Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Le nuove regole in materia di licenziamento del dipendente pubblico: fattispecie e tutele (di Mario Cerbone, Ricercatore di Diritto del lavoro dell’Università degli Studi del Sannio, Benevento)


Il saggio analizza la disciplina del licenziamento nell’area del lavoro pubblico «privatizzato», adottando la prospettiva della tendenziale unificazione normativa tra “pubblico” e “privato”, alla stregua del principio generale dettato dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001. Vengono, in particolare, esaminate le nuove fattispecie di licenziamento disci­plinare, introdotte dal d.lgs. n. 75/2017, in continuità con il precedente intervento nor­mativo del d.lgs. n. 150/2009, nella logica dell’inasprimento dei rimedi sanzionatori avverso le condotte illecite dei dipendenti pubblici, da un lato, e della inevitabile complicazione interpretativa, dall’altro lato, risolvibile soltanto con il necessario intervento valutativo del giudice. Nella stessa prospettiva, viene indagata la ratio del nuovo regime di tutela nelle ipotesi di accertamento dell’illegittimità del licenziamento, introdotto dal­l’art. 21 d.lgs. n. 75/2017, che muove nella direzione di affermare un’area di disciplina sicuramente “speciale” per il lavoro pubblico.

The new rules on individual dismissals of public employees: cases and protections

This essay focuses on the regulation of individual dismissal of public employees. It concerns, in particular, the types of disciplinary dismissal, introduced by Legislative Decree no. 75/2017. This act aims at increasing the damage award in cases of employees’ illegal conduct and requires a judicial evaluation. The essay also analyzes the protections in cases of unjustified dismissal and the A. shows the special rules for public employees.

SOMMARIO:

1. L’angolo visuale del lavoro pubblico «privatizzato» - 2. Tipizzazione legislativa delle ipotesi di licenziamento disciplinare e finalizzazione del potere disciplinare al perseguimento di interessi pubblici - 3. Discrezionalità valutativa del giudice e accertamento del fondamento causale del recesso della pubblica amministrazione: la fallacia delle operazioni di “tipizzazione” in ambito disciplinare - 4. L’incremento delle fattispecie di licenziamento disciplinare nella logica quantitativa: il licenziamento per “falsa attestazione della presenza in servizio” - 5. Segue: L’assenza ingiustificata - 6. Segue: Il rifiuto ingiustificato del trasferimento - 7. Segue: Le falsità documentali o dichiarative - 8. Segue: Condotte “ostili” nell’ambiente di lavoro e licenziamento - 9. Segue: Licenziamento per violazione del codice di comportamento - 10. Segue: Licenziamento per mancanze connesse all’esercizio del potere disciplinare - 11. Segue: Licenziamento per insufficiente rendimento - 12. Latitudini della cognizione del giudice ordinario sul licenziamento: il “momento giudiziale” quale esplicitazione della logica privatistica e quale limite di derivazione costituzionale alla discrezionalità legislativa - 13. Segue: Interesse pubblico, regime giuridico privatistico e ruolo del giudice nelle ipotesi di licenziamento disciplinare - 14. Il potere di rideterminazione della sanzione disciplinare quale ulteriore segno di rafforzamento della centralità del giudice - 15. Specialità del regime sanzionatorio nelle ipotesi di licenziamento il­legittimo - NOTE


1. L’angolo visuale del lavoro pubblico «privatizzato»

Lo studio della disciplina del licenziamento nell’area del lavoro pubblico, segnatamente del lavoro pubblico «privatizzato», richiede all’interprete un particolare sforzo ermeneutico, volto a testare la tenuta della regola generale della tendenziale unificazione normativa tra lavoro privato e lavoro pubblico (art. 2, comma 2, e art. 51 d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165), colta nel momento forse più delicato del rapporto di lavoro subordinato ovvero il recesso datoriale. Sin dall’avvio del processo riformatore della c.d. privatizzazione dell’im­piego pubblico, infatti, l’area del regime giuridico del licenziamento dei dipendenti pubblici (ivi inclusi i dirigenti, per i quali andranno fatte considerazioni a parte, su cui v. infra) è apparsa agli studiosi sì quale aspetto imprescindibile della riforma in senso privatistico della disciplina dei rapporti di lavoro alle dipendenze di amministrazioni pubbliche, ma allo stesso tempo quale punto “aperto” per l’armonizzazione tra “pubblico” e “privato” e, in quanto tale, foriero di pericolose ambiguità interpretative [1]. Ambiguità che – dopo una fase normativa molto incerta, scaturita (lo si ricorderà) prima dalla previsione generale ad excludendum della legge n. 92/2012 poi dal “silenzio” del d.lgs. n. 23/2015 quanto al pubblico impiego [2] – il nuovo art. 63, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, come modificato e integrato dal recente d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 (c.d. riforma Madia), sembrava tuttavia avere (finalmente) superato, sottraendo espressamente al criterio generale dell’unificazione normativa l’area del recesso. In realtà, a ben vedere, la chiarificazione legislativa – per quanto si dirà meglio di qui a poco – attiene al solo regime sanzionatorio, oggi sicuramente “speciale” rispetto al modello privatistico. Al di là del regime di tutela, però, il legislatore si è mosso sul piano della definizione di nuove fattispecie di licenziamento, nella direzione di un deciso rafforzamento soprattutto dell’area disciplinare del recesso, per contrastare i noti fenomeni di inefficienza delle performance dei dipendenti pubblici, accentuando anche in questo caso i tratti di specialità rispetto al settore privato. Tuttavia, pur nel nuovo assetto [continua ..]


