l’illegittima risoluzione di esso» e che escluderebbe «che il timore del licenziamento possa indurre l’impiegato a rinunciare ai propri diritti» [148]. L’inapplicabilità del principio dell’imprescrittibilità temporanea in costanza di rapporto di lavoro pubblico è stata più volte ribadita dalla Corte; e questo anche nella sentenza del 1972 che estendeva l’inapplicabilità del medesimo principio ai rapporti privati cui trovasse applicazione l’art. 18 dello Statuto in quanto caratterizzati «da una particolare forza di resistenza, quale deriva da una disciplina che assicuri normalmente la stabilità del rapporto e fornisca le garanzie di appositi rimedi giurisdizionali contro ogni illegittima risoluzione» [149]. La Corte di Cassazione, da parte sua, si è costantemente adeguata ai principi espressi dalla Consulta affermando che la stabilità [continua ..]


5.6. Tutela reintegratoria per il whistleblower licenziato in ragione del­l’intervenuta segnalazione

La sesta, e ultima questione, concerne la tutela riconosciuta al whistleblower licenziato in ragione dell’intervenuta segnalazione [162]. Come già evidenziato la legge afferma la nullità di tale licenziamento in quanto unicamente motivato dall’intervenuta segnalazione e riconosce al lavoratore licenziato il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23. Ad una prima considerazione la norma solleva alcune perplessità, data l’inapplicabilità ai pubblici dipendenti del citato decreto n. 23/2015, tuttavia può essere giustificata dalla più ampia tutela (sul versante economico) riconosciuta dalla previsione del c.d. Decreto a tutele crescenti, in una prospettiva di maggiore protezione ed incentivazione per il segnalante. In applicazione della norma non solo non si applica il tetto risarcitorio delle 24 mensilità, ma è consentito al legislatore di optare per l’indennità sostituiva della reintegrazione.


6. Riflessioni conclusive

Da quanto fin qui ricostruito ed analizzato emerge l’indubbia specialità della regolamentazione del licenziamento disciplinare nel settore pubblico, sul piano sostanziale, su quello procedimentale e su quello delle tutele riconosciute al lavoratore illegittimamente licenziato, a propria volta espressione delle peculiarità del potere disciplinare il cui esercizio è mediatamente volto a garantire interessi della collettiva, senza, tuttavia, perdere la «classica» connotazione privatistica quale potere diretto a sanzionare un inadempimento contrattuale del prestatore di lavoro. Più in generale anche la disciplina del licenziamento è espressione di quella significativa autonomia acquista dal diritto del lavoro pubblico contrattualizzato rispetto al diritto del lavoro del privato e di una riforma che, nata per omologare le discipline dei due settori, è giunta al compleanno dei trent’anni ad una definizione e a una convivenza di due sistemi notevolmente diversi, ma intercomunicanti, con un diritto del lavoro del settore privato che ha anch’esso attinto da quello pubblico (si pensi alla disciplina delle mansioni e, segnatamente, al principio dell’equivalenza formale). In definitiva, un diritto del lavoro pubblico che si è modificato, ma che non ha mai abbandonato il proprio elemento qualificante, ovvero la matrice contrattuale del rapporto di lavoro, presupposto imprescindibile per una disciplina speciale senza potersi configurare un rapporto speciale. Una specialità di disciplina che ha certamente una forte accentuazione in materia disciplinare, senza essere, peraltro, derivazione necessaria di un vincolo costituzionale, ma frutto di una scelta discrezionale del legislatore. Senza dubbio la doverosità dell’azione disciplinare, di cui è peculiare espressione la tipizzazione legale delle condotte che comportano il licenziamento, introdotta nella c.d. terza fase della riforma, e poi sempre confermata, segna uno degli ambiti in cui la linea di confine tra diritto privato e diritto pubblico è meno netta. Ma ciò non può spingere l’interprete a ravvisare insussistenti forme di ibridazione tra privato e pubblico, funzionali ad ampliare l’ambito dell’obbligazione contrattuale del dipendente. Ciò non toglie, tuttavia, che il legislatore nella formulazione delle norme dovrebbe essere più attento a coniugare [continua ..]


NOTE