Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


I licenziamenti nel trasferimento d'azienda tra legge e prassi applicativa (di Fiorella Lunardon, Professoressa ordinaria di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Torino)


Il saggio ha ad oggetto le questioni sistematiche e applicative che riguardano la disciplina dei licenziamenti per motivi economici in costanza di un trasferimento d’azienda, alla luce sia del divieto posto dall’art. 2112, comma 4, c.c., sia della disciplina contenuta nell’art. 47, commi 4-bis e 5, della legge n. 428/1990. In particolare, l’attenzione è concentrata sulla disamina dei due menzionati disposti, come modificati dal c.d. Codice della crisi del 2019, nel tentativo di chiarirne il diverso “spessore” derogatorio.

Dismissals in company transfers between law and practice

The essay has as its object the systematic and applicative issues concerning the regulation of dismissals for economic reasons in the event of a company transfer, in light of both the prohibition posed by art. 2112, paragraph 4, cod. civil, and of the discipline contained in art. 47, paragraphs 4-bis and 5, of law no. 428/1990. In particular, attention is focused on the examination of the two aforementioned provisions, as modified by the so-called Code of the crisis, in an attempt to clarify the different derogatory “thickness”.

SOMMARIO:

1. Il trasferimento d’azienda quale motivo di licenziamento - 2. Il licenziamento quale condizione “pragmatica” per il trasferimento - 3. L’ultima riscrittura dei commi 4-bis e 5 dell’art. 47 della legge n. 428/1990 - 4. La nuova procedura del licenziamento collettivo nelle società in liquidazione - 5. Il regime sanzionatorio - NOTE


1. Il trasferimento d’azienda quale motivo di licenziamento

Ai sensi dell’art. 2112, comma 4, c.c., «il trasferimento d’azienda non costituisce in sé motivo di licenziamento» (individuale – per giustificato motivo oggettivo – o collettivo). Per unanime lettura dal disposto scaturisce un vero e proprio divieto di licenziamento in costanza di trasferimento che renderebbe antinomica la relazione, in via di principio, tra la fattispecie del trasferimento e qualsiasi tipo di licenziamento di carattere economico. Vero è che il menzionato comma 4 della disposizione codicistica esordisce con l’inciso «ferma restando la facoltà di esercitare il recesso alla stregua della normativa in materia di licenziamenti», con ciò chiaramente intendendo circoscrivere il divieto alle sole ipotesi in cui il recesso risulti unicamente motivato dal fatto in sé del trasferimento, vale a dire un fatto che nella maggior parte dei casi è difficilmente valutabile in assoluto e in totale astrazione rispetto alle condizioni economico-organizzative dell’impresa. Essendo fatta salva tutta la «normativa in materia di licenziamenti», deve dedursi che al datore sia consentito, nel contesto di un trasferimento d’azienda il recesso individuale per giustificato motivo oggettivo e il recesso collettivo, qualora ne sussistano i presupposti secondo la legislazione vincolistica tradizionale. Non a caso la giurisprudenza ritiene che il suddetto divieto non operi quando la ragione giustificatrice oggettiva è autonoma (ovvero scissa dal fatto trasferimento) e «il licenziamento non è in rapporto causale diretto con il trasferimento ma piuttosto con il nuovo assetto organizzativo che può comportare la soppressione del posto di lavoro e dunque con una ragione diversa dalla vicenda traslativa, a nulla rilevando la simultaneità degli eventi» [1]. L’ineccepibile conclusione, che limita fortemente la portata di quel divieto (privandolo appunto di ogni contenuto concreto) è suffragata dall’art. 4 della direttiva 2001/23/CE ove è stabilito che «il trasferimento … non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Ma tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o di organizzazione che comportano variazioni sul piano del­l’oc­cupazione». Ciò [continua ..]


