Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Contratto di categoria e libertà sindacale: questioni attuali (di Barbara de Mozzi, Professoressa associata in Diritto del lavoro nell’Università degli Studi di Padova)


Nel saggio si esaminano talune delle questioni che il principio di libertà sindacale pone, con riferimento al contratto collettivo di categoria.

Ci si sofferma, in particolare, sul tema della contrattazione collettiva separata; sulle conseguenze che derivano dalla scelta del datore di cambiare organizzazione di appartenenza, qualora abbia fatto anche rinvio al c.c.n.l.; sulle questioni del c.d. dumping contrattuale, della misurazione della rappresentatività delle organizzazioni sindacali; dell’individuazione dei perimetri contrattuali; questioni, tutte, rese urgenti dalla c.d. frammentazione della rappresentanza, anche datoriale. Ci si interroga sul ruolo dei principali accordi interconfederali in materia (t.u. 2014 e patto per la fabbrica, del 2018). Si analizzano – alla luce del principio di libertà sindacale – talune delle principali disposizioni che fanno rinvio al c.c.n.l. o lo elevano a parametro per l’individuazione di determinati trattamenti (talora al fine di consentire al datore di lavoro l’accesso a determinati benefici). Ci si interroga sulla validità delle c.d. clausole interdittive.

Collective bargaining agreements and trade union freedom: current issues

This essay examines several of the issues that the principle of trade union freedom raises, with reference to collective bargaining agreements.

In particular, it dwells on the subject of separate collective bargaining, the consequences of an employer’s choice to change the organisation to which it belongs (in the case where reference has also been made to a national collective labour agreement), the problem of so-called contractual dumping, the measurement of trade union representativeness and the identification of contractual perimeters. All these issues are made urgent by the so-called fragmentation of representation, including that of employers. The role of the main interconfederal agreements that deal with this subject is questioned (the Consolidated Act of 2014 and the Patto per la fabbrica (“Pact for the factory”) of 2018). Several of the main provisions that refer to national collective labour agreements or that make them a parameter for identifying certain treatments (sometimes in order to allow the employer access to certain benefits) are analysed in light of the principle of trade union freedom. The validity of so-called prohibition clauses is also questioned.

Keywords: collective bargaining agreements – trade union freedom

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. La contrattazione separata nel prisma dell’art. 39 Cost. - 3. Rinvio, iscrizione e libertà sindacale (se la linea contrattuale non si spezza) - 4. Il tentativo delle parti sociali di (auto)razionalizzare il pluralismo: il t.u. 2014 - 5. La compatibilità delle regole per la misurazione della rappresentatività di cui al t.u. 2014 con il principio di libertà sindacale - 6. Dal t.u. 2014 al “patto per la fabbrica” del 2018 e oltre - 7. Rinvii “propri” e “impropri” e principio di libertà sindacale - 8. Contratto collettivo “parametro” e libertà sindacale - 9. Norme incentivo e libertà sindacale - 10. Misurazione della rappresentatività, perimetri, e libertà sindacale - 11. Clausole “interdittive” e libertà sindacale - NOTE