2. Tipizzazione legislativa delle ipotesi di licenziamento disciplinare e finalizzazione del potere disciplinare al perseguimento di interessi pubblici

L’area tematica che meglio esprime le difficoltà interpretative appena accennate è, senza dubbio, quella della responsabilità disciplinare dei lavoratori pubblici, sulla quale, in particolare, si sono orientati gli interventi normativi della c.d. riforma Madia. Qui si può dire che il legislatore del 2017 è intervenuto con modifiche sia di tipo quantitativo, che si sono tradotte nell’incremento, come vedremo, delle ipotesi e delle fattispecie di licenziamento disciplinare, sia di ordine qualitativo, intendendo per tali quelle modifiche che muovono nella direzione di rafforzare un’accezione del potere disciplinare nel suo complesso, quale potere che, a differenza di quanto accade nel settore privato, è geneticamente connotato da una strutturale doverosità e, in quanto tale, finalizzato alla tutela del­l’interesse pubblico [3]. Quest’ultimo rappresenta, senza dubbio, un profilo teorico giuridico molto rilevante per l’interprete, che è in perfetta continuità con le previsioni della legge delega n. 15/2009 e del d.lgs. n. 150/2009, ma che merita di essere ancora vagliato con attenzione. Nel solco tracciato dai richiamati provvedimenti del 2009, la legge n. 124/2015 è intervenuta con il dichiarato obiettivo di radicare la connessione logico-giuridica tra esercizio del potere disciplinare e livello di efficienza degli uffici pubblici: in questa logica, si è resa necessaria una profonda rimodulazione del rapporto tra legge e contratto collettivo, ponendo la fonte contrattuale collettiva rigorosamente (oltre che gerarchicamente) sotto il presidio del legislatore [4]. Funzionale a questo disegno è la sottrazione all’autonomia del dirigente della discrezionalità valutativa necessaria in ordine a fatti la cui portata disciplinare appaia oggettiva e/o rispetto ai quali l’inerzia dirigenziale sia da ritenere manifestamente irragionevole (art. 55-sexies, comma 3 [5]). Orbene, al di là delle intrinseche difficoltà interpretative di queste specifiche previsioni (su cui si tornerà infra), è importante precisare che il complessivo sistema disciplinare, pur con le richiamate peculiarità, si mantenga tuttora nell’alveo privatistico. Ciò è dovuto principalmente al fatto che il potere disciplinare nelle pubbliche amministrazioni se è vero che assume [continua ..]


3. Discrezionalità valutativa del giudice e accertamento del fondamento causale del recesso della pubblica amministrazione: la fallacia delle operazioni di “tipizzazione” in ambito disciplinare

