Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Giusta retribuzione e lavoro povero (di Carlo Zoli, Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Bologna)


Il saggio affronta le problematiche più attuali e più controverse in tema di retribuzione con particolare riguardo alla determinazione della “giusta” retribuzione, nell’ottica del contrasto al lavoro povero, subordinato e autonomo. A tal fine ricostruisce il ruolo ed il contributo delle fonti sovranazionali, della Costituzione, della legge ordinaria e della contrattazione collettiva, per poi soffermarsi sul fondamentale contributo della giurisprudenza. Tuttavia i nodi e le lacune emersi hanno, da un lato, posto in crisi la c.d. via giudiziale alla determinazione della retribuzione adeguata e, dall’altro, reso ormai necessario un intervento del legislatore in tema tanto di salario minimo legale, quanto di contrattazione collettiva e di rappresentanza.

 

Adequate wages and in-work poverty

The paper addresses the most current and controversial issues in the area of wage, with a particular focus on determining “fair” wage, in view of combating poor (dependent and autonomous) work. To this end, it provides an overview of the relevant supranational sources, the Constitution, ordinary law and collective bargaining, and then looks at the fundamental contribution of case-law. However, the issues and shortcomings identified have, on the one hand, impinged on the judicial determination of adequate wages and, on the other hand, made it necessary for the legislator to intervene in the field of both statutory minimum wage as well as collective bargaining and representation.

Keywords: poverty – employment – wage – sources – jurisprudence.

SOMMARIO:

1. Introduzione: il lavoro povero e il riemergere della questione salariale - 2. Il ruolo delle fonti in tema di retribuzione: a) le fonti sovranazionali - 3. Segue: b) l’art. 36 Cost - 4. Segue: c) gli interventi del legislatore ordinario - 5. Segue: d) la contrattazione collettiva - 6. Il ruolo della giurisprudenza - 7. La necessità di un intervento del legislatore e di una nuova stagione di concertazione sociale - NOTE


1. Introduzione: il lavoro povero e il riemergere della questione salariale

Il fenomeno della povertà nonostante il lavoro è sempre esistito, ma negli ultimi anni si è ovunque accentuato tanto che si può senza alcun timore di smentita affermare che “il circolo virtuoso tra occupazione e benessere si è spezzato” [1]. Non è necessario in questa sede soffermarsi sui dettagli della nozione di lavoro povero. Come ben noto, esiste da tempo una definizione adottata dal­l’Unione europea e utilizzata da Eurostat per le stime ufficiali, la quale si fonda su un concetto che combina la dimensione individuale, connessa al­l’occu­pazione del singolo, alla retribuzione, alla durata e alla stabilità dell’im­piego, con una dimensione familiare, che dipende dalla composizione demografica e occupazionale del nucleo familiare [2]. Si deve, peraltro, rilevare che tale definizione solleva non pochi problemi concettuali e operativi, se si considera che può condurre a qualificare come povero un lavoratore anche se percepisce una retribuzione non bassa alla luce del numero e della capacità reddituale dei componenti del nucleo familiare e, al contrario, a non ritenere tale un lavoratore o – come statisticamente più frequente – una lavoratrice con retribuzione molto bassa, ma inserito/a in un contesto familiare con un reddito complessivo superiore al 60% del reddito mediano nazionale. Emerge, pertanto, la ragione, anzi una delle ragioni, per cui il “Gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia” [3] ha proposto di promuovere una revisione dell’indicatore europeo di povertà lavorativa, al fine, tra l’altro, sia di “prendere in considerazione in maniera più strutturale i redditi da lavoro degli individui oltre che il reddito equivalente di cui dispongono all’interno del nucleo familiare in cui vivono”, sia di “estendere la platea di riferimento a tutti coloro i quali sono occupati almeno una volta in un anno e considerano la partecipazione lavorativa come la loro condizione prevalente”. In ogni caso, al di là delle definizioni, comunque utili a consentire l’elabo­razione di statistiche affidabili, è dappertutto evidente come la povertà di chi lavora sia causata da una pluralità di fattori sia di tipo economico, indotti dalla globalizzazione e dalle [continua ..]