1. Premessa

Svariate sono le questioni che si addensano, ancor oggi, attorno al contratto collettivo di categoria, la cui disamina è strettamente intrecciata al principio di libertà sindacale, di cui all’art. 39 Cost. Disposizione, questa, nella quale si esprime la scelta di fondo del costituente «di munire gli interessi di lavoro oltre che di una tutela statuale, di un’autotutela» [1] e sotto la cui egida trova protezione l’autonomia privata collettiva, la quale è «espressione di poteri privati di autoregolamento incardinati sul pluralismo delle opzioni associative dei lavoratori e delle loro organizzazioni» [2]. Tra tali questioni, due in particolare sono divenute centrali nel dibattito del­l’ultimo decennio: quella del dissenso intersindacale e dell’emersione della c.d. contrattazione collettiva separata; e la questione del c.d. dumping contrattuale e dell’individuazione dei perimetri contrattuali, resa, quest’ultima, particolarmente urgente dalla frammentazione della rappresentanza, sia dal lato dei sindacati dei lavoratori, sia dal lato datoriale. Tali temi si intrecciano a quello del moltiplicarsi dei rinvii legali alla contrattazione collettiva e delle ipotesi in cui quest’ultima viene assunta a parametro per l’individuazione di determinati trattamenti. Con la necessità di individuare il c.c.n.l. “rinviato” o “parametro”, sempre più spesso (ma non in ogni caso) da individuare tra quelli stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi. Con la necessità, dunque, (che tale formula, nella sua accezione “selettiva”, implica e cui assolve) di comparare tra loro contratti insistenti su ambiti diversi e di individuare in base a quali indici effettuare la comparazione, secondo canoni che siano rispettosi del principio di libertà sindacale. Del primo nodo (contrattazione separata) si sono fatti carico, soprattutto, gli accordi interconfederali del triennio 2011-2014 (e oltre), che vedono nel­l’a.i. 28 giugno 2011 e nel t.u. 10 gennaio 2014 gli esponenti più “famosi”. Il secondo tema, invece, è lambito dal c.d. “patto per la fabbrica” del 9 marzo 2018. Si tratta di accordi che si pongono in discontinuità l’uno dagli altri, proprio in ragione del diverso obiettivo agli stessi sotteso. I primi, [continua ..]


2. La contrattazione separata nel prisma dell’art. 39 Cost.

Si è già osservato che il testo unico 2014 mirava in particolare a contrastare il fenomeno della contrattazione separata, di cui – in quegli anni – si erano avute varie epifanie, la più nota delle quali ha interessato il settore metalmeccanico. Quel che resta di quella vicenda è una ricca elaborazione giurisprudenziale attorno al tema del contratto collettivo, della sua efficacia soggettiva, della sua durata nel tempo, del valore della clausola di ultrattività; questioni tutte che interrogano l’art. 39 Cost. Troviamo dunque conferma, dalla lettura di quelle “combattute” pronunce di merito [8], che, se un’organizzazione datoriale, nella vigenza di un vecchio c.c.n.l. unitario non scaduto, dia ad esso disdetta e sottoscriva, con una parte soltanto dei sindacati già firmatari, un nuovo c.c.n.l. separato, il datore di lavoro ad essa affiliato non potrà pretendere di dare applicazione a tale ultimo contratto separato nei confronti di lavoratori iscritti ad un sindacato dissenziente che, in nome appunto della libertà sindacale, lo rifiutino [9]. Ma neppure potrà il datore di lavoro applicare quel c.c.n.l. separato ai lavoratori “non iscritti” a nessun sindacato, a loro volta dissenzienti. I lavoratori sono infatti liberi di non aderire ad alcun sindacato, senza poter essere attinti (non volendolo) dagli effetti dell’attività sindacale svolta tra parti terze. Viceversa (secondo l’opinione preferibile) non costituirà condotta antisindacale il rifiuto del datore di riconoscere a detti lavoratori, che rifiutino il nuovo c.c.n.l. (separato), i migliori trattamenti economici da quest’ultimo garantiti [10]. I lavoratori “dissenzienti” potranno, bensì continuare a fruire dei trattamenti previsti dal vecchio contratto unitario, ma, in sostanza, solo fino alla sua naturale scadenza. Il principio di libertà sindacale di cui al comma 1 dell’art. 39 Cost. (e l’inattuazione della sua seconda parte), ammettono infatti, come si è visto, la compresenza di più accordi sindacali disciplinanti il medesimo ambito, destinati ad operare nei confronti di soggetti diversi [11]. Se (coerentemente con il principio di libertà sindacale) si muove dalla concezione del contratto collettivo sottoscritto da più sindacati, non già quale «contratto [continua ..]