Il ruolo del giudice è centrale nella valutazione più o meno discrezionale della legittimità dell’esercizio del potere disciplinare nonché del fondamento causale del licenziamento, che di quell’esercizio è l’esito più rilevante. Nel nostro ordinamento, la necessità di ancorare, in linea di principio, il recesso datoriale a requisiti causali richiede, per sua natura, una funzione specificativa/interpretativa del giudice. Tale funzione, del resto, si estende anche nella distinta fase del regime sanzionatorio, come precisato dalla recente pronuncia della Corte Costituzionale n. 194/2018, rispondendo ad un’immanente esigenza di personalizzazione (o individualizzazione) del danno subìto dal lavoratore, imposta dal principio di eguaglianza [10]. Ragion per cui, anche il regime sanzionatorio di tutela nelle ipotesi di licenziamento illegittimo, per come viene scelto dal legislatore, non può che muoversi entro schemi che contemplino, in ogni caso, la ineludibilità del ruolo specificativo del giudice [11]. In questo scenario, il legislatore del 2017 (ma, si ripete, proseguendo sulla scia di quello del 2009) compie un’operazione molto interessante: muove nella direzione di orientare la decisione datoriale di “concretizzazione” della clausola elastica della “giusta causa” e/o del “giustificato motivo” [12], sottraendo ab initio al datore di lavoro alcuni ambiti dettagliatamente riportati al comma 1 dell’art. 55-quater, che ricadrebbero “comunque” nell’area del licenziamento. Ciò indurrebbe a ritenere che, al di fuori di questi casi (contemplati dal comma 1), non può che ri-espandersi, invece, la disciplina generale per giusta causa o per giustificato motivo. A ben vedere, tale assetto normativo – le cui finalità sono evidenti – non riesce tuttavia ad alterare i termini dell’intervento interpretativo che il giudice sarà chiamato a compiere: l’esercizio del potere datoriale di recesso – nel lavoro privato come in quello pubblico – verrà a tradursi, sempre e comunque, in determinazioni che concretizzano, di volta in volta, la clausola generale della “giusta causa” o del “giustificato motivo” e rispetto alle quali il sindacato del giudice è strutturalmente funzionale [continua ..]


4. L’incremento delle fattispecie di licenziamento disciplinare nella logica quantitativa: il licenziamento per “falsa attestazione della presenza in servizio”

La fondatezza dei rilievi appena enunciati è dimostrata se solo si guarda alla configurazione della fattispecie del licenziamento per “falsa attestazione della presenza in servizio”, conseguita “mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente” (art. 55-quater, comma 1, lett. a, d.lgs. n. 165/2001, nella versione successiva all’intervento del d.lgs. 20 giugno 2016, n. 116), cui il legislatore affianca l’ipotesi speculare di giustificazione dell’assenza dal servizio “mediante certificazione medica falsa” (si intende una certificazione sanitaria non redatta dal medico) o che “attesta falsamente uno stato di malattia”. Due appaiono gli elementi da prendere in considerazione. Il primo attiene al discutibile allargamento dell’ambito soggettivo della disposizione, rivolta non soltanto al lavoratore “autore” della condotta ma altresì a “terzi soggetti”, che coadiuvino il lavoratore avvantaggiato nella determinazione della condotta censurata. Il secondo aspetto deriva dalla estensione dell’ambito oggettivo della disposizione medesima, là dove essa fa riferimento a “qualunque modalità fraudolenta” (comma 1-bis) posta in essere per raggirare l’amministrazione, sicché la formulazione utilizzata sembrerebbe indurre – come sottolineato in dottrina – a ritenere la norma applicabile a tutti i casi di assenteismo o di mancato rispetto dell’orario di lavoro, a prescindere dalla concreta modalità di realizzazione della condotta [19]. Orbene, è evidente che i due elementi rappresentati, per come sono proposti, difficilmente possono stare in equilibrio tra loro e generano pertanto qualche perplessità sul piano interpretativo. Al centro della fattispecie in oggetto non c’è dubbio che ci sia l’intento fraudolento quale caratteristica che deve connotare la condotta del lavoratore: la disposizione si fonda cioè sull’elemento soggettivo dell’intenzionalità della condotta dell’agente e implica, per converso, un’indagine sul processo volitivo di questi e sulla sua correlazione causale con l’esito finale. Ma affiancare a questo elemento strutturale della fattispecie l’altro elemento prima accennato, quello dell’allargamento [continua ..]


