Muovendo dall’idea che il sistema nazionale dei licenziamenti è oramai incentrato su due distinte tecniche di limitazione del potere di recesso del datore di lavoro, il saggio esamina una serie di problematiche relative a fattispecie ed istituti che concorrono a formare il complessivo quadro della disciplina in materia. La soluzione di questi problemi è, tuttavia, ampiamente condizionata dall’evoluzione della giurisprudenza rispetto a quelle tecniche. La disamina è ulteriormente complicata dalle ultime pronunce della Corte costituzionale e, in prospettiva, dai referendum abrogativi annunciati per il prossimo anno.
Starting from the idea that the national dismissal system is now centred on two different techniques for limiting the employer’s power, the essay examines a series of problems relating to the cases and legal institutes that form the overall framework of the regulations on the subject. Nonetheless, the solution of these problems is largely conditioned by the evolution of case law with respect to the technical ones. The examination is further complicated by the latest judgements of the Constitutional Court and, in perspective, by the abrogative referendums announced for next year.
1. Al centro del sistema: obbligo di giustificazione e divieti di licenziamento - 2. L’inefficacia del licenziamento - 3. Il licenziamento intimato senza la forma scritta - 4. Il problema della comunicazione dei motivi - 5. Il vizio di specificazione dei motivi - 6. Il recesso dal patto di prova invalido - 7. La revoca ed il c.d. secondo licenziamento - 8. La giurisprudenza costituzionale sui vizi di giustificazione - 9. I quesiti referendari e l’intervento del legislatore - NOTE
L’attuale sistema dei licenziamenti può essere immaginato come una galassia con due soli, perché all’originaria tecnica limitativa del potere datoriale, incentrata sulla giustificazione del recesso, si è oramai affiancata, sul piano della rilevanza applicativa, quella delle nullità [1], connessa all’evoluzione del diritto anti-discriminatorio ma soggetta a sollecitazioni pure rispetto ai divieti tradizionali, come sta accadendo per il licenziamento a causa di matrimonio [2]. Nella prospettiva della ragionevolezza, la più recente giurisprudenza costituzionale ha avallato questa visione, riconoscendo la “adeguatezza complessiva” delle tutele predisposte dal d.lgs. n. 23/2015, appunto perché strutturato su un duplice livello di deterrenza [3]. Rispetto a tale ricostruzione, che in effetti riproduce la classica relazione, dogmatica e verticale, basata sulla gravità dei vizi di invalidità dell’atto, occorre quindi capire se, in futuro, la tecnica delle nullità finirà per elevarsi a perno del sistema. Il rilievo non concerne soltanto la incerta linea di confine che tuttora separerebbe il vizio di insussistenza del fatto dal motivo illecito determinante [4], in specie se ritorsivo, quanto e soprattutto il progressivo ampliamento dell’area coperta dai fattori discriminatori, assieme alla prevalenza accordata alla loro rilevanza oggettiva perfino in relazione ad un recesso fondato su valida giustificazione [5]. Quest’ultima impostazione adesso si combina con la tematica degli accomodamenti ragionevoli [6], incidendo significativamente sulle regole che governano il licenziamento intimato per ragioni (individuali o organizzative) connesse alla disabilità [7] e quello per superamento del comporto, a sua volta attratto nell’area della disabilità attraverso l’istituzione, a tratti opinabile, del collegamento causa-effetto che può intercorrere tra disabilità e malattia [8]. In ogni caso, queste due tipologie di licenziamento già sembrano appartenere al sistema delle nullità [9], nonostante una convulsa disciplina legale di qualificazione e sanzionatoria [10]. Nella galassia dei licenziamenti, tuttavia, attorno alle due stelle (giustificazione e divieti) ruotano vari pianeti e satelliti, vale a dire fattispecie e istituti che non solo dipendono, per [continua ..]
