Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile (di Maria Giovanna Greco, Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Parma)


Il contributo si occupa delle principali questioni interpretative sul tema del licenziamento per superamento del periodo di comporto del lavoratore disabile.

Partendo dall’esame della giurisprudenza europea e nazionale sulla natura discriminatoria del licenziamento per superamento del periodo di comporto quando questo sia previsto in modo indifferenziato per lavoratori disabili e non, il saggio si sofferma sul profilo più critico della materia: la rilevanza della conoscenza dello stato di disabilità da parte del datore di lavoro che intima il licenziamento.

Dismissal for exceeding the protected period of the disabled worker

The contribution deals with the main interpretative issues on the subject of dismissal for exceeding the of the the protected period of disabled workers.

Beginning with an examination of European and national case law on the discriminatory nature of the aforementioned dismissal when it is provided for disabled and non-disabled workers alike, the essay focuses on the most critical profile of the subject: the relevance of the employer’s knowledge of the disability status.

SOMMARIO:

1. La nozione di disabilità alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia - 2. Lavoratore disabile, periodo di comporto e discriminazione indiretta: gli orientamenti della giurisprudenza - 3. Le previsioni dei contratti collettivi e il comporto differenziato - 4. La rilevanza della conoscenza dello stato di disabilità - NOTE


1. La nozione di disabilità alla luce della giurisprudenza della Corte di Giustizia

Il tema del licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto è quanto mai attuale e discusso [1] alla luce dei recenti orientamenti della giurisprudenza europea e nazionale. Il punto di partenza per una riflessione sui profili più critici della materia non può che essere la nozione di disabilità cui fare riferimento tenendo conto delle pronunce della Corte di giustizia che ne hanno fornito di una definizione “allargata” che prescinde dal riconoscimento di una certa soglia di inabilità al lavoro e che mira a ricomprendere al suo interno anche le malattie croniche e di lunga durata. In un primo momento, soprattutto con la sentenza Chacón Navas [2] la Corte europea aveva accolto una nozione restrittiva di disabilità, intesa come deficit psico-fisico dell’individuo, secondo un modello biomedico, definendo l’handicap «come un limite che deriva (…) da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale» ed escludendo un’assimilazione pura e semplice tra le nozioni di handicap e malattia. In seguito, dopo la ratifica da parte dell’Unione Europea della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 [3], si è avviato un lungo percorso di revisione per giungere ad una concezione più ampia ed inclusiva della disabilità, basata sul c.d. modello biopsicosociale. Così a partire dalla sentenza HK Danmark [4] la Corte afferma che la disabilità deve essere intesa quale «limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori». Viene accolta, quindi, una idea di disabilità non più identificata esclusivamente con le limitazioni individuali causate da menomazioni psico-fisiche, «bensì fondata anche sulla condizione di marginalizzazione e svantaggio derivante dalle barriere di carattere economico, sociale e culturale incontrate dalle persone che con queste limitazioni convivono» [5]. La disabilità è interpretata come un processo dinamico ed evolutivo conseguente [continua ..]


2. Lavoratore disabile, periodo di comporto e discriminazione indiretta: gli orientamenti della giurisprudenza

Il tema del licenziamento del disabile per superamento del periodo di comporto deve essere affrontato coordinando la disciplina sulla tutela antidiscriminatoria, di matrice europea e nazionale, con quella sulla malattia prevista dal­l’art. 2110 c.c. che, in una logica di compromesso tra la libertà di iniziativa economica e la tutela della salute del lavoratore, affida, di fatto, ai contratti collettivi la determinazione di un periodo di comporto durante il quale il prestatore di lavoro non può essere licenziato. Una delle questioni centrali su cui si confrontano diversi orientamenti della giurisprudenza, soprattutto di merito, riguarda la configurabilità di una discriminazione indiretta laddove venga applicato lo stesso periodo di comporto ai lavoratori disabili e a quelli malati non disabili. La Corte di giustizia nella sentenza Ruiz Conejro [17], pronunciandosi su una disposizione del diritto spagnolo per alcuni aspetti non troppo diversa dall’art. 2110 c.c., ha ritenuto che «la presa in considerazione dei giorni di assenza dovuti a una patologia collegata alla disabilità nel calcolo dei giorni di assenza per malattia finisce per assimilare una patologia legata alla disabilità alla nozione generale di malattia». In tal modo, rileva la Corte, non si tiene conto del fatto che il lavoratore disabile è normalmente più esposto rispetto agli altri al rischio di assentarsi dal lavoro, trovandosi in uno stato di infermità che ha come ricaduta più tipica l’aggravamento o il periodico acuirsi dei disturbi psico-fisici. Quindi, una norma nazionale come quella spagnola che manchi di considerare questo aspetto potrebbe mettere i lavoratori disabili in una condizione di particolare svantaggio, realizzando una discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. b, della direttiva 2000/78/CE [18]. La Corte, richiamando la direttiva europea, però, ha escluso la sussistenza di una discriminazione indiretta in presenza di due alternative cause di giustificazione: la sussistenza di una finalità legittima, perseguita attraverso mezzi necessari e appropriati, ovvero la sussistenza dell’obbligo della legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui al­l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione. Partendo da questi principi la [continua ..]


