Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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La tutela antidiscriminatoria: dal lavoratore come contraente debole al lavoratore come persona umana (di Ilaria Zampieri, Giudice del lavoro del Tribunale di Parma)


Il contributo, muovendo dalla definizione di discriminazione nel diritto sovranazionale, a­nalizza le posizioni emerse presso la giurisprudenza di merito sulla questione se – in assenza di previsioni contrattuali di settore – costituisca discriminazione indiretta la condotta datoriale che, nel recedere dal rapporto instaurato con il lavoratore disabile per superamento del periodo di comporto, ometta di espungere le assenze riconducibili alla malattia determinata dalla condizione di disabilità.

Si muove, anzitutto, dall’inquadramento della tutela antidiscriminatoria quale modello di protezione dei diritti in cui il focus della tutela non è più il lavoratore come parte debole di un rapporto diseguale, ma il lavoratore in quanto persona, evidenziando come i connotati del diritto antidiscriminatorio siano prioritari nell’orientare la soluzione di tale questione.

Si dà conto, poi, delle due contrapposte tesi emerse presso la giurisprudenza di merito e delle relative criticità: la tesi che nega la natura discriminatoria del licenziamento derivante dall’applicazione uniforme delle regole sul comporto anche ai lavoratori portatori di handicap/disabilità e quella che, per contro, sostiene la natura discriminatoria del licenziamento derivante dall’applicazione uniforme delle regole sul comporto anche ai lavoratori portatori di handicap/disabilità.

Per superare queste criticità si propone di valorizzare, nella soluzione della questione, i connotati tipici del diritto antidiscriminatorio, rifuggendo da soluzioni astratte che si muovono nell’ambito di un perimetro di regole ed eccezioni precostituite, ma misurando la composizione dei contrapposti interessi caso per caso, tenendo conto delle specificità del caso concreto.

Anti-discrimination protection: from the worker as a weak contractor to the worker as a human person

The contribution, starting from the definition of discrimination in supranational law, analyzes the positions that have emerged in the jurisprudence of merit on the question of whether – in the absence of contractual provisions in the sector – employer conduct which, in withdrawing from the relationship established with the disabled worker, constitutes indirect discrimination for exceeding the period of behaviour, fails to expunge the absences attributable to the illness caused by the disability condition.

It moves, first of all, to the framing of anti-discrimination protection as a model of protection of rights in which the focus of the protection is no longer the worker as a weak party in an unequal relationship, but the worker as a person, highlighting how the connotations of anti-discrimination law are priorities in guiding the solution to this issue.

An account is then given of the two opposing theses that have emerged from the relevant jurisprudence and the related critical issues: the thesis which denies the discriminatory nature of the dismissal deriving from the uniform application of the rules on conduct also to handicapped/disabled workers and the one which, on the other hand, supports the discriminatory nature of the dismissal resulting from the uniform application of the rules on conduct also to handicapped/disabled workers.

To overcome these critical issues, it is proposed to enhance, in the resolution of the issue, the typical features of anti-discrimination law, avoiding abstract solutions that move within a perimeter of pre-established rules and exceptions, but measuring the composition of the opposing interests on a case-by-case basis., taking into account the specificities of the concrete case.

SOMMARIO:

1. La fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di “comporto” - 2. L’avvento della tutela antidiscriminatoria: dal lavoratore come contraente debole al lavoratore come persona umana - 3. La definizione di discriminazione nel diritto sovranazionale - 4. Il problema conoscitivo: sull’esclusione dal periodo di comporto della malattia imputabile a disabilità - 5. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito - 5.2. La tesi che sostiene la natura discriminatoria del licenziamento derivante dall’applicazione uniforme delle regole sul comporto anche ai lavoratori portatori di handicap/disabilità - 6. Considerazioni conclusive - NOTE


1. La fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di “comporto”

Intendendo, in questa sede, prescindere dalla vexata quaestio relativa alla riconducibilità della fattispecie del licenziamento per superamento del periodo di “comporto” alla categoria della risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo [1], ci si limita ad evidenziare che il recesso datoriale per le ipotesi di assenze determinate dalla malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), si inquadra nello schema previsto dall’art. 2110 c.c. [2], che prevale, per la propria specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali di cui alla legge, di carattere generale, n. 604/1966 [3]. A differenza di tutti i contratti a prestazioni corrispettive – tra i quali rientra anche il contratto di lavoro, in relazione al quale, alla prestazione lavorativa del dipendente, corrisponde la controprestazione retributiva datoriale – l’art. 2110 c.c., ponendo gli eventi ivi descritti tra le cause di sospensione del rapporto di lavoro, stabilisce che il contratto di lavoro dipendente, al ricorrere di tali ipotesi, resta sospeso nei limiti di cui alla contrattazione collettiva applicata, ancorché con obbligo di corresponsione della retribuzione; di talché, a fronte dell’inadempimento della prestazione lavorativa del lavoratore per ragioni ascrivibili a malattia, il datore di lavoro, non solo non può sottrarsi dal pagare la retribuzione, ma non può nemmeno procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro. Risulta, dunque, evidente l’eccentricità della disciplina prevista dalla richiamata disposizione – la quale prevede, appunto, al verificarsi di tali eventi, la sospensione del rapporto, e, dunque, la conservazione del posto di lavoro nonché la permanenza del vincolo contrattuale per un certo periodo di tempo variamente determinato (di solito dalla contrattazione collettiva) –, rispetto al diritto comune dei contratti di scambio (artt. 1218, 1265 e 1463 c.c.). E, ciò, sia avendo riguardo al profilo della responsabilità, laddove è prevista la traslazione del rischio sul datore quale soggetto “creditore” della [continua ..]