La questione della inefficacia del licenziamento sconta la sovrapposizione storica tra l’originario utilizzo di tale categoria come esplicita sanzione dell’atto, in quanto privo di forma scritta o dei motivi non forniti a richiesta (art. 2 della legge n. 604/1966), e le previsioni legislative circa le conseguenze del recesso, in termini di efficacia estintiva o di persistenza giuridica del rapporto, in relazione ai possibili vizi ed al tipo di tutela applicabile. Dal punto di vista dell’inquadramento dogmatico si è dapprima ragionato sulle coppie di combinazione tra i criteri della validità e dell’efficacia [11], in seguito sui concetti di inefficacia in senso stretto o ampio, corrispondente alla invalidità dell’atto [12]. In entrambi i casi, peraltro, giungendosi ad affermare una distinzione tra il vizio di forma, il quale – per quanto inclusivo sia della dichiarazione, sia della comunicazione (c.d. volontà comunicata) – renderebbe l’atto invalido ed inefficace, cioè propriamente nullo; e il vizio di comunicazione dei motivi, che invece costituirebbe un elemento esterno alla struttura negoziale, riferito ad un licenziamento già avvenuto, dunque riconducibile ad una inefficacia in senso stretto. Altri hanno però sostenuto, accogliendo una concezione funzionalistica della sanzione, che anche la comunicazione dei motivi costituisca una regola di effettività interna della disciplina dei licenziamenti, contrapposta a quella esterna riferita alle tecniche di attuazione dell’effetto; sicché pure rispetto a quella comunicazione, che protegge la “possibilità del controllo concreto della giustificazione”, l’inefficacia prevista dalla fonte legale si atteggerebbe a condizione di procedibilità sostanziale dell’effetto estintivo del licenziamento [13]. In una prospettiva costituzionalmente orientata, ma sempre incentrata sulla distinzione tra difetto di giustificazione del licenziamento e conoscenza dei motivi da parte del lavoratore, si è poi osservato che la loro mancata esplicitazione (c.d. licenziamento immotivato) si sottrarrebbe comunque al bilanciamento tra diritto al lavoro e libertà di impresa, riferendosi a un diritto della persona autonomamente tutelato dal comma 2 dell’art. 41 Cost. [14]. In questo quadro, la questione dell’inefficacia comminata [continua ..]
Il licenziamento privo della forma scritta – fattispecie sintetizzata con l’espressione “licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale”, ma che in effetti sottintende pure la tematica della comunicazione dell’atto recettizio ai sensi dell’art. 1334 c.c. [21], nonché quella della sottoscrizione e dei poteri di rappresentanza [22] – è ora espressamente equiparato al licenziamento nullo per il regime di tutela applicabile ad ogni datore di lavoro (art. 18, comma 1, St. lav.; art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015) [23]. Pertanto, data la funzione di certezza assegnata al requisito della forma scritta [24], è stata superata in via normativa la diversificazione di tutela per i lavoratori delle piccole imprese. Per essi, le attuali previsioni del regime binario appaiono quindi più favorevoli, sia perché escludono, ai fini risarcitori, la necessità di un’offerta delle prestazioni di lavoro, peraltro da valutare in combinazione con la sottrazione di tale recesso all’onere di impugnazione a pena di decadenza ex art. 6 della legge n. 604/1966 [25]; sia perché garantiscono la penale minima di cinque mensilità e l’esercizio dell’opzione per l’indennità sostitutiva della reintegra. È certo, in ogni caso, che la prevista applicazione della tutela speciale reintegratoria ha permesso di eludere, in anticipo, la riapertura del dibattito sulle conseguenze retributive piuttosto che risarcitorie derivanti dall’ordinario regime di mora credendi, secondo il più recente approdo giurisprudenziale formatosi in relazione ad altre discipline. Quanto al licenziamento propriamente orale, va registrata la vicenda giurisprudenziale che ha riguardato, sul piano della ripartizione degli oneri processuali ed in caso di contestazione sulla reale causa di estinzione del rapporto, il tema della ‘estromissione’ del lavoratore. L’indirizzo che propendeva per la semplice dimostrazione, a carico del dipendente, della cessazione materiale nell’esecuzione delle prestazioni di lavoro [26], è stato superato da quello che ha riaffermato la necessità di provare la manifestazione di una volontà estintiva proveniente dal datore di lavoro [27]. In sostanza, estromissione significa comunque licenziamento, pur ribadendosi l’esigenza che [continua ..]