5. Segue: L’assenza ingiustificata

Con riferimento alla fattispecie disegnata alla lett. b) dell’art. 55-quater – che prevede il licenziamento disciplinare tutte le volte in cui risulti l’“assenza priva di valida giustificazione per un numero di giorni, anche non continuativi, superiore a tre nell’arco di un biennio o comunque per più di sette giorni nel corso degli ultimi dieci anni ovvero mancata ripresa del servizio, in caso di assenza ingiustificata, entro il termine fissato dall’amministrazione” – le maggiori difficoltà interpretative derivano dalla configurazione estremamente rigida della nuova fattispecie, in particolare in ragione del riferimento letterale ad una assenza del dipendente “priva di valida giustificazione”. Tale specifico riferimento letterale sembrerebbe infatti far ricadere nella nuova ipotesi sanzionatoria non soltanto i casi di assenza priva di alcuna giustificazione, ma altresì quelle ipotesi nelle quali il lavoratore abbia comunque prodotto una giustificazione ma questa sia stata ritenuta inidonea dal datore di lavoro a giustificare l’assenza dal servizio. Orbene, in questa seconda opzione è evidente che si apra una non facile questione interpretativa in ordine alla discrezionalità con la quale il datore di lavoro potrebbe declinare in concreto la rigida fattispecie legislativa. Dall’elaborazione giurisprudenziale si ricava la necessità di un uso prudente di siffatta disposizione da parte della pubblica amministrazione, evitando, anche in questo caso, automatismi sanzionatori e agganciando sempre e comunque l’applicazione della sanzione ad una attenta e rigorosa valutazione delle ragioni addotte, caso per caso, dal dipendente a supporto della assenza dal servizio. Con riguardo all’assenza non giustificata, la giurisprudenza di legittimità enuclea due limiti: anzitutto, ritiene che la tipizzazione ex ante effettuata dal legislatore gravi comunque il lavoratore dell’onere di dedurre e fornire elementi che consentano di valutare la ricorrenza di circostanze tali da impedire lo svolgimento dell’attività lavorativa. Ci si riferisce sia all’adempi­mento della prestazione principale sia a tutto il corredo degli obblighi strumentali di correttezza e diligenza, e tali, quindi, da giustificare la condotta del lavoratore seppur coincidente con la tipizzazione (oggettiva) effettuata dal [continua ..]


6. Segue: Il rifiuto ingiustificato del trasferimento

La fattispecie del licenziamento del dipendente in caso di rifiuto ingiustificato del trasferimento, disposto dall’amministrazione per ragioni di servizio (art. 55-quater, comma 1, lett. c) pone problemi interpretativi in una duplice prospettiva. Anzitutto, in ordine alla linea di demarcazione da tracciare per distinguere il “ritardo” dal “rifiuto definitivo”. Al riguardo, le previsioni della contrattazione collettiva possono rivestire un’importante funzione andando a stabilire le ipotesi di ricorso alle sanzioni conservative per il ritardo fino ad un certo periodo, sì da far scattare il rifiuto al superamento di tale termine [28]. In secondo luogo, essa interseca la questione più classica del rifiuto dell’a­dempimento da parte del lavoratore, correlato ai requisiti dell’art. 1460 c.c. Qui ci si muove su un terreno giurisprudenziale alquanto scivoloso, che prende le mosse dal principio generale ricavabile dalla elaborazione della Cassazione che esclude la possibilità di un rifiuto aprioristico del prestatore di lavoro rispetto all’esercizio dei poteri datoriali. Su questo specifico punto, però, nel nostro caso, non va sottovalutata la doppia valutazione che l’amministra­zione dovrà condurre nell’operazione di “utilizzo” di questa specifica casella legislativa di licenziamento: in prima battuta, la pubblica amministrazione dovrà prestare particolare attenzione all’esplicitazione formale e sostanziale delle ragioni di carattere organizzativo alla base del disposto trasferimento, nonché alla piena corrispondenza fra il provvedimento datoriale adottato e le finalità tipiche dell’amministrazione. È evidente infatti che dalla configurazione del trasferimento dipenderà lo spazio a disposizione del prestatore di lavoro per contestare la legittimità del recesso datoriale, ferma restando l’insindacabilità del merito della scelta datoriale ad opera del giudice [29]. Le difficoltà probatorie appaiono “raddoppiate” perché l’onere è pienamente a carico del datore di lavoro sia per il trasferimento del lavoratore sia per il licenziamento. Così come particolarmente pesanti sono le conseguenze a carico del datore di lavoro pubblico in caso di condanna per illegittimità del trasferimento e nel caso di [continua ..]


7. Segue: Le falsità documentali o dichiarative

La previsione normativa di cui alla lett. d) contempla le falsità commesse dal lavoratore in due distinti momenti: nel momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro, ove il soggetto riveste ancora la posizione di candidato e nella progressione di carriera, ove la persona ha già assunto il ruolo di prestatore di lavoro subordinato. La disposizione in oggetto inoltre equipara la falsità commessa ai fini della costituzione del rapporto di lavoro con quella “in occasione” della costituzione del rapporto, mostrando di accreditare un’accezione ampia del concetto di falsità, tesa a colpire la condotta illegittima a prescindere dal conseguimento dell’utilità cui la falsità stessa è preordinata. La giurisprudenza mette in luce alcuni aspetti peculiari della fattispecie anche per distanziarla concettualmente da altre coesistenti disposizioni nor­mative in tema di falsità documentali. L’art. 127, lett. d), d.P.R. n. 3/1957, infatti, prevede che vi sia decadenza dall’impiego “quando sia accertato che l’im­piego fu conseguito mediante la produzione di documenti falsi o viziati da invalidità non sanabile”. L’art. 75 d.P.R. n. 445/2000, rispetto alle dichiarazioni sostitutive, prevede invece che la “non veridicità del contenuto” comporti la decadenza del dichiarante “dai benefici eventualmente conseguenti al provvedimento emanato sulla base della dichiarazione non veritiera”. Orbene, si tratta di situazioni in apparenza identiche che sembrerebbero prevedere differenti discipline. Ma in realtà non è così. Nelle ipotesi contemplate dagli artt. 127 lett. d) e 75 d.P.R. n. 445/2000, la legge stabilisce un effetto ‘caducatorio’ che si consuma senza alcun margine di apprezzamento discrezionale ad opera della pubblica amministrazione, per il solo fatto oggettivo della falsità. Ben diverso è invece il caso della disposizione in commento che delinea una sanzione disciplinare da applicare alle ipotesi di “falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione del­l’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera” (art. 55-quater, lett. d). È evidente che in queste ulteriori ipotesi non si possa (e non si debba) parlare di effetto caducatorio ma di irrogazione di [continua ..]


