Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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I licenziamenti economici nella giurisprudenza, dalla legge n. 604/1966 a Corte costituzionale n. 128/2024 (di Marco Ferraresi, Professore ordinario di diritto del lavoro, Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Pavia)


Il saggio indaga la giurisprudenza – in particolare, di legittimità – sui licenziamenti economici – soprattutto, individuali per giustificato motivo oggettivo – alla luce dell’evolu­zione normativa e della giurisprudenza costituzionale, sino alla recente sentenza n. 128/2024, evidenziando plurimi profili creativi.

Economic dismissals in case law, from law no. 604/1966 to Constitutional Court no. 128/2024

The essay investigates the case law – in particular, of legitimacy – on economical dismissals – above all, individual dismissals for objective reasons – in the light of regulatory developments and constitutional jurisprudence, up to the recent sentence no. 128/2024, highlighting several creative profiles.

SOMMARIO:

1. Le principali questioni inerenti ai licenziamenti economici restano irrisolte - 2. L’art. 3, seconda parte, legge n. 604/1966 costituisce una norma elastica o una clausola generale? - 3. La selezione del fatto posto a base del g.m.o. di licenziamento - 4. Il nesso causale in senso logico o di congruità e i criteri di scelta - 5. La creazione del ripescaggio e il problema dei suoi limiti - NOTE


1. Le principali questioni inerenti ai licenziamenti economici restano irrisolte

La recente reintroduzione, a mezzo del giudice delle leggi [1], della tutela reintegratoria per l’insussistente giustificato motivo oggettivo di licenziamento (g.m.o.), con l’espunzione tuttavia del ripescaggio dalla struttura del fatto posto a base di esso, dice di come le principali questioni inerenti ai licenziamenti cc.dd. economici siano tuttora in attesa di una soddisfacente sistemazione, tanto nel dibattito scientifico, quanto nell’elaborazione giurisprudenziale. Ciò, nonostante siano trascorsi quasi sei decenni dalla storica legge n. 604/1966. Del resto, il tema dei licenziamenti motivati da ragioni oggettive investe il possibile conflitto tra l’interesse datoriale all’efficiente organizzazione d’im­presa e quello del lavoratore alla continuità occupazionale, la cui composizione ad opera dell’interprete è spesso influenzata da sensibilità e opzioni assiologiche individuali, con diverse possibili combinazioni dei valori costituzionali in gioco. Inoltre, il dato positivo su cui occorre ragionare è notoriamente formulato in termini aperti e non tassativi, il che abilita a plurime soluzioni ermeneutiche. Ancora, l’interpretazione dell’art. 3 della legge n. 604/1966, con riguardo al licenziamento determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’or­ganizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, è condizionata dall’evoluzione dell’ordinamento: si pensi a come abbia inciso, in questa operazione, il sopravvenire di nuove disposizioni, in particolare quelle di cui alla legge n. 223/1991. I punti fermi sono dunque pochi e definibili più in negativo che in positivo: appare cioè (relativamente) più semplice stabilire cosa non sia il g.m.o. che scolpirne l’identità. I dubbi applicativi, non solo sono prevalenti, ma si sono persino aggravati. Paradossalmente, questo si è verificato proprio a partire dal momento in cui le più recenti riforme legislative in materia, soprattutto con il d.lgs. n. 23/2015, hanno tentato di sdrammatizzare ogni questione, seppure in modo obliquo: agendo, cioè, non sulla fattispecie, ma sull’apparato sanzionatorio. Il tentativo del legislatore, infatti, da un lato di marginalizzare o escludere la tutela reale, dall’altro di marcare la differenza di grado e intensità della reazione [continua ..]