Se le ultime riforme in materia hanno rafforzato la tutela applicabile alla inefficacia comminata per l’atto intimato senza l’osservanza della forma scritta, è piuttosto sorprendente la divaricazione che si registra, sempre sul versante delle tutele, in relazione alla collegata violazione del requisito di specificazione dei motivi, nonostante la contestualità alla comunicazione dell’atto, adesso prescritta dal novellato art. 2, comma 2, legge n. 604/1966. Del resto, la necessità della forma vincolata è intrinsecamente funzionale alla conoscenza (legale ex 1335 c.c.) dei motivi del recesso [37], come conferma sia la sua mancata imposizione per le ipotesi ancora soggette alla libera recedibilità [38], sia la decorrenza del termine di impugnazione ai sensi dell’art. 6, comma 1, legge n. 604/1966. È innanzitutto necessario chiarire che la questione va distinta da quella della inesistenza del motivo (disciplinare o economico) che risulti formalmente e specificamente addotto, qui trattandosi di vizio attinente alla giustificazione dell’atto e conseguente all’accertamento giudiziale, che è appunto consentito proprio dalla esplicitazione originaria del motivo [39]. L’inesistenza del fatto contestato e del fatto posto a fondamento del motivo oggettivo – anche nello stato di insufficienza dei loro elementi costitutivi per la conformità al precetto legale, che può rendere superflua l’istruttoria – determina l’applicazione delle tutele (diverse per dimensioni dell’impresa o, allo stato, per data di assunzione: infra, par. 8) previste per tale vizio dell’atto e, ricorrendone le condizioni, può costituire un elemento presuntivo per il più radicale vizio di nullità. Al contrario, la questione del vizio di specificazione dei motivi, formalmente ricondotto a quelli procedimentali per le imprese di maggiori dimensioni (art. 18, comma 6, St. lav.) o in generale (artt. 4 e 9 del d.lgs. n. 23/2015), subisce l’interferenza della disposizione, tuttora vigente, che statuisce l’inefficacia del recesso per violazione dell’art. 2, comma 2, legge n. 604/1966. A quest’ultima norma, peraltro, si è da tempo sovrapposto l’art. 7 St. lav., ritenuto applicabile anche ai licenziamenti, generando un’ulteriore divaricazione, stavolta endogena all’obbligo di [continua ..]
La grande questione, tuttora irrisolta, riguarda però il requisito della specificazione dei motivi, rilevante soprattutto per il giustificato motivo oggettivo. Dopo alcuni tentennamenti, la Cassazione ha intanto provveduto, mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata, a ricondurre il vizio di comunicazione del motivo oggettivo, per le imprese di piccole dimensioni, all’art. 8 della legge n. 604/1966, onde evitare conseguenze irrazionali rispetto a quanto previsto dall’art. 18, comma 6, St. lav. [52]. Pertanto neppure per il g.m.o. opererebbe più la tutela reale di diritto comune, derivante dalla previsione di inefficacia ai sensi dell’art. 2, comma 3, legge n. 604/1966. Senonché, questa conclusione, in sé condivisibile rispetto al vizio procedimentale, non risolve il problema della differenza tra motivazione priva di specificità e motivazione omessa, rispetto alle quali “appare tutt’altro che assodato dove vada tracciata la linea di demarcazione” [53]. Per quanto la casistica giudiziale manifesti un carattere idiografico, non può anzi sottacersi che le pronunce in materia, essenzialmente riferite alle piccole imprese, si occupano proprio di motivazioni inesistenti o pseudo-motivazioni [54], piuttosto che di motivi sprovvisti di sufficiente specificità, rispetto ai quali stenta pure ad emergere un utile raffronto con il licenziamento disciplinare [55]. In ogni caso, se una motivazione esistente ma non specifica costituisce solo un vizio procedimentale – in base a quanto dovrebbe ricavarsi sia dalla disciplina statutaria, sia da quella del Jobs Act (in cui peraltro scompare il riferimento al licenziamento “dichiarato inefficace”) – si dovrebbe anche ammettere che il vizio di specificazione sia meno grave di quello di variazione dei motivi [56] e quindi, nell’interesse dello stesso lavoratore a coltivare domande per migliori tutele, che tale specificazione possa sopravvenire in giudizio, con conseguente istruttoria sul punto [57]. Il che, tuttavia, sembra conculcare il diritto di difesa (qui nel senso lato di azione giudiziale) del prestatore di lavoro. Né può rilevare la circostanza che per le piccole imprese la tutela da ingiustificatezza del recesso è comunque la stessa e meramente indennitaria. L’alternativa è ritenere che il vizio procedimentale riguardi [continua ..]