3. Rinvio, iscrizione e libertà sindacale (se la linea contrattuale non si spezza)

È osservazione comune che, spesso, il datore di lavoro affiliato ad un’asso­ciazione sindacale, fa comunque anche rinvio (in genere, nella lettera di assunzione) al c.c.n.l. sottoscritto dall’associazione di appartenenza. Si pone, allora, la questione della reciproca interferenza tra iscrizione del datore e rinvio, in specie allorché il datore di lavoro (spesso per sfruttare le migliori “convenienze” di un contratto collettivo “innaturale”, cui egli – secondo l’insegnamento delle sezioni unite del 1997 – può liberamente attingere [23]) receda dall’associazione di appartenenza per associarsi ad un’altra, senza, però, che si sia verificata la rottura della linea contrattuale, o che le associazioni sindacali firmatarie abbiano dato disdetta agli accordi. Ora, come noto, se il datore iscritto (che non abbia fatto anche rinvio al c.c.n.l.) recede dall’associazione, si svincola dal c.c.n.l., con efficacia dalla scadenza dello stesso. Il vincolo che deriva (esclusivamente) da rinvio, in capo al datore di lavoro non iscritto è invece – si è detto – più resistente, perché, salvo che la “linea si spezzi”, il datore di lavoro non potrebbe sciogliersi, in mancanza di “mutuo dissenso” [24]. Ma, quid iuris, appunto, nel caso in cui il datore vincolato all’applicazione di un dato c.c.n.l., sia per iscrizione che per rinvio, “cambi giacca sindacale” a favore di una diversa organizzazione datoriale? Una prima opinione sostiene che il “rinvio” già effettuato al c.c.n.l. (dal datore iscritto) andrebbe qualificato quale mero comportamento confermativo degli impegni già assunti con l’iscrizione: venuta meno questa (e cessato, per il datore di lavoro, l’obbligo di applicare il c.c.n.l., a far data dalla sua scadenza), questi sarebbe liberato da qualsiasi vincolo. Ciò, a maggior ragione, quando il rinvio sia “recettizio”, perché in tal caso – anche a volergli assegnare un effetto cogente – quest’ultimo verrebbe comunque meno quando il contratto collettivo “rinviato” viene a scadenza [25]. Di diverso avviso è invece una recente giurisprudenza di merito, che, a fronte di un rinvio recettizio, fa salvi per il lavoratore i trattamenti previsti dal vecchio c.c.n.l. [continua ..]


4. Il tentativo delle parti sociali di (auto)razionalizzare il pluralismo: il t.u. 2014

Anche solo dai pochi cenni sin qui fatti, emerge come l’incrinarsi delle regole di funzionamento del c.d. sistema sindacale di fatto, centrato, per anni, sulla stipulazione di c.c.n.l. “unitari” fondati sul canone informale dell’autori­conoscimento), con l’emergere, da un lato, della contrattazione separata e, dal­l’altro, di una contrattazione collettiva talvolta al ribasso, reclamasse un tentativo di razionalizzazione. Ciò, nella consapevolezza, tuttavia, che la contrattazione “separata” è, pur sempre, anch’essa espressione di libertà sindacale; quest’ultima, si estende, in­fatti, senz’altro fino a garantire (con l’insindacabilità dell’interesse tutelato e la libertà di scegliere il contraente) la libertà di un’organizzazione sindacale di stipulare un contratto collettivo nel dissenso di altre organizzazioni sindacali, pur rappresentative in quell’ambito [44]; con possibile coesistenza, dunque, di più regolamentazioni distinte, non interferenti, ciascuna con efficacia soggettiva limitata alla propria «sfera di rappresentanza associativa» [45]. Fin dai primi anni del decennio scorso si assiste, dunque, al tentativo delle centrali confederali di individuare, esse stesse, meccanismi formalizzati di autoregolazione (rispettosi dell’art. 39 Cost.), diretti appunto a razionalizzare (con gli strumenti dell’autonomia privata collettiva) il pluralismo. Sennonché, la scelta cade sul criterio della “rappresentatività misurata”, in base a un mix tra dato associativo e dato elettorale; e ciò, malgrado, a rigore, secondo l’opinione che pare preferibile, l’efficacia dell’azione collettiva non si presti agevolmente ad essere “misurata” «sulla base di criteri formali di unità o di maggioranza nell’aggregazione dei consensi», né sulla base della «verifica elettorale» [46]. Ad ogni modo, tale soluzione porta con sé anche la necessità di definire l’ambito entro cui effettuare tale misurazione. Nodo, questo, sostanzialmente eluso, in un primo momento, dalle parti sociali: il riferimento alla “categoria” di cui al t.u. 28 giugno 2011 è stato, sì, prontamente sostituito (dal 14 luglio) con il riferimento al [continua ..]