2. L’avvento della tutela antidiscriminatoria: dal lavoratore come contraente debole al lavoratore come persona umana

Se, sino ad un recente passato, gli aspetti controversi e dibattuti in ordine a tale fattispecie erano limitati a questioni tecnico-giuridiche di “confine” [5], è, oggi, in discussione la tenuta sistematica della disposizione. Tale fenomeno si giustifica, in larga misura, alla stregua della nuova centralità assunta, in seno all’ordinamento, dalla tutela antidiscriminatoria [6], suscettibile di influenzare profondamente il diritto del lavoro; un nuovo diritto del lavoro al cui centro si pone, non un lavoratore astrattamente considerato, ma un soggetto “in carne ed ossa” che – attesi i suoi peculiari connotati – esige tutele calibrate sulle specificità della persona. Questa tendenza rappresenta, a sua volta, una proiezione del più ampio fenomeno di “antropologizzazione” delle categorie civilistiche nonché di deciso distacco dalla c.d. pregiudiziale patrimonialistica che ha storicamente connotato il Codice civile (e, più in generale, la stagione delle codificazioni); processo, questo, che ha determinato una rilettura trasversale di gran parte degli istituti del diritto civile. Se, invero, al di fuori dell’ambito dei diritti della personalità [7], nell’asset­to codicistico originario, la persona è sempre stata considerata come astratto soggetto di diritto, ossia quale centro di imputazione normativa e titolare di rapporti giuridici di carattere patrimoniale, si è progressivamente assistito ad un processo riformatore al centro del quale la persona umana è divenuta oggetto di tutela. Tale rilettura ha riguardato, non solo settori – quello delle persone (fisiche e giuridiche) [8] o della famiglia [9] – in cui le relazioni personali rivestono, per definizione, un ruolo di centralità, ma anche aree – quella della proprietà [10] o della responsabilità civile [11] o, ancora, quella delle obbligazioni e dei contratti – tradizionalmente impermeabili ai valori della persona. Nel diritto dell’economia si è, in particolare, assistito ad una revisione integrale dei rapporti tra persona e mercato. E, ciò, sia con riguardo ai contratti di diritto comune, sia in relazione ai contratti macro-economici, quali i contratti del consumatore – protagonista del mercato e derivato dell’homo economicus – e i contratti [continua ..]


3. La definizione di discriminazione nel diritto sovranazionale

Fatta tale indispensabile premessa, occorre muovere – al fine di inquadrare correttamente il problema conoscitivo – dalla definizione di discriminazione. La non discriminazione – pur costituendo, da sempre, un principio cardine dell’Unione Europea – è legata, nella sua affermazione originaria, a profili prettamente lavoristici, essendo inizialmente concepita, non quale corollario del principio di eguaglianza, ma come strumento per favorire la corretta costituzione del mercato del lavoro europeo. Tale prospettiva è mutata, da un lato, con l’introduzione della Carta di Nizza che, al Capo III, ha declinato l’eguaglianza in vari corollari [15], e, dall’altro, con l’applicazione dell’art. 13 del Trattato di Amsterdam, attraverso l’adozio­ne di due fondamentali direttive: la 2000/43/CE, che ha attuato il principio della parità di trattamento indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e la 2000/78/CE, la cosiddetta direttiva-quadro, la quale ha stabilito un quadro generale per la parità di trattamento in relazione all’orientamento sessuale, al credo religioso, all’età e alla disabilità in materia di lavoro. Tale ultima direttiva, recepita dal d.lgs. n. 216/2003, “mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento” (art. 1). Sul punto, merita evidenziare come – secondo la direttiva 2000/78/CE, quanto a parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – “la messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro abbia un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull’handicap” (considerando 16), e come “il divieto di discriminazione non debba pregiudicare il mantenimento o l’adozione di misure volte a prevenire o compensare gli svantaggi incontrati da un gruppo di persone... avente determinati handicap...” (considerando 26). Alla lett. a) dell’art. 2, in particolare, è definita la discriminazione diretta, che si ravvisa “quando, per religione, per convinzioni personali, per [continua ..]