Le considerazioni finora svolte sono necessarie per inquadrare la problematica, manifestatasi a seguito delle ultime riforme, della disciplina applicabile al recesso dal patto di prova invalido. La nullità del patto si configura pacificamente nel caso della mancata specificazione dell’oggetto dell’esperimento [63], e può ricorrere in altre ipotesi particolari, come la stipula di un nuovo contratto tra le stesse parti [64] o nel passaggio a nuovo appaltatore [65]. Al contrario, secondo un più recente indirizzo di legittimità l’adibizione del lavoratore a mansioni diverse da quelle oggetto dell’esperimento non determina la nullità del patto, ma soltanto l’inadempimento datoriale, che rende il recesso illegittimo ma lo assoggetta, in difetto di apposita previsione, alle conseguenze civilistiche, con diritto del lavoratore alla esecuzione della prova se possibile o, in alternativa, al risarcimento del danno [66]. Resta dubbio, invece, che tali conseguenze siano applicabili per il diverso caso della dimostrazione di superamento della prova [67]. Qualora si discuta di patto invalido, con conseguente originaria instaurazione di un rapporto di lavoro privo dell’esperimento e assoggettamento del recesso alla disciplina limitativa dei licenziamenti e relative sanzioni, il tema può essere scomposto nei seguenti passaggi. Se il recesso è intimato in forma orale, come ancora consentito dalla fisiologia della fattispecie (art. 10 della legge n. 604/1966), non si può dubitare della sua riconduzione alla sanzione della nullità, adesso comminata per ogni licenziamento intimato senza la forma scritta. Assume quindi specifica rilevanza la questione delle nuove forme telematiche di comunicazione dell’atto, che eccede la, altrimenti sufficiente, conoscibilità legale della manifestata volontà estintiva [68]. La giurisprudenza di legittimità riconduce invece il recesso intimato per iscritto – fermo il regime dei vizi di nullità per discriminazione o motivo illecito determinante – al “licenziamento totalmente privo di giusta causa o di giustificato motivo” [69], rientrando tra “le ipotesi più evidenti di discostamento del recesso dalle relative fattispecie legittimanti” [70]. Come è stato puntualmente osservato [71], la conclusione affonda le sue [continua ..]
Al tema della inefficacia, intesa (anche) come concetto descrittivo delle conseguenze del licenziamento illegittimo, si collegano pure l’istituto della revoca e la situazione giuridica rappresentata dalla intimazione di un ulteriore licenziamento. In linea di principio, revoca e ‘secondo’ licenziamento assolvono funzioni (e, secondo l’impostazione tradizionale, tecnicamente hanno cause) diverse e per certi versi contrapposte. La revoca del licenziamento in esame è quella munita di disciplina speciale (revoca tipica), che ne prevede l’esercizio entro quindici giorni dalla impugnazione del recesso (art. 18, comma 10, St. lav.; art. 5 del d.lgs. n. 23/2015). L’atto è ovviamente recettizio [80] ma è esclusa la necessità della forma scritta [81]. Trattandosi di diritto potestativo, non occorre il consenso del lavoratore alla ripresa del lavoro, che decorre comunque dalla conoscenza dell’atto ed entro tempistiche da valutare secondo i canoni di buona fede [82]. Poiché la revoca tempestiva ricostruisce giuridicamente e con effetti ex tunc il rapporto, il rifiuto del lavoratore di ricostituzione materiale, anche se espresso per fatti concludenti e fermo il pagamento delle retribuzioni dovute medio tempore, costituisce assenza ingiustificata, passibile di sanzione disciplinare [83]. Questa è, dunque, una delle più marcate differenze con la revoca atipica, cioè soggetta al diritto comune. Quest’ultima costituiva una mera proposta di ricostituzione del rapporto [84], con conseguenze risarcitorie discusse nell’ammontare [85] ma che, ove rifiutata, garantiva comunque al lavoratore il diritto alla tutela reintegratoria e all’opzione per l’indennità sostitutiva. Si può discutere se, a fronte della disciplina speciale, tale revoca sia ancora ammissibile, come sembra possibile inverando un ordinario schema civilistico. Tuttavia, occorre considerare che un rifiuto del lavoratore deve adesso misurarsi, agli effetti dell’art. 1227 c.c., con la normazione della deduzione dell’aliunde percipiendum, prevista solo in caso di reintegrazione attenuata, soltanto dalla riforma Fornero e, a rigore, soltanto rispetto alla “ricerca di nuova occupazione”. La nozione impropria di secondo licenziamento va scomposta nella tecnica di ripetizione del licenziamento già intimato, [continua ..]