2. Il ruolo delle fonti in tema di retribuzione: a) le fonti sovranazionali

Il tema della retribuzione non può non essere affrontato partendo dalle fonti e dal loro ruolo, senza trascurare la “crescente importanza sul versante della politica economica nazionale ed europea” [9] che esso ha acquisito. Nell’esaminare le fonti e la loro mutevole combinazione, è ormai maturata anche nel diritto del lavoro una crescente sensibilità con riguardo a quelle sovranazionali, internazionali ed europee. Tuttavia i risultati non sono troppo significativi proprio in materia di retribuzione, soprattutto con riguardo alle fonti internazionali, dall’art. 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 alle convenzioni del­l’Organizzazione internazionale del lavoro [10], “dei cui principi non si è mancato di rilevare la ben scarsa effettività” [11]. Peraltro, è opportuno sottolineare che talora viene richiamato espressamente il diritto dei lavoratori ad una giusta retribuzione, sufficiente a “garantire ad essi e alle loro famiglie un livello di vita dignitoso”. È il caso, ad esempio, dell’art. 4 della Carta Sociale Europea, che in modo significativo pone in luce la relazione esistente tra livello retributivo e standard di vita. Tuttavia, proprio la mancata individuazione del significato della nozione “strumentale” di “livello di vita dignitoso”, che la giusta retribuzione dovrebbe garantire, ha indotto a ritenere “ambigua” [12] tale previsione. Ciò ha spinto il Comitato europeo dei diritti sociali a cercare di colmare la lacuna: si tratta di una nozione che va oltre la garanzia per i lavoratori di potersi procurare beni di prima necessità, quali cibo, abitazione, vestiario, e che comprende tutte le risorse necessarie per consentire all’individuo di partecipare ad attività di carattere culturale, educativo e sociale [13]. Inoltre, il Comitato ha individuato una soglia minima di adeguatezza della retribuzione: ha, infatti, affermato che, per essere equo ai sensi dell’art. 4 della CSE, il salario minimo non deve essere inferiore al 60% del salario netto medio a livello nazionale [14]. Un giudizio in parte diverso va riservato alle fonti in senso stretto proprie dell’Unione europea. Infatti, se, in omaggio alle posizioni liberiste prevalenti in ambito economico [15], l’art. 153, par. 5, del [continua ..]


3. Segue: b) l’art. 36 Cost

Il caposaldo del sistema retributivo italiano a partire dalla caduta del regime corporativo era ed è l’art. 36 Cost., una norma che introduce i principi “cardine” in materia e che è tornata di stringente attualità col diffondersi del lavoro povero, tanto nell’ambito del lavoro subordinato quanto in quello del lavoro autonomo. Se l’applicabilità dell’art. 36 Cost. non è in discussione con riguardo al primo, nonostante i tentativi di alcuni settori della dottrina [21] la giurisprudenza prevalente continua ad accogliere la soluzione contraria relativamente al secondo [22], anche se svolto nelle forme e con le modalità del lavoro coordinato, in un contesto di debolezza socio-economica spesso persino superiore a quella dei lavoratori dipendenti. Ciò ha indotto il legislatore ordinario ad intervenire espressamente in alcune occasioni negli ultimi anni (§ 4). L’art. 36 fu oggetto di un ampio dibattito nel corso dei lavori dell’Assem­blea costituente. A dispetto di alcune proposte di segno contrario [23], si scelse, da un lato, di non imporre l’introduzione di un salario minimo legale e, dall’altro, di non prevedere alcuna riserva in materia retributiva neppure a favore della contrattazione collettiva [24], benché risultasse innegabile che ne veniva privilegiata la competenza. Si tratta di una conclusione avallata anche dalla Corte costituzionale, la quale ha attribuito ai contratti collettivi la “funzione di fonte regolatrice dei modi di attuazione della garanzia costituzionale del salario sufficiente” [25], tanto da ammettere eventuali compressioni da parte della legge della facoltà di stabilire la misura della retribuzione “solo in situazioni eccezionali a salvaguardia di superiori interessi generali e quindi con carattere di transitorietà” [26], in particolare in nome della “compatibilità con obiettivi generali di politica economica” [27]. Da subito venne riconosciuta la natura precettiva della norma [28], direttamente e immediatamente vincolante non soltanto nei confronti della legge e della contrattazione collettiva, ma anche nei rapporti tra privati quale disposizione inderogabile, fonte non soltanto di principi, ma di vere e proprie regole che si impongono alle parti [29]. Diverse, tuttavia, sono risultate le letture [continua ..]