4. Il problema conoscitivo: sull’esclusione dal periodo di comporto della malattia imputabile a disabilità

Ciò posto, come rilevato da attenta dottrina [19], la trasposizione, nell’ordi­na­mento italiano, dei principi eurounitari rappresenta un’operazione complessa, dal momento che l’istituto della malattia nel rapporto di lavoro trova la sua disciplina di riferimento in una norma “incompleta”. L’art. 2110, comma 2, c.c. riconosce, invero, il diritto del lavoratore alla conservazione del posto, ma rinvia la competenza a determinarne la durata e, più in generale, la modalità di godimento, ad una fonte ulteriore: alle leggi speciali, alla contrattazione collettiva, agli usi o al giudice mediante il ricorso all’equità. Il modello di gran lunga prevalente è, come noto, quello che vede nella contrattazione collettiva la fonte di composizione degli interessi del creditore e del debitore alla prosecuzione del rapporto di lavoro. Sicché, diversamente dalle controversie esaminate dalla Corte di Giustizia – dove era in discussione la potenziale discriminatorietà di una norma legislativa – la disciplina italiana è centrata sul rapporto integrativo tra la fonte codicistica e quella negoziale. Si ritiene, dunque, che – nell’affrontare la questione oggetto di indagine – non possano che distinguersi le due diverse ipotesi che possono presentarsi nella prassi: quella in cui sia stato contrattualmente previsto un periodo di conservazione del posto di lavoro determinato in misura uguale per tutti i lavoratori e quella in cui, per contro, sia stato pattiziamente previsto un comporto prolungato – distinto da quello ordinario – in favore di talune categorie di lavoratori. Per ragioni di spazio, ci si soffermerà, nella presente sede, nell’analisi delle diverse questioni che si presentano all’interprete nell’ipotesi in cui la contrattazione di settore abbia previsto un periodo di comporto uguale per tutti i lavoratori, non senza convenire, incidentalmente, con l’opinione secondo cui l’esistenza di una norma contrattuale che tuteli in modo differenziato coloro che, a causa delle proprie condizioni di salute, siano maggiormente esposti al rischio di assenze vale di per sé ad escludere la discriminazione indiretta discendente dall’applicazione dello stesso termine di comporto per i lavoratori normodotati e per quelli affetti dalle malattie specificamente individuate, dal momento che [continua ..]


5. Gli orientamenti della giurisprudenza di merito

5.1. La tesi che nega la natura discriminatoria del licenziamento derivante dall’applicazione uniforme delle regole sul comporto anche ai lavoratori portatori di handicap/disabilità Secondo un primo orientamento (ad oggi minoritario) – al cui interno sono rinvenibili diverse ricostruzioni – l’applicazione uniforme al disabile della disciplina del comporto non realizzerebbe alcuna discriminazione. Secondo una prima interpretazione, la tesi secondo cui un periodo di comporto indifferenziato determinerebbe una discriminazione indiretta a danno dei disabili non ha alcun espresso ancoraggio normativo (cfr. Trib. Parma, sez. lav., 17 agosto 2018 secondo cui “non vi è alcuna norma di legge che preveda un periodo di comporto più lungo per i soggetti affetti da disabilità e tale vuoto normativo non può essere supplito dal giudice”). Di discriminazione può, infatti, parlarsi solo quando si configuri un trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta (cfr. Cass. civ., sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575), mentre, nel caso in esame, qualunque lavoratore sarebbe stato licenziato nella medesima situazione. L’infondatezza dell’argomento emerge plasticamente alla luce del principio di primazia e di effettività del diritto eurounitario, anche in considerazione della competenza esclusiva della Corte di Giustizia nell’interpretazione del diritto dell’Unione. La Corte ha, invero, la pertinenza esclusiva nell’interpretazione dei precetti, di cui chiarisce e precisa il significato nonché la relativa portata – in specie, dell’applicazione del principio di parità nei riguardi dei lavoratori disabili – e, dunque, il prodotto di tale attività giurisdizionale (sentenze e ordinanze) assume carattere vincolante e riveste il valore di ulteriore fonte, c.d. “derivata”, del diritto della Unione Europea [23]. Sotto tale profilo, dunque, l’efficacia diretta del divieto comunitario di discriminazione, combinandosi con la regola elaborata dalla Corte di giustizia, trova applicazione per ogni fattispecie concreta nel caso in cui l’ordinamento interno non appresti alcun tipo di compensazione per via legale, collettiva o tramite l’obbligo di accomodamenti datoriali. In altri e diversi casi, la discriminazione indiretta è stata esclusa sul [continua ..]