Sullo sfondo delle questioni esaminate, resta innanzitutto da decifrare l’impatto che la più recente giurisprudenza costituzionale produrrà, oltre che sul quadro normativo, sugli orientamenti del giudice di legittimità formatisi rispetto ai vizi di giustificazione. Invero, la diffusa opinione, anche mediatica, secondo cui la Consulta avrebbe progressivamente demolito il Jobs Act, deve adesso confrontarsi con la rivisitazione del concetto di insussistenza del fatto ad opera dello stesso giudice delle leggi, ad avviso del quale il “ricollocamento” (ripescaggio) è esterno a tale stato giuridico, identificato nel solo “fatto materiale” nell’ambito del motivo oggettivo di licenziamento, equiparato all’insussistenza del fatto materiale contestato ex art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 [98]. Così come, per converso, rispetto al licenziamento disciplinare l’assetto voluto dall’autonomia collettiva, ma soltanto mediante la previsione di inadempienze “specifiche e nominate”, in forza dell’art. 39 Cost. esonderebbe dall’estraneità del giudizio di sproporzione, essendo anch’esso equiparabile al fatto materiale contestato [99]. Si tratta, con tutta evidenza, della reintroduzione nel sistema del Jobs Act delle interpretazioni restrittive, inizialmente accolte e poi rifiutate per l’impianto della legge Fornero. È altrettanto chiaro il tentativo di puntellare questa rilettura – molto simile ad una interpretazione autentica – sulla scorta di dati positivi che consentano di circoscriverla alla riforma del 2015, senza porsi in contrasto col diritto vivente [100]. In buona sostanza, il fatto insussistente del g.m.o., regolato dall’art. 18, comma 7, St. lav., includerebbe anche il ripescaggio perché mancherebbe il riferimento al termine “materiale”. Analogamente, l’interpretazione di rigetto proposta per il licenziamento disciplinare dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, sarebbe consentita dal mancato riferimento, invece presente nella legge Fornero, alle previsioni della contrattazione collettiva. A ben vedere, tuttavia, l’intera ricostruzione poggia sulla svalutazione della locuzione “fatto materiale contestato”, che è propria del licenziamento disciplinare e, soprattutto, include necessariamente il carattere illecito del fatto, secondo un [continua ..]
Su questi possibili scenari grava l’eventuale abrogazione referendaria dell’intero Jobs Act [107], che cancellerebbe di colpo un decennio di dibattito e di incerte applicazioni forensi. Per altro verso, quell’esito eliminerebbe alcune aporie, come è a dirsi per le organizzazioni di tendenza [108], ma avrebbe anche la paradossale conseguenza di ripristinare integralmente il sistema sanzionatorio meno favorevole previsto dalla legge Fornero per i licenziamenti per disabilità e superamento del comporto. Il tutto, salvo che la tutela antidiscriminatoria non finisca, in una logica propriamente rimediale, per assorbire le due fattispecie. D’altro canto, il regime delle nullità del licenziamento oramai si applica indistintamente alle imprese medio-grandi ed a quelle piccole, rendendo ininfluente, sotto questo aspetto, l’eventuale e discutibile secca abrogazione, per via referendaria, del tetto di tutela indennitaria fissato dall’art. 8 della legge n. 604/1966 [109]. Rispetto alle altre problematiche qui trattate, si deve invece osservare che l’impatto dei quesiti referendari sarebbe scarso, poiché le difficoltà di definire il confine tra i vizi di nullità e di giustificazione e, rispettivamente, quello tra vizi di giustificazione e procedimentali, persisterebbero per la riforma del 2012. Quanto al primo, non convince affatto l’idea che la differenza tra il vizio di nullità e la pretestuosità del recesso motivato da fatto insussistente poggi soltanto sul “motivo discriminatorio, della cui prova è onerato il lavoratore” [110]. Questa impostazione non solo pretende di ignorare l’espansione del diritto anti-discriminatorio – sotto il profilo delle agevolazioni probatorie, dell’ampiezza dei fattori costitutivi del divieto e della loro rilevanza oggettiva – ma finisce per combinarsi con l’accoglimento di una nozione formalistica di fatto insussistente, che prescinde completamente dall’accertamento giudiziale, invece essenziale per aprire l’indagine al motivo occulto [111]. Quanto al problema della omessa o pseudo-motivazione, come visto rilevante per il motivo oggettivo, un ausilio tecnico potrebbe provenire dalla riconduzione dell’insussistenza del suo fatto materiale alla disciplina dell’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, così assoggettandolo – [continua ..]