5. La compatibilità delle regole per la misurazione della rappresentatività di cui al t.u. 2014 con il principio di libertà sindacale

All’interrogativo se tali regole (di cui al t.u. 2014) siano compatibili con il principio di libertà sindacale ex art. 39 Cost., occorre, tuttavia, dare risposta positiva. Le organizzazioni sindacali nazionali si configurano, alla luce dei rispettivi statuti, come enti autonomi, dotati di propria distinta soggettività rispetto alla confederazione cui aderiscono e, in particolare, di una propria autonoma competenza negoziale. Gli impegni assunti dalle confederazioni hanno dunque «un valore soprattutto politico e poco o affatto vincolante sul piano giuridico» nei confronti delle organizzazioni nazionali, se non condivisi a livello di categoria [52]. Né la violazione del vincolo statutario o comunque dei vincoli derivanti dai rapporti di affiliazione da parte dell’associazione sindacale periferica è tale da determinare l’invalidità del contratto collettivo da quest’ultima sottoscritto, stante il principio di autonomia e pariteticità delle fonti collettive. In definitiva, la pretesa del t.u. di “fotografare” i perimetri esistenti di contrattazione è destinata a restare ineffettiva, se promossa dalle centrali sindacali confederali ma non condivisa a livello categoriale, stante la libertà sindacale (art. 39, comma 1, Cost.) di cui godono i sindacati di categoria; libertà sindacale (sub specie di autonomia negoziale) che non può essere compressa neppure ad opera delle “associazioni di associazioni”, salve unicamente eventuali misure endoassociative. Le regole del 5% e del 50% più uno non possono essere imposte alle federazioni. Un c.c.n.l. che non recepisse la regola del 50% più uno sarebbe dunque vincolante per le parti firmatarie (in forza del principio di libertà sindacale), anche se detta soglia di rappresentatività non fosse raggiunta. E un sindacato categoriale (ancorché aderente a confederazione firmataria dell’a.i., come ad esempio Fiom), a fronte della stipula di un c.c.n.l. separato (comunque espressione di libertà sindacale delle federazioni firmatarie) non potrebbe lamentare la violazione dell’a.i., in quanto res inter alios acta. Né detto sindacato potrebbe pretendere di essere ammesso alle trattative per il rinnovo del c.c.n.l. in base alla regola del 5% [53], in quanto l’a.i. vincola «solo le parti firmatarie che [continua ..]


6. Dal t.u. 2014 al “patto per la fabbrica” del 2018 e oltre

Il tema della misurazione della “rappresentatività” dei sindacati, in base al mix di dato associativo e dato elettorale, una volta “sdoganato” dalle stesse parti sociali, con riferimento al momento di accesso alle trattative e alla stipula del c.c.n.l., non poteva non venire in rilievo anche per l’esatta individuazione dei contratti collettivi oggetto di rinvio legale, o comunque assunti a parametro per la individuazione di determinati standard di trattamento; individuazione divenuta via via più problematica per effetto di quei fenomeni di “sovraffollamento” contrattuale, e sovrapposizione di perimetri cui sopra si è accennato [57]. Più in generale, da più parti si guarda a tali regole (o comunque al canone di una rappresentatività misurata) come alle uniche capaci di indurre una razionalizzazione nell’intero sistema di relazioni industriali, nel quale si avverte ormai da tempo consumato «il passaggio dall’anomia sindacale all’anarchia sindacale» [58]. Vero è, però, che, come si diceva, la regola del mix tra dato associativo e dato elettorale non può essere agevolmente “esportata”, anche per individuare il (o i) contratti collettivi leader: al di là di quanto osservato, circa la fotografia solo “parziale” di deleghe e voti che essa, ad oggi, restituisce (o meglio restituirà, a regime) (solo cioè dei sindacati di categoria aderenti al contenuto dell’a.i.)  [59], il vero nodo sta nella circostanza che si tratta, qui, di comparare tra loro c.c.n.l. insistenti su ambiti diversi, non riconducibili dall’interprete ad un comune denominatore (operazione necessaria per la “misurazione” in base a detti criteri “quantitativi”) [60]. Dal canto loro, le parti sociali, con l’a.i. 9 marzo 2018 [61] auspicano proprio una siffatta generalizzazione della misurazione della rappresentatività secondo il mix associativo ed elettorale [62], ma, forse consapevoli dei limiti che tale modello presenterebbe, se impiegato per individuare il (o i) contratti collettivi leader [63], si limitano a puntualizzare i futuri nodi da sciogliere (misurazione della rappresentanza datoriale; esigenza di più accurata ricognizione dei perimetri; messa a punto di regole che [continua ..]