8. Segue: Condotte “ostili” nell’ambiente di lavoro e licenziamento

La lett. e) punisce con il licenziamento senza preavviso la “reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui”. Si tratta di previsione normativa anch’essa già introdotta nel 2009 che richiede il requisito della “gravità” e della “reiterazione” delle condotte censurate e che propone non poche difficoltà di interpretazione. Anzitutto, quanto al requisito della “reiterazione”, il legislatore non offre elementi per precisare la durata delle condotte in oggetto; occorre pertanto sta­bilire il lasso temporale all’interno del quale devono necessariamente collocarsi le condotte, escludendo di allargare eccessivamente la considerazione temporale onde incorrere nella lesione di elementari principi di garanzia del­l’incolpato. Quanto alle caratteristiche della condotta assunta, il dato normativo è chiaro nello stabilire l’irrilevanza del tipo, purché si tratti di condotte teleologicamente orientate all’offesa altrui. La previsione è particolarmente difficile da maneggiare anche perché ipotizza comportamenti che possono ledere tanto altri prestatori di lavoro che o­perano nell’ambiente di lavoro quanto soggetti estranei ad esso, quali gli utenti. L’insidia interpretativa che si cela dietro siffatte previsioni concerne la non chiara valutazione legislativa in ordine alla componente soggettiva o oggettiva delle condotte assunte. Più precisamente, per come è costruita la disposizione sembra orientarsi a sanzionare con il licenziamento il mero susseguirsi, in un arco temporale tra l’altro non definito, di condotte lato sensu “ostili”, senza una precisa graduazione della potenzialità lesiva delle condotte medesime (de­ve trattarsi di condotte “gravi” o “comunque lesive” dell’onore e della dignità personale altrui) né tantomeno dell’elemento soggettivo dell’agente. Anche in questo caso, l’ambizione del legislatore di definire puntualmente la casistica rischia di impattare con la ineludibile necessità di valutare comunque, a questo punto in sede processuale, la proporzionalità della sanzione e­spulsiva adottata alla luce proprio della condotta del [continua ..]


9. Segue: Licenziamento per violazione del codice di comportamento

La lett. f-bis) pone le “gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento” quale causa di licenziamento disciplinare. La disposizione in parola pone anch’essa notevoli problemi esegetici dal momento che rimanda ad una più ampia e generale riflessione in ordine alla valenza giuridica e alla vincolatività dei codici di comportamento. Il codice di comportamento si colloca in un punto di snodo del sistema normativo della responsabilità disciplinare dei dipendenti pubblici, un punto molto delicato ancora una volta nell’ottica del recupero, in via interpretativa, del significato ultimo della unificazione normativa tra “pubblico” e “privato”. A meno che non si voglia offrire una lettura delle disposizioni del codice meramente ripetitiva delle previsioni della contrattazione collettiva, è evidente che questo strumento potrebbe consentire di fare entrare tra le situazioni di doverosità assistite da sanzione disciplinare quelle relative a questioni di interesse pubblico e non riconducibili ad una dimensione essenzialmente sinallagmatica. Il codice cioè starebbe a presidio di un’area di “specialità” del rapporto di lavoro pubblico irriducibile nelle dinamiche negoziali e di scambio. E che il rapporto di pubblico impiego non possa ricondursi ed esaurirsi in una relazione di mera sinallagmaticità propria delle obbligazioni a prestazioni corrispettive di natura patrimoniale “discende dal principio costituzionale […] in base al quale i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” [37]. Tale lettura del rapporto di “pubblico impiego”, tuttavia, per quanto condivisibile, non può dirsi però presente nella giurisprudenza del giudice ordinario, quale giudice del rapporto di lavoro: un giudice troppo spesso incapace di leggere adeguatamente le esigenze di interesse pubblico che stanno dietro le (ed a supporto di) sanzioni disciplinari per violazioni di doveri, con l’effetto, in particolare, di indebolire in ambito pubblico l’istituto del licenziamento per giusta causa, proprio per condotte pregiudizievoli della funzione e del “servizio alla Nazione” enfaticamente affermato dall’art. 54 Cost. [38]. Ciò detto, venendo alle questioni più di carattere esegetico, due sono i problemi che si pongono. Il primo è legato alla [continua ..]


