Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il licenziamento nel pubblico impiego tra obbligatorietà e discrezionalità (di Giuliana Melandri, Consigliere della Corte di Appello di Genova – Sezione Lavoro)


Con il presente saggio si intende esaminare le caratteristiche peculiari dell’azione disciplinare nell’ambito del pubblico impiego e le profonde differenze rispetto all’esercizio del potere disciplinare del datore di lavoro privato. In particolare, si intende esaminare i seguenti aspetti: obbligatorietà e discrezionalità nel procedimento disciplinare; le fasi del procedimento disciplinare, la responsabilizzazione del dirigente pubblico e la segnalazione delle irregolarità (il c.d. whistleblowing); la tipizzazione delle ipotesi di licenziamento disciplinare nel rispetto del principio di proporzionalità; l’analisi di due fattispecie: i c.d. furbetti del cartellino e le false attestazioni in sede concorsuale; strumento di gestione ordinaria del personale ovvero rimedio eccezionale e residuale di correzione?; realizzazione del c.d. “homo novus”.

The Dismissal in Public Bodies: between Obligation and Discretion

The aim of this essay is to examine the peculiar characteristics of disciplinary action related to employment in public sector and public body organizations and the significant differences and discrepancies if compared to the exercise of disciplinary power by private employers. The following aspects are then analysed in the essay: obligatory and discretionary aspects in the disciplinary procedure; the stages of the disciplinary process, the empowerment and accountability of public officials and public managers, and the reporting of irregularities (the so-called «whistleblowing»; the classification of hypotheses for disciplinary dismissal in accordance with the principle of proportionality; two specific cases are presented: the so-called «badge cheaters» (in Italian «Furbetti del Cartellino») and false statements during competitive exams; is dismissal an ordinary personnel management tool or an exceptional and residual corrective measure?; realization of the so-called “homo novus”.

SOMMARIO:

1. La obbligatorietà dell’azione disciplinare - 2. L’irrilevanza della cessazione del rapporto nell’esercizio disciplinare - 3. Le fasi del procedimento disciplinare - 4. Le segnalazioni di irregolarità (c.d. «whistleblowing») - 5. La tipizzazione delle ipotesi di licenziamento disciplinare ed il principio di proporzionalità - 6. La prima fattispecie tipizzata: i c.d. furbetti del cartellino (art. 55-quater, comma 1, lett. a) - 7. Le false attestazioni nell’instaurazione del rapporto di lavoro: automaticità e proporzionalità - 8. Conclusioni: obbligatorietà o discrezionalità? - NOTE


1. La obbligatorietà dell’azione disciplinare

Si suole ormai dire che, a differenza di quanto accade nel lavoro privato (in cui il potere disciplinare costituisce la più ampia facoltà del datore di lavoro insieme a quello gerarchico, direttivo ed organizzativo), l’azione disciplinare nel pubblico impiego è obbligatoria, alla stregua di quella penale. Nel pubblico impiego l’esercizio del potere disciplinare, in quanto funzionale al perseguimento di interessi pubblici esterni al rapporto di lavoro con il singolo, presenta infatti delle peculiarità completamente diverse rispetto a quello del datore di lavoro privato. Il licenziamento posto in essere dai datori di lavoro privati costituisce esercizio, nella quasi totalità dei casi, di una facoltà di azione attribuita dall’ordi­namento al fine di far cessare unilateralmente un rapporto di lavoro, con i tratti propri del diritto potestativo, seppure delimitati dal rispetto dei presupposti al cui cospetto il diritto stesso sorge; diritto potestativo il cui esercizio – a parte alcune ipotesi particolarissime (si pensi al licenziamento di persona la cui permanente inidoneità psicofisica sia causa di pericolo inevitabile per sé stessa o per i colleghi di lavoro, come stabilito da Cass. 6 agosto 2002, n. 11798) – è libero ed insindacabile nell’an. Infatti, il datore di lavoro privato, seppur in presenza di condizioni idonee a determinare la cessazione per atto unilaterale del rapporto, può sempre decidere di non avvalersene. Per contro, la cessazione del rapporto di pubblico impiego per atto datoriale, nonostante la privatizzazione, è nella quasi totalità dei casi, esercizio di una potestà, ovverosia di un potere-dovere, cui la P.A. non può volontariamente sottrarsi, al punto che la mancata attivazione può essere ragione di responsabilità disciplinare, contabile e civile in capo ai dirigenti. Ciò che nei rapporti di lavoro privato è eccezione, ovverosia la doverosità del licenziamento, nel pubblico impiego è regola ed eccezionali sono invece valutazioni di tolleranza nonostante il manifestarsi dei presupposti per l’e­stro­missione. Alla diversità di ambiti e di struttura delle situazioni giuridiche corrisponde del resto una simmetrica diversità dei parametri fondamentali di riferimento. Ed infatti, Il licenziamento nei rapporti privati, almeno in [continua ..]