7. Rinvii “propri” e “impropri” e principio di libertà sindacale

Occorre, a questo punto, brevemente richiamare quale sia, oggi, lo “stato dell’arte”: a che punto sia giunto il “lavorio” delle parti sociali (ma non solo) su tali temi, e quali questioni il principio di libertà sindacale ponga al contratto collettivo, in particolare allorché quest’ultimo sia chiamato ad integrare i rinvii legali all’autonomia collettiva, o a individuare i trattamenti, dotati di valenza di “parametro”. Prima di addentrarsi in tali questioni, occorre richiamare in limine talune distinzioni, e tra queste, quella, fondamentale per orientare l’interprete, tra rin­vii “propri” e rinvii “impropri”. Ciò, al fine soprattutto di chiarire come il principio di libertà sindacale (art. 39, comma 1 Cost.) costituisca rispetto al contratto collettivo c.d. di diritto comune, un baluardo a tutela delle competen­ze regolative di tutti i sindacati “genuini”, ancorché non “maggiormente rappresentativi”. La dottrina ha, da tempo, chiarito che, ove si demandi al contratto collettivo di derogare, sostituire o integrare il precetto legale (come, per fare solo uno degli innumerevoli esempi possibili, nell’art. 3, d.lgs. n. 81/2015) [73] (rinvio “proprio”), il legislatore ben può assumere quale criterio di selezione quello della maggiore rappresentatività o della maggiore rappresentatività comparata. Ciò, in quanto il principio di libertà sindacale (di cui è espressione la libertà di contrattazione collettiva) non include la possibilità, per il sindacato, di derogare (sostituire, integrare) il precetto legale [74]. Non così, però, ove si tratti di rinvio c.d. “improprio” [75], nel quale la legge rinvia al contratto perché esso “regoli” direttamente la materia (si veda, tra le numerose ipotesi, quella dell’art. 15, d.lgs. n. 81/2015). Si tratta, in sostanza, di rinvii con i quali la legge «nulla toglie e nulla aggiunge alla sfera di autonomia di cui i soggetti privati già godono» [76]. Poiché, in forza del principio di libertà di contrattazione collettiva, desumibile appunto dall’art. 39 Cost., anche in assenza di rinvio, qualsiasi contratto collettivo potrebbe comunque, di per sé solo, regolare la materia, il [continua ..]