10. Segue: Licenziamento per mancanze connesse all’esercizio del potere disciplinare

Nella logica ispiratrice del d.lgs. n. 75/2017 e in coerenza con la richiamata previsione di cui all’art. 55-sexies, comma 3, viene sanzionato con il licenziamento il soggetto responsabile dell’esercizio del potere disciplinare allorquando ponga in essere una condotta commissiva dolosa o caratterizzata da colpa grave, che determini volontariamente o con grave negligenza il mancato, ingiustificato esercizio del potere o la decadenza dall’azione disciplinare, ovvero adotti valutazioni manifestamente irragionevoli di insussistenza dell’illecito in relazione a condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare (art. 55-quater, comma 1, lett. f-ter). Siamo innanzi ad uno snodo cruciale e qualificante dell’intero processo riformatore in ambito disciplinare, avviato nel 2009 e ribadito nel 2017 [40], nella direzione di inasprire la reazione nei confronti dei soggetti titolari del potere disciplinare – si badi, a prescindere dalla formale qualifica dirigenziale che essi rivestano [41] – nelle ipotesi in cui essi esercitino le proprie prerogative datoriali con colpevole negligenza [42]. Si è già detto della logica “autoritaria” che connota tali previsioni e del condizionamento che esse generano sul “risultato” atteso dall’azione del dirigente pubblico. Ora, il problema di interventi normativi di questo tipo, funzionali alla logica generale immessa dal legislatore nel circuito del potere della pubblica amministrazione, attiene come sempre alla difficoltà di provare l’elemento soggettivo delle condotte prese a riferimento, ovverosia dell’intenzionalità della condotta punita e più in generale il grado di colpevolezza nel comportamento del lavoratore, titolare di una prerogativa in materia disciplinare così importante: al riguardo, non potrà che essere l’accertamento giudiziale a offrire parametri interpretativi affidabili. Conviene però non trascurare l’effetto che si produce piuttosto sul piano sistematico con la previsione in esame: la disposizione determina infatti indubitabili conseguenze sulle modalità (il quomodo) con le quali la dirigenza andrà ad esercitare le proprie prerogative datoriali, modalità che vengono pesantemente predefinite dal legislatore e, per questa via, sottratte all’autonomia del dirigente [43]. Al dirigente [continua ..]


11. Segue: Licenziamento per insufficiente rendimento

La lett. f-quinquies) interviene a riscrivere l’ipotesi del licenziamento disciplinare per “insufficiente rendimento”, già introdotta dal legislatore del 2009 [46]. Si tratta di un ambito tematico di particolare complessità, atteso che anche il riferimento alla fattispecie dello “scarso rendimento” nelle imprese private – per quanto questa, in linea di principio, non sia da assimilare tout court alla fattispecie in esame e per quanto risulti comunque priva di espressa regolamentazione [47] (ma sul punto si rinvia allo specifico contributo, in questa Rivista) – non sembra offrire una più certa collocazione. Sicché, in questo caso, bisogna chiedersi se forse possa essere il “pubblico” ad offrire soluzioni interpretative stabili al “privato”. Al riguardo, quel che preme immediatamente precisare è la qualificazione giuridica che il legislatore imprime, per i dipendenti pubblici, al licenziamento per insufficiente rendimento, nominandolo quale licenziamento “disciplinare”. La regolamentazione legale per i dipendenti pubblici sembra cioè sciogliere a monte uno dei nodi della fattispecie, superando la questione della natura anfibia dello scarso rendimento [48] e riconducendolo espressamente nell’alveo del giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Sulla struttura della disposizione in commento, vanno fatte però alcune osservazioni critiche. Anzitutto, il collegamento della disposizione in parola con gli esiti offerti dal sistema di valutazione delle performance, al quale spetta valutare il livello di rendimento del prestatore di lavoro, non appare ben vigilato [49]. La disposizione normativa fa infatti riferimento alla “reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa”, concetto che rimanda ad aspetti soggettivi del comportamento del dipendente [50] non compatibili con gli esiti oggettivi del processo di valutazione della performance individuale dello stesso lavoratore [51]. Ciò porterebbe a ritenere che il giudizio di insufficiente rendimento da solo non avrebbe mai l’idoneità in termini causali per giustificare il recesso, se non accompagnato dall’elemento soggettivo. Quand’anche le parti dovessero allora decidere di pattuire clausole di “rendimento [continua ..]