4. Segue: c) gli interventi del legislatore ordinario

Come correttamente rilevato, il legislatore italiano “ha ben presto abdicato al compito di individuare un modello organico di disciplina della materia salariale” [50], sia rinunciando a prevedere un salario minimo legale, sia evitando di regolamentare gli assetti della contrattazione collettiva e di conferire efficacia erga omnes ai contratti collettivi. Anzi, a ben vedere, si è a lungo limitato ad introdurre regole generali in tema di sistemi retributivi e di norme relative ai criteri di calcolo di alcune voci della retribuzione [51], le più significative delle quali erano già contenute nel codice civile (artt. 2099-2102). Soltanto in un secondo momento ha, da un lato, previsto misure di contenimento delle dinamiche salariali e più in generale del costo del lavoro, com’è accaduto in particolare in tema di indennità di contingenza e di mensa. Dall’altro, ha cercato di fornire garanzie di applicazione dei trattamenti minimi in situazioni o ambiti in cui appare elevato il rischio di retribuzioni al ribasso. Interventi del genere hanno inizialmente ricostruito il vincolo gravante sui datori di lavoro in termini di onere, subordinando la concessione di particolari benefici o l’accesso ad appalti pubblici all’applicazione di “condizioni non inferiori a quelle risultanti dai contratti collettivi di lavoro della categoria e della zona” (art. 36 st. lav.). Successivamente ha introdotto norme che impongono il rispetto dei minimi previsti dai contratti collettivi per lavoratori che si trovino in particolari condizioni o che siano assunti per svolgere particolari attività, quali i lavoratori extracomunitari (cfr., ad es., art. 22, comma 3, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), i lavoratori marittimi (art. 3, d.l. 30 dicembre 1997, n. 457, convertito dalla legge 27 febbraio 1998, n. 30), i prestatori italiani inviati in paesi extracomunitari (art. 2, comma 4, d.l. 31 luglio 1987, n. 317, convertito dalla legge 3 ottobre 1987, n. 398), i disabili destinati all’inserimento lavorativo tramite convenzioni presso professionisti o cooperative sociali (artt. 12 e 12-bis, legge n. 68/1999), i lavoratori impiegati dalle imprese sociali (art. 2, d.lgs. n. 155/2006), nonché i lavoratori distaccati in Italia, da parte di imprese che abbiano sede nell’Unione europea, nell’ambito di una prestazione di servizi, ai quali devono essere garantite [continua ..]


5. Segue: d) la contrattazione collettiva

Centrale in tema di retribuzione è sempre stata ed è l’autonomia collettiva, a maggior ragione alla luce del ruolo ad essa attribuito dall’art. 36 Cost. e dalla pressoché inesistente funzione regolativa svolta dal legislatore italiano, anche con riguardo ai principali nodi della rappresentanza e dell’efficacia dei contratti collettivi. La contrattazione collettiva, del resto, è nata come contrattazione tariffaria o sui salari e la stessa articolazione su vari livelli (interconfederale, di categoria e decentrata) è stata scandita, anche ed in talune fasi soprattutto, dal peso volta per volta attribuito alle varie componenti della retribuzione. A partire dagli anni ’80 ed in particolare negli anni ’90, la questione salariale è stata addirittura inserita in una logica più ampia di politica dei redditi, favorendo l’emergere di un ulteriore livello negoziale, quello dello scambio politico o della concertazione sociale, strettamente connessa a politiche occupazionali nel cui ambito la retribuzione ha costituito una leva sulla quale agire per la difesa dei posti di lavoro. Le parti sociali hanno, comunque, a lungo omesso di conferire un’artico­lazione organica e razionale alla struttura sia della retribuzione sia della contrattazione collettiva, per di più sovente utilizzando formule ambigue ed anodine in ordine alla determinazione della base di calcolo delle varie componenti della retribuzione e di conseguenza attribuendo un ruolo fondamentale alla giurisprudenza, “il cui protagonismo pertanto non rappresenta sempre il risultato indesiderato di un’arbitraria arrogazione di poteri e di facoltà ad essa preclusi” [69]. È col Protocollo del 23 luglio 1993 che le parti sociali, nell’istituziona­lizzare col Governo il metodo della concertazione tripartita ai fini delle politiche dei redditi e dell’occupazione, hanno adottato un modello che ha messo in correlazione il sistema retributivo con quello contrattuale e che ha dimostrato una buona tenuta nelle prime tornate negoziali successive alla sua sottoscrizione. È stata così varata una riforma che, nel confermare la soppressione del­l’indennità di contingenza operata dal precedente Protocollo del 31 luglio 1992, in primo luogo ha affidato la tutela del salario reale alla contrattazione di categoria e in secondo luogo ha accentuato [continua ..]