8. Contratto collettivo “parametro” e libertà sindacale

Occorre, a questo punto accostarsi (ma solo tramite l’esemplificazione di alcune disposizioni, tra le più significative) [86] alle varie previsioni che fanno rinvio al c.c.n.l., o lo elevano a parametro per l’individuazione di determinati trattamenti, spesso anche in chiave di accesso a determinati benefici (norme incentivo), le quali (sia pure con varietà di accenti) fanno per lo più riferimento alla nozione di maggiore rappresentatività comparata. Come si è accennato, tali nozioni pongono, tutte, due nodi fondamentali: l’individuazione dell’ambito nel quale selezionare il (o i) contratto leader; ed il tema dei criteri in base ai quali valutare la rappresentatività (anche datoriale ove richiesto). Questioni che, naturalmente, interrogano da vicino l’art. 39 Cost. Non ci si può, qui, soffermare sul tema dell’individuazione del c.c.n.l. da impiegare come parametro di riferimento, per la determinazione della retribuzione minima e sufficiente, ex art. 36 Cost. [87], a fronte di una pluralità di contratti collettivi, nel medesimo ambito [88]. Ci si limita a ricordare che – ferma la già richiamata libertà del datore di non aderire ad alcun’organizzazione datoriale, quanto quella di applicare un contratto collettivo c.d. “innaturale” rispetto alle «oggettive caratteristiche del­l’impresa» [89] – il lavoratore ben può rivendicare il diritto ad una retribuzione parametrata [90], ex art. 36 Cost. ai minimi retributivi individuati dal contratto collettivo “corrispondente all’attività effettivamente svolta dall’imprenditore”; e ciò, non già perché la giurisprudenza continui a considerare surrettiziamente la “categoria” come un prius sottratto alla libera determinazione dei soggetti collettivi (facendo rivivere l’art. 2070 c.c.), quanto piuttosto perché essa – preso atto che la scelta delle parti sociali è stata, per lo più, quella di continuare a fare riferimento alla natura dell’attività svolta dal datore di lavoro per individuare i perimetri di applicazione del c.c.n.l., «non fa altro che applicare lo stesso criterio adottato liberamente dalle organizzazioni sindacali all’atto della definizione del campo di [continua ..]


9. Norme incentivo e libertà sindacale

Venendo ora alla categoria delle c.d. “norme incentivo”, che rinviano a determinati contratti collettivi, molto se ne è discusso per il passato, in particolare in relazione all’art. 36 Stat. lav. [110] Secondo l’opinione dominante esse non si pongono in conflitto con l’art. 39 Cost. ed in specie con gli inattuati commi 2 ss.: non si tratta, infatti, di una “coercizione”, ma «l’applicazione del contratto collettivo configura semplicemente un onere per poter richiedere taluni benefici legali ai quali l’applicazione, pur sempre volontaria, dà diritto» [111]. Ciò presuppone che il contratto collettivo funga, anche in tali casi da “parametro” esterno cui commisurare i trattamenti, dando luogo ad un «meccanismo di recezione mediata dei contratti collettivi» [112]. Tale linea argomentativa (malgrado la equivoca lettera della legge) può essere fatta valere anche con riferimento a disposizioni come quella dell’art. 30, d.lgs. n. 50/2016 [113]. Ed una valutazione in termini di “norma incentivo” (e dunque di compatibilità con l’art. 39 Cost.) può essere fatta (come altrove argomentato) [114] anche dell’art. 16, comma 1, d.lgs. n. 117/2017 e dell’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 112/2017, in materia di Terzo settore (riferite ai trattamenti economici e normativi); salva la precisazione che le cooperative sociali (imprese sociali di diritto) anche a prescindere dall’applicazione di detti trattamenti, devono, invece, avere comunque titolo a svolgere le attività di cui al novellato art. 1, comma 1, legge n. 381/1991 [115]. Merita, ancora speciale menzione tra le “norme incentivo” l’art. 1, comma 1175, legge n. 296/2006, cui si aggiungono altre norme settoriali analoghe [116]. Lo stesso Ispettorato nazionale del lavoro ha recentemente chiarito che la disposizione non impone affatto l’applicazione di un dato c.c.n.l.: piuttosto, gli organi ispettivi sono chiamati a comparare il c.c.n.l. applicato dal datore di lavoro con quello c.d. leader, valutando l’equivalenza o no dei trattamenti economici e normativi [117]. In merito deve, però, ripetersi quanto già osservato [118], e cioè che (malgrado le prese di posizione ministeriali) il principio di libertà sindacale suggerisce [continua ..]