12. Latitudini della cognizione del giudice ordinario sul licenziamento: il “momento giudiziale” quale esplicitazione della logica privatistica e quale limite di derivazione costituzionale alla discrezionalità legislativa

L’altro ambito su cui occorre riflettere adeguatamente – per passare così ad un altro piano della nostra indagine – attiene agli effetti concreti della sottoposizione alla cognizione del giudice ordinario delle controversie in materia di licenziamenti (come di ogni altro aspetto dello svolgimento del rapporto di lavoro), quale coerente proiezione in ambito processuale della dichiarata applicazione della logica pienamente privatistica (propria della “privatizzazione”), che comunque resta il modulo tuttora vigente [61]. L’art. 63, comma 2, d.lgs. n. 165/2001, la norma cioè sulla giurisdizione, offre alla nostra analisi significativi elementi di supporto. Anzitutto, al giudice ordinario la legge affida il potere di “adottare, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro”. Un’attenta valutazione della disposizione normativa appena menzionata non può che corroborare la lettura che riconosce uno spazio valutativo per il giudice ancor più ampio in ordine al potere di sindacare il fondamento causale del recesso datoriale e quindi trovare una conferma alla prospettata tesi della assoluta preminenza ed ineludibilità della valutazione discrezionale del giudice pur a fronte dei richiamati tentativi di giuridificazione legislativa. Per di più, essa serve a radicare quella unificazione normativa tra “pubblico” e “privato” nella logica privatistica. Le implicazioni di tale discorso possono essere colte se si guarda all’inte­ressante elaborazione giurisprudenziale sulle questioni di pregiudizialità tra atto amministrativo e determinazione negoziale di recesso, vale a dire in tutti quei casi in cui si tratta di valutare l’interrelazione tra procedure concorsuali e successive decisioni datoriali di “disposizione” del rapporto di lavoro (in primis, il licenziamento) [62]. Qui se si è rigorosamente ancorati alla logica privatistica e conseguenziali rispetto alla stessa premessa si possono ricavare esiti interpretativi di un certo interesse [continua ..]


13. Segue: Interesse pubblico, regime giuridico privatistico e ruolo del giudice nelle ipotesi di licenziamento disciplinare

Nella logica autenticamente privatistica, anche la valutazione del giudice in ordine alla fondatezza del licenziamento deve centrarsi sulle dinamiche del vincolo contrattuale e non certo sulle finalità esterne a questo (se non per la loro incidenza sul vincolo contrattuale per i futuri adempimenti). Pertanto, non si profila alcuno spazio per una possibile “funzionalizzazione” del contratto di lavoro ad interessi generali meta-individuali. Sotto l’aspetto del sinallagma contrattuale si deve ritenere che il contratto di lavoro dei dipendenti pubblici non conosca alterazione causale a seguito della pretesa infiltrazione di interessi pubblici, estranei e ulteriori rispetto a quello creditorio, strumentale, di ottenere la prestazione di lavoro per far funzionare l’organizzazione in vista di fini alieni alla sfera giuridica del debitore della prestazione stessa [65]. L’esclusione della rilevanza causale nel contratto di lavoro subordinato dei dipendenti pubblici dell’interesse o degli interessi pubblici di cui l’amministrazione datrice di lavoro sia affidataria si manifesta esattamente allo stesso modo di come avviene nel contratto di lavoro subordinato dei dipendenti privati, per l’interesse dell’imprenditore al raggiungimento del profitto, a cui pure l’utilizzazione della prestazione di lavoro è strumentale [66]. Ciò tuttavia non significa che quegli interessi pubblici “esterni” al contratto di lavoro non abbiano alcuna rilevanza giuridica. Per effetto della combinazione delle due norme, quella di diritto sostanziale (art. 2, comma 2) e quella sulla giurisdizione (art. 63), l’ordinamento affida all’apprezzamento del giudice ordinario ogni altra valutazione sulle finalità generali dei provvedimenti datoriali. Al giudice restano ampi spazi da occupare proprio per valutare i termini di una finalizzazione [67] del potere disciplinare rispetto ad interessi generali. Ma, si badi, che si tratta di un’attività interpretativa che avviene comunque al di fuori di ogni presunta funzionalizzazione della causa del contratto di lavoro e che resta confinata all’interno del processo argomentativo seguito dal magistrato per giungere ad emettere la sua pronuncia: pertanto, nella fase di acquisizione delle prove e di valutazione del comportamento delle parti, il giudice andrà a valutare in concreto l’incidenza dei [continua ..]