2. Il licenziamento quale condizione “pragmatica” per il trasferimento

L’individuazione delle “connessioni” tra trasferimento d’azienda (nella mol­teplicità delle sue forme, essendo la fattispecie amplissima [4]) e licenziamento (individuale o collettivo) per motivi economici resta come visto affidata alla libera discrezionalità dei giudici. Il risultato è quello di un frastagliamento della linea di confine, che la legge disegna in modo assai più netto, tra regime dei licenziamenti effettuati da un’impresa in bonis e licenziamenti effettuati da imprese in stato di crisi o di insolvenza. È quest’ultima l’ipotesi nella quale il licenziamento diviene condizione “pragmatica” del trasferimento, operando a salvaguardia della continuità del­l’azienda e di parte dei suoi livelli occupazionali. Lo spessore della differenza tra i due regimi è dato dalla facoltà di deroga al principio di continuità del rapporto di lavoro introdotta, storicamente, dal comma 5 della legge n. 428/1990 [5] e dal ruolo affidato – nella gestione del trasferimento d’azienda – alle organizzazioni sindacali [6]. Come noto, l’ambito della menzionata deroga (e conseguentemente anche il gap (divario) tra la disciplina del recesso di cui all’art. 2112 c.c. e quella di cui all’art. 47 cit.) è andato progressivamente assottigliandosi. Con un primo strappo il legislatore, intervenendo con il d.l. n. 135/2009 a seguito della sentenza della Corte di Giustizia europea dell’11 giugno 2009, C – 561/2007, ha sdoppiato il comma 5 in due commi (4-bis e 5) e distinto – come richiesto dalla Corte per eliminare il contrasto con la direttiva 2001/23/CE – tra procedure conservative (stato di crisi, amministrazione straordinaria in caso di continuazione o mancata cessazione dell’attività, apertura di concordato preventivo, omologazione dell’accordo di ristrutturazione dei debiti) e procedure liquidatorie (tutte le precedenti elencate al comma 5, con l’eccezione del riferimento all’impresa in crisi, che è stato soppresso). Preme ricordare che per la Corte europea le condizioni richieste dalla direttiva 2001/23 affinché possa operare la deroga alle garanzie dalla stessa stabilite sono: a) l’apertura di una procedura di insolvenza; b) l’esistenza di un controllo, sulla procedura stessa, da parte di [continua ..]


3. L’ultima riscrittura dei commi 4-bis e 5 dell’art. 47 della legge n. 428/1990

Dieci anni dopo, con un secondo e più decisivo strappo, il legislatore è tornato a modificare i due tormentati commi dell’art. 47, questa volta con un effetto di apparente avvicinamento tra i due disposti, per di più polarizzato sulla soluzione opposta a quella che risultava dalla lettera della normativa previgente. Se infatti nella formulazione del 2009 entrambi i commi parevano consentire (e per quanto sopra osservato, di fatto consentivano) la deroga al principio di continuità del rapporto di lavoro, ora essi perdono la loro specularità letterale («l’art. 2112 cod. civ. trova applicazione…»; «l’art. 2112 cod. civ. non trova applicazione») e impongono il trasferimento al cessionario di tutti i rapporti di lavoro, escludendo, o così parrebbe, la possibilità di innestare sul trasferimento d’azienda un licenziamento collettivo. Dopo la riscrittura operata dal d.lgs. n. 14/2019 (c.d. Codice della crisi e dell’insolvenza, art. 368), il comma 4-bis, ridefinita l’area delle procedure non liquidatorie [9], stabilisce ora che se l’impresa si trova in una delle situazioni ad essa riconducibili «l’art. 2112 cod. civ., fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro, trova applicazione per quanto attiene alle condizioni di lavoro, nei termini e con le limitazioni previste dall’accordo sindacale» [10]. Con un apporto di certezza e accentuando la divaricazione tra i due regimi derogatori la norma chiarisce che l’accordo sindacale in tali ipotesi non può incidere sul principio di continuità, ma solo rimodulare le condizioni di lavoro dei rapporti ceduti (modificando l’anzianità, il trattamento retributivo, l’o­ra­rio) [11]. Formalmente anche il comma 5, rideterminato l’ambito della propria applicazione (sostanzialmente identico al precedente [12], con l’eccezione della amministrazione straordinaria che viene espunta e dotata di una disciplina specifica contenuta nel comma 5-ter, inserito nel testo dalla novella), stabilisce che, «qualora il trasferimento riguardi imprese delle quali vi sia stata apertura della liquidazione giudiziale o di concordato preventivo liquidatorio ovvero emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata [continua ..]