6. Il ruolo della giurisprudenza

Il carattere circoscritto dell’intervento legislativo e i limiti appena illustrati dell’ordinamento intersindacale hanno conferito alla giurisprudenza non soltanto la classica funzione interpretativa delle norme di legge e contrattuali, ma anche un ruolo sistematico, nel tempo divenuto sempre più importante. Da un lato, infatti, la giurisprudenza è stata chiamata a delineare sia il contenuto e i confini del concetto di retribuzione (la c.d. retribuzione corrispettivo), sia le modalità di calcolo dei vari elementi della retribuzione (la c.d. retribuzione parametro) [81]. Dall’altro, per quanto rileva ai fini del presente saggio, ad essa spetta l’ultima parola in ordine alla determinazione della retribuzione equa e sufficiente, se si considera che l’art. 36 Cost. è norma che non può essere derogata né dalla legge, né dalla contrattazione collettiva [82]. Al riguardo va riconosciuto alla giurisprudenza il merito di avere valorizzato l’art. 36 Cost. conferendogli una “vitalità normativa” [83] decisamente superiore a quella di tutte le altre disposizioni costituzionali e di averlo fatto rafforzando la tenuta dei contratti collettivi e la loro funzione regolativa del mercato del lavoro. In particolare, come ben noto, ha individuato il parametro di riferimento della retribuzione adeguata nelle tariffe sindacali previste dalla contrattazione collettiva vigente, ancorché non applicabili al rapporto di lavoro in base al principio civilistico di rappresentanza, anche se non mancano sentenze che propendono per la possibilità, anziché per un vero e proprio obbligo, per il giudice di attenersi alle relative previsioni [84]. Tale riferimento è stato talvolta esteso al di là del settore merceologico di appartenenza dell’impresa, ovvero ai contratti collettivi previsti per settori o categorie affini [85], addirittura riscoprendo, sia pur in modo strisciante e talora con non lievi forzature, specie laddove si entra in contrasto col principio di libertà sindacale, l’art. 2070 c.c., ritenuto inapplicabile ai contratti postcorporativi, ma la cui concezione ontologica del concetto di categoria merceologica è di fatto recuperata nella misura in cui si sancisce il diritto dei lavoratori ad una retribuzione corrispondente a quella prevista dal contratto collettivo per il tipo di [continua ..]


7. La necessità di un intervento del legislatore e di una nuova stagione di concertazione sociale

Le difficoltà che le parti sociali e la giurisprudenza incontrano rendono ormai inevitabile un intervento legislativo in più direzioni. Innanzitutto, la necessità di tutelare le fasce più deboli del mercato del lavoro ha riportato al centro del dibattito l’esigenza di introdurre un salario minimo legale. Come anticipato, nel settembre 2022 è stata finalmente approvata una direttiva in materia da tempo in gestazione [107], la quale, nel tentativo di rispettare le specificità dei sistemi di ogni Stato membro dell’UE, muove su due binari paralleli: da un lato, l’art. 4 valorizza il ruolo della contrattazione collettiva nel determinare salari minimi adeguati; dall’altro, l’art. 5 sottolinea l’importanza di introdurre criteri chiari per la determinazione e l’aggiorna­mento degli stessi, al fine di garantire retribuzioni minime adeguate e condizioni di vita e di lavoro dignitose [108] e di contrastare l’in-work poverty e il gender pay gap [109]. Prendendo in considerazione la direttiva dal punto di vista dell’ordina­mento italiano, al momento è senz’altro di maggior rilievo la prima delle due norme. L’art. 4 in un’ottica promozionale chiede agli Stati membri di impegnarsi per accrescere la copertura della contrattazione collettiva, specialmente a livello settoriale e intersettoriale, con l’obiettivo di raggiungere un tasso di copertura pari almeno al 70% [110]. La formulazione di tale norma fa presupporre che l’adeguatezza del salario sia “data per acquisita per il semplice fatto di essere espressione dell’autonomia collettiva” [111], sul presupposto che in genere nei paesi in cui le retribuzioni minime sono determinate dalla contrattazione collettiva la percentuale di lavoratori a basso salario è inferiore e i livelli salariali minimi sono più elevati rispetto al salario mediano [112]. Tuttavia, l’”equazione” tra copertura contrattuale e adeguatezza appare problematica [113] e “solleva dubbi sulla sua congruenza rispetto all’obiettivo di sostenere un salario adeguato” [114]. Il caso italiano è al riguardo emblematico: nonostante un tasso di copertura della contrattazione collettiva piuttosto elevato, la descritta crisi della via giudiziale alla determinazione della retribuzione [continua ..]


NOTE