2. L’art. 3, seconda parte, legge n. 604/1966 costituisce una norma elastica o una clausola generale?

Se, come detto, tutte le essenziali questioni strutturali della fattispecie restano ancora aperte, questo dipende – oltre che dalle ragioni ordinamentali citate – da un persistente equivoco di fondo, che attiene alla stessa configurazione dell’art. 3, seconda parte, legge n. 604/1966. Esso è relativo all’alter­na­tiva tra norma elastica (o generale, o a fattispecie aperta) e clausola generale. Sul piano teorico, per sé non sembrerebbe dubbia l’esclusione della riconduzione dell’art. 3 a una clausola generale, preferendosi ritenere che la disposizione, semplicemente, sia stata formulata in modo intenzionalmente aperto, così da includere situazioni difficilmente tipizzabili e predeterminabili, consentendone un migliore adattamento ai molteplici e variegati casi della realtà. In ciò, certo, permettendo anche uno spazio elastico di discrezionalità del­l’interprete, chiamato, ogni volta, a interrogarsi sulla possibilità di sussumere un concreto atto di licenziamento nel significato della norma. Questo non pare smentito dall’art. 30 della legge n. 183/2010 che, pur riferendosi testualmente alle clausole generali, codificando il principio della riserva imprenditoriale del merito organizzativo intende anzi implicitamente affermare il contrario. Tuttavia, specialmente nell’elaborazione giurisprudenziale, come si potrà notare, la norma sul g.m.o. è stata – ed è tuttora – perlopiù utilizzata quale clausola generale, sebbene ciò accada in modo probabilmente inconsapevole e irriflesso. La differenza non è di poco momento: l’equivoco sulla natura dell’art. 3 è alla base di discutibili orientamenti applicativi che toccano ciascuno degli elementi strutturali della fattispecie, generando talora opzioni ermeneutiche incontrollabili, probabilmente non coerenti con le norme legali né giovevoli alla certezza del diritto. Ritenere l’art. 3 semplice norma elastica significa accettare di trattarla nei limiti del dato formale, facendo leva sulla lettera e la ratio legis; orientandosi, nel chiarirne il portato precettivo, mediante l’interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata; potendo tener conto della volontà del legislatore storico. Certo, si tratta pur sempre di operazione sofisticata e complessa, che può dar luogo a esiti diversificati, ma [continua ..]


3. La selezione del fatto posto a base del g.m.o. di licenziamento

Sebbene un autore in dottrina abbia colto come non sia estranea al g.m.o. di licenziamento la natura di motivo in senso tecnico [16], la prassi giudiziale ha sostenuto perlopiù un diverso orientamento, secondo cui esso costituisce un presupposto esterno di legittimità [17], che richiede l’accertamento di un fatto, il quale, secondo le parole poi utilizzate dal legislatore nella legge n. 92/2012, sia «posto a base» del medesimo g.m.o. È da escludere, invece, che quest’ultimo costituisca la causa, in senso tecnico, dell’atto di recesso [18], come sorprendentemente ha affermato la recente Corte cost. n. 128/2024, al fine di concludere che un vizio attinente alla causa non possa che comportare la reintegrazione del prestatore [19]. Causa del licenziamento, propriamente, è infatti la finalità estintiva di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato [20]. Il fatto può consistere, ad es., in un accadimento esterno (come una crisi di mercato), o nella stessa decisione imprenditoriale di riduzione dell’organico mediante la soppressione di una posizione lavorativa nell’organizzazione aziendale [21]: ciò che conta è la veridicità ed effettività del fatto addotto, da esplicitare nella comunicazione dei motivi, secondo il (pure) riformato art. 2, comma 2, legge n. 604/1966, così da renderlo immediatamente conoscibile al destinatario dell’atto. Assumere che l’art. 3 configuri una norma elastica, allora, dovrebbe comportare la necessaria verifica, semplicemente, della riconducibilità del fatto a una ragione tecnica, organizzativa o produttiva (oltre che il suo reale riscontro e l’appuramento del nesso causale). Il giudice dovrà arrestarsi a tale constatazione, senza poter sindacare l’opportunità della decisione datoriale sul piano della razionalità economica o della sostenibilità sociale del recesso. Per contro, si dovrà sancire il carattere ingiustificato del licenziamento quando la ragione sia di altro tipo, perché in realtà fondato su fatti di rilievo disciplinare, motivi discriminatori o esclusivamente illeciti, o perché riconducibile a casi di nullità previsti dalla legge. Occorre tuttavia evidenziare che, per un tempo non breve, la giurisprudenza anche della S.C. non ha adottato questo self-restraint, finendo per [continua ..]