3. Le previsioni dei contratti collettivi e il comporto differenziato

Se si esclude che le assenze legate alla disabilità debbano essere in ogni caso espunte dal calcolo del periodo di comporto si dovrebbe arrivare a concludere che l’accomodamento ragionevole non può che consistere in un ampliamento del comporto per i lavoratori disabili [34]. Poiché nel nostro ordinamento la tutela della malattia è frutto della combinazione di fonti legali e fonti negoziali, è opportuno considerare se la contrattazione collettiva abbia apprestato una disciplina in linea con il più recente diritto antidiscriminatorio. Non sempre i contratti collettivi sono stati in grado di rispondere in modo adeguato alle esigenze di tutela dei lavoratori disabili o affetti da patologie croniche o di lunga durata. Visti i tempi lunghissimi impiegati per i rinnovi contrattuali, i contratti collettivi più datati non differenziano ancora il comporto per disabili e non, mentre nei rinnovi più recenti la contrattazione collettiva ha introdotto dei trattamenti differenziati e di favore per i lavoratori affetti da patologie di particolare gravità. Naturalmente si tratta di previsioni specifiche, tutt’altro che standardizzate e che non sempre risultano sufficienti. In alcuni casi gli accordi collettivi prolungano il periodo di comporto in caso di patologie gravi escludendo dal computo le assenze legate all’ospedaliz­zazione o all’effettuazione di terapie salvavita; in altri vengono concessi specifici permessi e congedi non computabili nel comporto per sottoporsi a particolari trattamenti terapeutici; alcuni contratti si limitano a prolungare il comporto senza espungere alcuna assenza; molti poi, prevendono la possibilità per il lavoratore di ricorrere all’aspettativa non retribuita [35]. Vi è da chiedersi se il rispetto della tutela differenziata per le malattie gravi o comunque legate alla disabilità prevista dai contratti collettivi metta al riparo il datore di lavoro dalla dichiarazione di discriminatorietà del licenziamento. Alcune pronunce [36] sembrano ritenere che laddove il CCNL applicato preveda un periodo di conservazione del posto prolungato a favore dei lavoratori esposti al rischio di assenze più lunghe sia da escludere la natura discriminatoria del licenziamento perché la situazione di oggettivo svantaggio del lavoratore disabile è compensata da un comporto diversificato. Tale [continua ..]


4. La rilevanza della conoscenza dello stato di disabilità

Un consolidato orientamento giurisprudenziale [40] ritiene che la conoscenza dello stato di disabilità o della riconducibilità della malattia a tale stato sia irrilevante ai fini della qualificazione come discriminatorio del licenziamento per il carattere oggettivo della discriminazione. Secondo questa impostazione l’applicazione della normativa antidiscriminatoria sovrannazionale, recepita dal d.lgs. n. 216/2003, non richiede un comportamento datoriale intenzionalmente discriminatorio proprio perché la discriminazione «opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, e a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro» [41]. Tale impostazione non appare convincente perché tende a sovrapporre il tema dell’accertamento della volontà (sicuramente irrilevante) con quello diverso e antecedente della conoscenza dell’esistenza del fattore discriminatorio [42], che assume particolare rilevanza perché il datore di lavoro è obbligato ad un facere (conteggiare diversamente le assenze legate alla disabilità o, più in generale, a prevedere un accomodamento ragionevole). In altri termini, «la conoscenza della disabilità rappresenta non già una componente soggettiva ma un elemento di natura oggettiva, un presupposto della condotta» [43]. Inoltre, stante l’ampia nozione di disabilità di origine europea, che involge anche l’aspetto socio – relazionale, per il datore di lavoro potrebbe essere difficoltoso venire a conoscenza dell’esistenza di un handicap, soprattutto se si tiene conto che gli è precluso qualsiasi accertamento sulle condizioni di salute del lavoratore perché, giustamente, vietato dall’art. 5 dello Statuto. Non convince neanche l’equiparazione con il divieto di licenziamento per causa di maternità in cui effettivamente la tutela opera oggettivamente e a prescindere dalla conoscenza che ne abbia il datore. Al di là del fatto che per la maternità è presente una specifica previsione di legge in tal senso, le due situazioni non sono sovrapponibili perché mentre la maternità costituisce uno specifico fattore di protezione ben definito, la malattia non è sempre ed automaticamente [continua ..]


NOTE