10. Misurazione della rappresentatività, perimetri, e libertà sindacale

Il moltiplicarsi delle ipotesi (talune delle quali sopra richiamate) in cui la legge fa riferimento (con formule talora anche significativamente diverse tra loro) al contratto collettivo stipulato dai (o da) organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative fa venire al pettine alcuni nodi allo stato irrisolti, tra cui, in particolare, le più volte evocate questioni dei perimetri e della rappresentatività [122], non solo delle associazioni sindacali ma anche, ove richiesto dallo specifico rinvio, di quelle datoriali. Si tratta di questioni che avevano, forse, preoccupato (relativamente) poco gli interpreti in una situazione di “unità di azione” sindacale. E che, con il venire meno di quella, non hanno trovato ancora un compiuto assestamento. In particolare, quanto alla questione degli ambiti, non si tratta solo della difficoltà di individuare un perimetro contrattuale comune, ma, ancor prima, di individuare i diversi c.c.n.l. da mettere a confronto: l’art. 30, d.lgs. n. 50/2016 reca, esplicitamente, il riferimento al “settore” omogeneo all’appalto [123]; analogo criterio può essere suggerito anche con riferimento agli enti del Terzo settore a fronte di una pluralità di c.c.n.l. pertinenti, ed è proposto da parte della giurisprudenza e della dottrina anche nell’interpretazione dell’art. 7, legge n. 248/2007 (riferito al tipo di attività economica esercitata dalla cooperativa) [124]. Parte degli interpreti [125] suggerisce – in caso di coesistenza di più accordi con ambito di applicazione sovrapposto – di assumerlo dunque come criterio generale di selezione del c.c.n.l. da impiegare come parametro, tra una pluralità di contratti stipulati da sindacati comparativamente più rappresentativi (disarticolando il giudizio di maggiore rappresentatività comparata rispetto a quello di “pertinenza”). Tale operazione, si è detto, sottende, sì, una valutazione di “attinenza” di determinati c.c.n.l., rispetto all’ambito di attività del datore di lavoro. Non si tratterebbe, però, di “riesumare” l’art. 2070 c.c., in contrasto con l’art. 39 Cost., ma unicamente dell’impiego di un criterio di selezione “ragionevole” (art. 3 Cost.) stanti le (libere) scelte dell’autonomia [continua ..]


11. Clausole “interdittive” e libertà sindacale

Molte altre sono le questioni attuali, relative al c.c.n.l., la cui soluzione chiama in causa l’art. 39 Cost. Tra queste merita attenzione anche quella, recentemente postasi in giurisprudenza – e relativa al rapporto tra legge e contratto collettivo – circa la sussistenza, o no, di «tetti massimi “impliciti”», o di nuova generazione alla contrattazione collettiva, in specie nella disciplina dei c.d. “lavori flessibili” [143]. Ora, parte della dottrina, muovendo dalla considerazione che il perseguimento degli obiettivi di tutela del lavoro implica, oggi, anche il necessario contemperamento tra interessi degli insiders e degli outsiders, suggerisce che (nel solco di Corte Cost. n. 34/1985) l’“interesse generale” all’occupazione legittimerebbe limitazioni «bilaterali» all’autonomia collettiva nella disciplina del lavoro flessibile (come ad es. del lavoro a part-time), le quali sarebbero compatibili con l’art. 39, comma 1, Cost. [144]. La sussistenza di rinvii legislativi “impropri” (nei quali il legislatore fa espressamente salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva) andrebbe letta, a contrario, come conferma dell’inderogabilità bilaterale della legge da parte dell’autonomia collettiva, in suddetta materia. Ciò, quantomeno (secondo una distinta voce) nel senso che occorrerebbe interpretare, di volta in volta, il singolo rinvio legislativo (in materia di lavori flessibili) per comprendere se il legislatore abbia voluto consentire alla contrattazione collettiva di intervenire (in ipotesi con clausole “interdittive”) anche sull’an del ricorso a una data tipologia flessibile, o solo sul quomodo. Ed in effetti, tali argomentazioni paiono raccolte dalla corte di Cassazione, relativamente ad una fattispecie di lavoro intermittente, disciplinata dagli artt. 34 s. del c.d. decreto Biagi come “ripristinati” dal d.l. n. 112/2008. Il caso era quello relativo ad un c.c.n.l. che aveva introdotto limitazioni, ulteriori rispetto a quelle legali, in particolare escludendo la possibilità di ricorso al contratto di lavoro intermittente stanti la “novità degli strumenti” e la “situazione congiunturale di settore” [145]. Ora, detta pronuncia di Cassazione ritiene che i [continua ..]


NOTE