2. L’irrilevanza della cessazione del rapporto nell’esercizio disciplinare

Un’altra importante differenza tra pubblico e privato nell’esercizio del potere disciplinare è data dall’obbligo – in certi casi – di iniziare o proseguire il procedimento disciplinare anche dopo la cessazione del rapporto di lavoro (per scadenza del termine, per dimissioni volontarie, per pensionamento, morte ecc.). Mentre nel rapporto di lavoro privato il procedimento disciplinare in corso si estingue automaticamente quando il lavoratore si dimette, nel pubblico impiego – ai sensi del comma 9 dell’art. 55 T.U. – ciò non accade qualora «per l’infrazione commessa sia prevista la sanzione del licenziamento o comunque sia stata disposta la sospensione cautelare dal servizio». In tal caso – continua la norma – «le determinazioni conclusive sono assunte ai fini degli effetti giuridici ed economici non preclusi dalla cessazione del rapporto di lavoro». La disposizione trova la sua ratio sia nella esigenza di tutela dell’immagine e del prestigio della P.A., sia negli ulteriori riflessi che possono derivare dalla conclusione del procedimento disciplinare. Si è pertanto radicato il convincimento che l’interesse del datore di lavoro pubblico ad accertare, anche a rapporto cessato, la responsabilità del dipendente nei casi di gravi illeciti disciplinari, trascende quello meramente economico, poiché solo l’irrogazione della sanzione preclude l’accoglimento della istanza di riammissione in servizio del dipendente dimissionario ed impedisce a quest’ultimo la partecipazione a pubblici concorsi, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487. La giurisprudenza, al riguardo, ha infatti ritenuto che la normativa di cui al comma 9 sopra citato si applica anche quando le dimissioni siano intervenute in epoca antecedente all’avvio del procedimento, «sussistendo l’interesse dell’amministrazione ad accertare le responsabilità disciplinari al fine di impedire che il dipendente possa essere riammesso in servizio, partecipare a successivi concorsi pubblici, o far valere il rapporto di impiego come titolo per il conferimento di incarichi da parte della P.A.» [1]. In ogni caso è poi evidente l’interesse prettamente economico della P.A. ad irrogare la sanzione del licenziamento disciplinare del dipendente sospeso cautelativamente in corso di [continua ..]