5.2. La tesi che sostiene la natura discriminatoria del licenziamento derivante dall’applicazione uniforme delle regole sul comporto anche ai lavoratori portatori di handicap/disabilità

Di segno opposto alle ricostruzioni esaminate risultano tutte quelle pronunce della giurisprudenza di merito che, dopo aver accertato che il contratto collettivo di riferimento prevede lo stesso periodo di comporto per tutti i dipendenti, hanno affermato che il datore di lavoro è tenuto a compensare la posizione di particolare svantaggio del disabile escludendo dal computo tutti i periodi di assenza derivanti dalle patologie imputabili all’handicap, senza ulteriori distinzioni ed indipendentemente dalla circostanza per cui il datore di lavoro fosse o meno a conoscenza della disabilità del lavoratore nonché del­l’im­putabilità dei giorni di malattia a una patologia connessa a tale condizione. Si prescinderà, in tale sede, dalla questione relativa alla necessità dell’ac­certamento, in capo a parte datoriale, ai fini che qui interessano, della conoscenza/conoscibilità della condizione di disabilità del lavoratore nonché del­l’imputabilità delle assenze per malattia all’handicap, questione in ordine alla quale, tuttavia, non ci si può esimere dal rilevare l’erroneità dell’impo­stazione che rileva la superfluità di tale accertamento semplicemente richiamandosi alla rilevanza in senso oggettivo della discriminazione. La portata oggettiva della discriminazione riguarda, invero, o la pretesa impossibilità di contrapporvi una distinta giustificazione dell’atto (secondo la distinzione operata in giurisprudenza rispetto al motivo illecito e ritorsivo), oppure la irrilevanza dell’animus nocendi. Nello stesso senso, ha concluso l’Avvocato generale nel caso Conejero [27] e il Comitato sui diritti delle persone con disabilità, che hanno distinto la dimensione della conoscenza o conoscibilità del fattore protetto contro la discriminazione da quella della volontà/intenzione, nel senso che il fattore di discriminazione per disabilità opera a prescindere dall’accertamento della volontà illecita del datore di lavoro – differentemente da quanto accade con riguardo al motivo illecito e determinante ex art. 1345 c.c. – ma non dalla verifica della conoscenza o conoscibilità della condizione di svantaggio del lavoratore. Tanto premesso – tornando al tema oggetto di indagine – ritiene la scrivente che lo scomputo generalizzato [continua ..]


6. Considerazioni conclusive

Tanto premesso in ordine ai principali orientamenti formatisi presso la giurisprudenza di merito, ad avviso della scrivente, al fine di impostare correttamente il problema conoscitivo di cui si è dato conto, occorre muovere dalle considerazioni generali esposte in premessa, relative ai connotati tipici del diritto antidiscriminatorio; considerazioni che sono, invero, prioritarie nell’o­rientare la soluzione di tale complessa questione. Sotto tale profilo, occorre rifuggire da soluzioni astratte che si muovono nell’ambito di un perimetro di regole ed eccezioni precostituite, dovendo, piuttosto, la composizione dei contrapposti interessi essere misurata caso per caso, tenendo conto, cioè, delle specificità del caso concreto. È bene, tuttavia, precisare che, nonostante la preferenza per tale approccio interpretativo, non si può rinunciare all’elaborazione di direttive e criteri discretivi utili ad orientare l’interprete e, prima ancora parte datoriale, pena la frustrazione dell’imprescindibile garanzia di certezza del diritto. Esigenza, questa, tanto più sentita ove solo si consideri che, nell’ultimo decennio, la diminuzione di tutela da parte del diritto del lavoro ha determinato l’emersione – anche in considerazione della sua potenziale vis expansiva, in virtù, in particolare, dei confini non nettamente definiti – di un’acquisita centralità del filone antidiscriminatorio. Come noto, invero, il critico scenario economico, ormai decennale, unitamente alle sollecitazioni provenienti dalle istituzioni europee sul punto, hanno indotto il legislatore ad intervenire sul tema – due volte nell’arco di neanche un triennio – determinando un radicale mutamento del tradizionale sistema di tutela. La massima garanzia accordata al lavoratore permane, oggi, a seguito degli ultimi due interventi riformatori, solo per la fattispecie del recesso discriminatorio – unitamente alle altre ipotesi di nullità previste dalla legge – che consente al lavoratore la possibilità di una piena reintegra in caso di licenziamento ingiustificato, nell’ottica di riequilibrare posizioni sperequate. Come osservato [31], “la relativa esatta individuazione dei confini avrà, dunque, inevitabili influenze sui futuri scenari del diritto del lavoro, rappresentando l’attuale architrave tra la norma [continua ..]


NOTE