4. La nuova procedura del licenziamento collettivo nelle società in liquidazione

Nel caso di accordo in deroga al principio di continuità, sulla vicenda traslativa dell’azienda può innestarsi un licenziamento collettivo. Ci si può anzitutto chiedere se la consultazione sindacale, già avvenuta ai sensi dei primi commi dell’art. 47 della legge n. 428/1990, assorba quella prevista per il licenziamento collettivo o se invece questa debba obbligatoriamente riproporsi. Trattandosi di consultazione che accede ad un contesto liquidatorio, non troverà applicazione l’art. 4 della legge n. 223, ma la norma speciale contenuta nell’art. 189 comma 6 del Codice della crisi, che sostanzialmente ricalca con qualche peculiarità la procedura ordinaria. Non è dato peraltro comprendere se tale norma possa trovare applicazione analogica, al di fuori della liquidazione giudiziale, nelle ulteriori ipotesi elencate dal comma 5 dell’art. 47 come modificato. Il primo tratto di differenziazione riguarda la comunicazione del curatore ai sindacati (cui si aggiunge l’Ispettorato del lavoro) la quale «deve contenere sintetica indicazione…» dei motivi che retrostanno alla decisione di recedere, dei profili professionali coinvolti, dei reparti considerati, ecc. La giurisprudenza è sempre stata molto rigorosa nel richiedere che quella comunicazione sia puntuale e dettagliata, nel rispetto di tutti i parametri che trovano indicazione nel richiamato art. 4. L’informazione deve infatti essere completa per consentire alle parti sociali di prendere posizione nel contesto della successiva consultazione sindacale. Qui però c’è l’aggettivo “sintetica”. Se veramente si vorrà dare un significato nuovo a questa procedura, dichiarata derogatoria rispetto all’ordinaria, la giurisprudenza dovrà dimostrare che questo “sintetica” deve essere letto diversamente da quanto finora è stato fatto, perché l’aggettivo sintetico contraddice il «puntuale, specifico e dettagliato» che finora è stato adottato nelle aule giudiziali per invalidare i recessi intimati ai sensi della legge n. 223/1991. La procedura ad hoc prevede poi una maggiore celerità nella consultazione che «si intende esaurita decorsi dieci giorni dal suo inizio», salvo proroga autorizzata per un tempo massimo di altri 10 giorni (quindi un massimo di 20 giorni quando la procedura [continua ..]


5. Il regime sanzionatorio

Sul regime sanzionatorio dell’illegittimità del licenziamento intimato a causa di trasferimento si confrontano diversi orientamenti giurisprudenziali. È anzitutto pacifico (ma neutro rispetto alla questione dell’applicabilità della tutela reintegratoria classica di cui ai primi tre commi dell’art. 18 Stat. lav.) che «l’effetto estintivo del licenziamento illegittimo intimato in epoca anteriore al trasferimento d’azienda, in quanto meramente precario e destinato ad essere travolto dagli effetti retroattivi dalla sentenza di annullamento o dichiarativa della nullità del recesso, fa sì che il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisca, ai sensi dell’art. 2112 c.c., in capo al cessionario» [17]. Sulle ulteriori conseguenze determinabili ai sensi dell’art. 18 Stat. lav., parte della giurisprudenza esclude che l’invalidità del provvedimento espulsivo disposto in costanza di trasferimento si traduca in una nullità. Così che «il licenziamento non può essere tutelato dal regime di cui al comma 1 dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori che prevede la reintegra in caso di licenziamento discriminatorio o determinato da motivo illecito ovvero “negli altri casi di nullità previsti dalla legge”. Ciò, proprio perché l’art. 2112 c.c. prevede una ipotesi di annullabilità per difetto di giustificato motivo. La fattispecie in esame deve invece ricondursi all’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui al secondo periodo dell’art. 18, comma 7, della legge n. 300/1970. Ciò in quanto è stato accertato che al momento del recesso le ragioni a fondamento del licenziamento non sussistevano, essendo state semplicemente correlate ad un futuro accorpamento di mansioni che sarebbe, peraltro, conseguito da una futura fusione societaria. Fusione questa che, a sua volta, non costituisce ai sensi e per gli effetti dell’art. 2112, comma 4, c.c. un giustificato motivo di licenziamento» [18]. Secondo altra lettura, invece, «la soppressione del riferimento al tempo utile della disdetta (presente nella vecchia formulazione dell’art. 2112 c.c.) a­vrebbe reso incontestabile una importante conseguenza: il licenziamento intimato a ragione del [continua ..]


NOTE