3. Le fasi del procedimento disciplinare

Oltre alla responsabilizzazione del superiore gerarchico, sempre nel segno della vincolatività dell’azione disciplinare, il legislatore ha previsto, all’art. 55-bis del d.lgs. n. 165/2001, rubricato «Forme e termini del procedimento disciplinare», introdotto dal d.lgs. n. 150/2009 cit. (Riforma Brunetta) e successivamente modificato dal d.lgs. n. 75/2017 (Riforma Madia), una procedimentalizzazione dell’azione disciplinare con termini serrati che devono essere rispettati, anche a pena di decadenza. La tempestività della contestazione, che costituisce da sempre un caposaldo di garanzia e certezza del diritto di difesa del lavoratore privato, diventa ancora più stringente per il lavoro pubblico, in forza dei principi costituzionali di efficienza e buon andamento della P.A. (art. 97 Cost). Le legge dispone che il responsabile dell’ufficio deve comunicare l’infra­zione entro dieci giorni (il termine non è perentorio ma comunque indicativo di una particolare solerzia che può assumere rilevanza ai fini delle responsabilità sopra evidenziate) all’Ufficio di Disciplina che deve, se ravvisa elementi per avviare il procedimento disciplinare, comunicare la contestazione al dipendente entro 30 giorni dalla segnalazione, questo sì ritenuto termine perentorio, insieme con il termine di 120 giorni dalla contestazione dell’addebito per l’emanazione del provvedimento disciplinare. Il legislatore del 2017 (c.d. Riforma Madia) si è tuttavia preoccupato di evitare che il mancato rispetto di queste tempistiche possa dar luogo a vizi formali invalidanti la sanzione disciplinare, introducendo, ai commi 9-bis e 9-ter dell’art. 55-bis, disposizioni volte ad evitare che decadenze o termini possano aggravare il procedimento disciplinare e comunque prevedendo che la violazione dei termini e delle disposizioni sul procedimento disciplinare previste dagli artt. da 55 a 55-quater, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’invalidità degli atti e della sanzione irrogata, a meno che non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente. Sono quindi da considerarsi perentori, salvo quanto sopra, il termine per la contestazione dell’addebito (30 giorni) e quello per la conclusione del procedimento (120 [continua ..]


4. Le segnalazioni di irregolarità (c.d. «whistleblowing»)

Un altro istituto volto ad incentivare la segnalazione di infrazioni in ambito lavorativo è il disposto di cui all’art. 54-bis del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, così come novellato dalla legge n. 179/2017 (legge anti corruzione) intervenuto proprio per tutelare i lavoratori segnalatori di reati o irregolarità. Si segnala che recentemente il nuovo governo ha dato attuazione alla direttiva UE n. 2019/1937 con un decreto legislativo che entrerà in vigore il prossimo luglio 2023 per disciplinare le segnalazioni di illeciti anche nell’ambito dei rapporti di lavoro privato. L’art. 54-bis cit. ha introdotto il divieto di licenziamento, demansionamento, trasferimento o altro provvedimento sanzionatorio a danno del dipendente pubblico che denunzia all’autorità competente (Autorità nazionale anticorruzione – ANAC o all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile) la commissione di condotte illecite in ambito lavorativo. Si tratta del c.d. «whistleblowing», istituto mutuato dall’esperienza anglosassone e americana che significa in inglese «soffiatore di fischietto», cioè colui che «canta» nel gergo della criminalità; il segnalatore di irregolarità deve essere in tal senso tutelato, tranne che nei casi di calunnia o diffamazione accertati giudizialmente ovvero quando vi sia dolo o colpa grave. La normativa in questione è stata oggetto di una recente pronunzia della Corte di Cassazione [3] che ha delimitato i limiti interni ed esterni di tale tutela. Era accaduto che una infermiera professionale dipendente di un Ospedale era stata sanzionata dal proprio datore di lavoro (con la sospensione per quattro mesi), per avere svolto, senza alcuna autorizzazione, attività presso un ente privato per parecchi anni e con introiti rilevanti. Tale fatto, commesso anche da altri colleghi della stessa struttura sanitaria, era stato denunziato dall’infermiera che aveva confessato il proprio e l’altrui illecito, per cui riteneva di non dover essere sanzionata invocando l’esimente di cui sopra. I giudici di merito di primo e secondo grado avevano respinto il ricorso, ritenendo che la norma non potesse costituire uno scudo generalizzato rispetto agli illeciti commessi in proprio dalla dipendente, potendo la denuncia costituire una esimente – al più – nel caso di concorso [continua ..]