14. Il potere di rideterminazione della sanzione disciplinare quale ulteriore segno di rafforzamento della centralità del giudice

Nella prospettiva assunta finora, la previsione normativa di cui all’art. 21 d.lgs. n. 75/2017 – che ha aggiunto il comma 2-bis al richiamato art. 63 d.lgs. n. 165/2001, affidando al giudice il potere di rideterminare la sanzione in caso di difetto di proporzionalità – è senza alcun dubbio preziosa, perché essa e­spli­cita una delle possibili “direzioni” dell’attività giudiziale volta all’accer­ta­men­to della “finalizzazione” del potere disciplinare. La disposizione dimostra inoltre come il sistema normativo nel suo complesso abbia avvertito, sia pure tardivamente, l’allarme scaturente dagli automatismi interpretativi in materia disciplinare proposti con troppa superficialità negli anni addietro dal legislatore. Nella norma in esame, più che una spinta dovuta a principi di economia, anche di tipo processuale [68], si può scorgere, a mio parere, un’esigenza più ampia, di ordine metodologico e di “correzione” dell’apparato sanzionatorio predisposto. Il legislatore si spinge ad accordare alle parti una tutela, quella del nuovo comma 2 dell’art. 63, sicuramente “speciale” per il solo lavoro pubblico contrattualizzato [69] e che non trova riscontro nella consolidata elaborazione giurisprudenziale in materia di procedimenti disciplinari per i lavoratori dipendenti di imprese private [70]. Il dato normativo va a collocarsi ben al di sopra della più collaudata potestà del giudice di “convertire” il licenziamento per giusta causa in licenziamento per giustificato motivo soggettivo. Qui si parla in generale di sanzioni disciplinari [71]. Evidentemente, anche in questo caso, la finalità legislativa appare quella di predeterminare il percorso sanzionatorio al di là della possibile sproporzione della sanzione come assunta dal datore di lavoro pubblico ed è anch’essa e­spressione di quell’attività “maieutica” del giudice, cui si è accennato po­c’an­zi, volta a far emergere e/o ristabilire le finalità generali che orientano l’e­ser­cizio del potere datoriale della pubblica amministrazione. Sennonché, in punto di diritto, si pongono delicate questioni teoriche quanto all’affidamento al potere giurisdizionale di prerogative che [continua ..]


15. Specialità del regime sanzionatorio nelle ipotesi di licenziamento il­legittimo

Se sul piano dell’accertamento del fondamento causale del recesso, il giudice assume una posizione di assoluta centralità nel sistema normativo, muovendosi alla stessa maniera tanto rispetto al lavoro privato quanto a quello pubblico privatizzato, è sul piano del regime sanzionatorio che il legislatore ritiene invece di potere e dovere esercitare la sua discrezionalità, determinando questa volta sì un allontanamento dal regime ovvero dai regimi valevoli per le imprese private [77]. Nel solco della lettura offerta dalla Corte Costituzionale, il legislatore ritiene compatibile con il processo di privatizzazione e con il meccanismo di unificazione previsto dall’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 l’adozione del nuovo sistema sanzionatorio di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017, a motivo delle garanzie e dei limiti al potere di risolvere il rapporto di lavoro pubblico, posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi [78]. L’art. 21 del d.lgs. n. 75/2017, nel modificare l’art. 63, accorda al dipendente pubblico illegittimamente licenziato la “stabilità” per il tramite della “re­integrazione” nel posto di lavoro e il pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegra, e comunque in misura non superiore alle 24 mensilità. Viene qui in risalto il carattere del tutto peculiare, auto-concluso ed auto-sufficiente del sistema dei licenziamenti nell’impiego pubblico [79]. Con questa disposizione, il legislatore sceglie un regime giuridico-san­zio­natorio ad hoc per i lavoratori pubblici, che si differenzia dall’originario art. 18 della legge n. 300/1970 [80], che, a questo punto, può dirsi definitivamente superato, così come dall’art. 18 nella versione modificata e integrata dalle previsioni della legge n. 92/2012 [81]. Si tratta di una sanzione “unica”, che si applica per qualsiasi tipo di licenziamento illegittimo, per tutti i dipendenti, dirigenti e non [82], restando irrilevanti le dimensioni dell’amministrazione che procede al [continua ..]


NOTE