4. Il nesso causale in senso logico o di congruità e i criteri di scelta

Il nesso causale tra la ragione addotta e il lavoratore da licenziare è condivisibilmente annoverato tra gli elementi costitutivi del g.m.o. Si tratta di una esigenza logica, ancor prima di essere prevista dallo stesso art. 3, che si esprime in termini di licenziamento «determinato da» ragioni oggettive. Pertanto, correttamente, il rimedio applicabile in sua assenza, ex artt. 18 St. lav. e 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, alla luce di Corte cost. n. 128/2024, è da individuare nella reintegrazione c.d. attenuata [32]. Ma la verifica del nesso causale è pure rimasta influenzata da valutazioni equitative, non coerenti con la natura di norma generale dell’art. 3 della legge n. 604/1966. Si può dire che il nesso causale sia stato inteso talora in senso meramente logico, talaltra di congruità o di opportunità. Mentre, nella prima ipotesi, il licenziamento sarebbe giustificato ogni qual volta vi sia coerenza tra la motivazione del recesso e la posizione soppressa, nella seconda il giudice tende a sovrapporre valutazioni ulteriori. Si ponga mente alla casistica più frequente, relativa a nuove assunzioni successive al licenziamento, per profili compatibili con quello del dipendente estromesso. La mera sostituzione del prestatore elide il nesso causale, smentendo la ragione del recesso. Vi è tuttavia incertezza in giurisprudenza sul tempo decorso il quale anche il reclutamento di una nuova unità divenga irrilevante per la legittimità del provvedimento espulsivo. Plurimi dati positivi suggeriscono che, fermi restando eventuali diritti di precedenza del lavoratore licenziato o necessità organizzative sopraggiunte in tempi più brevi, il trascorrere di un semestre consenta al datore nuove assunzioni [33]. Tuttavia, nelle pronunce non è raro constatare come – senza il supporto di adeguate argomentazioni – rapporti contrattuali instaurati sino a un anno successivo all’espun­zione della pregressa posizione lavorativa abbiano ingenerato il convincimento della carenza del nesso causale [34]. Da ultimo, sintomo di una valutazione di congruità e opportunità è la pretesa di vagliare la scelta del lavoratore da licenziare a fronte di diversi costi unitari del personale [35], così operando un giudizio di proporzionalità in concreto del recesso, nel bilanciamento dei contrapposti interessi in [continua ..]


5. La creazione del ripescaggio e il problema dei suoi limiti

L’obbligo od onere di repêchage costituisce una indubbia creazione giurisprudenziale, non suffragata da dati normativi né testuali né sistematici [40]. Non va dimenticato che esso trova origine nella giurisprudenza arbitrale secondo equità nel regime, anteriore al 1966, degli accordi interconfederali sui licenziamenti: il ripescaggio assumeva, per l’appunto, un significato equitativo, di contemperamento degli interessi nel caso concreto, soluzione di compromesso per la soppressa posizione lavorativa già occupata [41]. L’orientamento sull’esistenza di tale onere si è perpetuato acriticamente sino ad oggi, sotto il vigore della legge n. 604/1966. Per giustificarlo, si è dovuto far ricorso, non a caso, alle clausole generali di correttezza e buona fede. Altre volte, l’onere si è ritenuto radicato nell’art. 2103 c.c., ma così mutando il ius variandi in obbligo di variazione; o, ancora, nel principio di extrema ratio del licenziamento economico [42]. È curioso notare come la giurisprudenza, in una prima fase dopo le più recenti riforme legislative, avesse sì escluso l’invocabilità dell’extrema ratio per la causale ex art. 3 [43], ma, contraddittoriamente, abbia continuato a richiamarla per il ripescaggio [44]. Tale onere, comunque, forma ormai parte indiscutibile del diritto vivente, sicché il problema si sposta sull’individuazione dei limiti. La legge n. 92/2012, distinguendo tra fatto posto a base del g.m.o. ed estremi di esso, ha implicitamente estromesso il ripescaggio dal fatto, rendendo meritevole della tutela meramente indennitaria il mancato esperimento [45]: così, in effetti, si era espressa perlopiù la giurisprudenza di merito, per poi essere smentita da quella di legittimità [46] e costituzionale [47]. Salvo che, questa medesima giurisprudenza costituzionale, ha da ultimo rivisto il proprio orientamento, conscia del fatto che, riaprendo alla sanzione ripristinatoria il recesso per g.m.o. ai sensi del d.lgs. n. 23/2015, avrebbe persino aggravato l’apparato rimediale rispetto al licenziamento disciplinare, rendendo la reintegrazione sostanzialmente la sanzione di sistema [48], in frontale opposizione alle scelte del legislatore [49]. Per questo, la Corte, anche nel dispositivo della sentenza n. 128/2024, ha escluso che il [continua ..]


NOTE