5. La tipizzazione delle ipotesi di licenziamento disciplinare ed il principio di proporzionalità

La legge Brunetta, per ricreare un’immagine pulita ed efficiente della Pubblica Amministrazione, ha previsto all’art. 55-quater del d.lgs. n. 165/2001 una serie di condotte particolarmente gravi tali da ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario. Si tratta di una disciplina inderogabile dai contratti collettivi, nel senso che eventuali clausole collettive difformi vanno automaticamente sostituite con quelle legali ex art. 1339 c.c. Tale automatismo, tuttavia, non significa che la commissione di infrazioni rientranti nelle ipotesi tipizzate comporti automaticamente il licenziamento. L’incipit della norma in effetti potrebbe indurre ad una interpretazione opposta: «Ferma la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e salve ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento nei seguenti casi». L’avverbio «comunque» va infatti riferito alla possibilità di irrogare il licenziamento disciplinare per le ipotesi ivi indicate indipendentemente dalla presenza di fattispecie di contenuto analogo nei codici disciplinari dei contratti collettivi, senza che tale espressione possa invece essere intesa nel senso di prevedere un meccanismo espulsivo automatico. Ciò è quanto ha di recente affermato la Corte costituzionale con sentenza n. 123/2020 chiamata a pronunziarsi sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Vibo Valentia, in funzione di giudice del lavoro, dell’art. dell’art. 55-quater, comma 1, nella parte in cui avrebbe introdotto un automatismo nell’applicazione della sanzione espulsiva in presenza dei casi espressamente elencati da tale norma. La Corte costituzionale ha infatti dichiarato inammissibile la questione, ritenendo di dover interpretare la norma secondo i principi costituzionali (di eguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.), i quali esigono che la sanzione disciplinare, soprattutto quella massima di carattere espulsivo, sia sempre suscettibile di un giudizio di proporzionalità in concreto, sicché la relativa applicazione non può essere di regola automatica, ma deve essere mediata dalle valutazioni di congruità cui è deputato il procedimento disciplinare e, in secondo luogo, il sindacato giurisdizionale. Ed infatti, il rapporto di pubblico impiego, dopo la sua [continua ..]


6. La prima fattispecie tipizzata: i c.d. furbetti del cartellino (art. 55-quater, comma 1, lett. a)

Particolarmente grave è stata ritenuta dal legislatore la falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente, ovvero la giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia. Anche per questa infrazione, tuttavia la giurisprudenza ha introdotto dei temperamenti e dei distinguo all’insegna della proporzionalità, in base alle modalità di realizzazione dell’infrazione, della sua reiterazione nel tempo e dell’elemento soggettivo. Ciò è avvenuto anche e soprattutto nel versante penale, in cui la Corte di Cassazione è da tempo consolidata nel ritenere che, salvo il reato di condotta sanzionato dall’art. 55-quinques, il dipendente che si allontana dal posto di lavoro senza far risultare, tramite i cartellini marcatempo, i periodi di assenza, commette il reato di truffa aggravata solo quando cagioni alla P.A. un danno economicamente apprezzabile [5]. Non solo: una recente sentenza della Cassazione penale [6] ha ritenuto applicabile la speciale tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p. (condizione di non punibilità), in presenza di violazioni non reiterate e ripetute (non configuranti quindi una illecita prassi sistematica), ma al contrario isolate e limitate. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte si era trattato di una semplice omissione (non di alterazione o falsificazione) della timbratura del badge in uscita, non riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 55-quinques del d.lgs. n. 165/2001 per mancanza di modalità fraudolenti; inoltre si era stato un episodio isolato e di breve durata (per l’acquisto delle sigarette) a giustificazione del quale il dipendente aveva dichiarato di essere convinto che si trattasse di un comportamento tollerato, proprio perché avvenuto in via eccezionale, per brevissimo tempo e non immediatamente contestato dal superiore gerarchico.


7. Le false attestazioni nell’instaurazione del rapporto di lavoro: automaticità e proporzionalità

Un altro caso tipizzato dal legislatore, in cui la giurisprudenza è intervenuta per mettere ordine tra ipotesi di decadenza automatica e licenziamento disciplinare assoggettato al principio della proporzionalità è quello delle falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera (lett. d), comma 1, dell’art. 55-quater). La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18699/2019, cui hanno fatto seguito molte altre, ha introdotto una importante distinzione tra falsità introducenti vizi c.d. genetici e falsità introducenti vizi c.d. funzionali. Il caso trae origine dalla omessa dichiarazione di un docente in sede di autocertificazione circa la sussistenza di pregresse condanne penali. La Corte territoriale aveva ritenuto che la mera falsa attestazione fosse di per sé sufficiente a integrare la decadenza automatica dall’impiego, senza poter valutare la gravità dei reati non dichiarati ed in particolare se le pregresse condanne fossero o meno ostative all’assunzione dell’impiego. Nel risolvere la questione in punto di legittimità, la Cassazione ha ripercorso le disposizioni che regolano il tema delle falsità documentali prodotte al momento dell’accesso al pubblico impiego e, dall’interpretazione della normativa vigente, ha estrapolato un principio di diritto per cui occorre distinguere le falsità ostative, che danno luogo ad una automatica decadenza dal rapporto di pubblico impiego per nullità originaria del contratto di assunzione, da quelle non ostative, in presenza delle quali il rapporto di lavoro può essere risolto dall’amministrazione a seguito di un procedimento disciplinare comportante la sanzione del licenziamento. La Corte ha dunque differenziato il caso in cui la falsità sia decisiva ai fini dell’assunzione, poiché la legge o un bando hanno stabilito una regola certa di incompatibilità con l’accesso al pubblico impiego rispetto al requisito falsamente attestato come sussistente, da quello in cui la mancanza del requisito dichiarato sussistente non costituisce ostacolo all’instaurazione del rapporto di lavoro. Nel primo caso opera dunque la decadenza automatica, al di fuori di un procedimento disciplinare, per effetto della mancanza dei requisiti sostanziali che le dichiarazioni sono [continua ..]


8. Conclusioni: obbligatorietà o discrezionalità?

Si può dunque capire come i licenziamenti nel pubblico impiego presentino connotati peculiari di obbligatorietà e discrezionalità tra loro così strettamente connessi da non poter rispondere alla domanda sopra posta; interessi pubblici e privati si intersecano continuamente al punto da ritenere preminente a volte l’una e a volte l’altra in una situazione di continuo precario bilanciamento. Ci si deve invece chiedere se, a seguito delle due riforme avviate nel 2009 e nel 2017, il procedimento disciplinare sia divenuto uno strumento di gestione ordinario del personale, addirittura lo strumento di elezione per il buon andamento e l’efficienza della P.A., anziché – come dovrebbe essere – un rimedio eccezionale e residuale di correzione degli errori commessi dall’impiegato pubblico. Condivido la tesi di autorevole dottrina [11], che ha ritenuto che, a fronte di irregolarità particolarmente lievi e avvenute – ad esempio – per semplici errori nell’esecuzione delle procedure, lo strumento correttivo più opportuno sia – quanto meno in prima battuta – l’esercizio del potere direttivo mediante, ad esempio, l’emanazione di ordini di servizio o circolari che regolamentino determinate attività ed indichino il corretto modo di eseguire il lavoro. È palese, in ogni caso, che l’obiettivo delle due riforme sia stato quello di rimettere al centro dell’agire della Pubblica Amministrazione un dipendente «al servizio» di due datori di lavoro (l’amministrazione ed il cittadino), chiamato a svolgere le sue mansioni non per fini economici ma per il bene pubblico e l’interesse collettivo, in quanto parte di un rapporto di lavoro speciale dal quale discendono direttamente obblighi non soltanto contrattuali, ma anche etici e morali, di specchiato comportamento anche al di fuori dell’ufficio. Un tentativo di ritorno ad un’etica comportamentale che ricorda quella delle origini, con l’introduzione di un’obbligazione di «essere» accanto a quella di «fare», che amplia così l’oggetto della prestazione lavorativa. Senza giungere agli estremi di un vero e proprio ritorno al passato, una sorta di «amarcord» come sostenuto dalla Prof.ssa M.G. Militello nel suo interessante articolo [12], in cui il primo dovere del dipendente pubblico [continua ..]


NOTE