Lo scopo del contributo, nel quadro della normativa nazionale sui licenziamenti, dettata dall’art. 18 St. riformato dalla l. n. 92 del 2012 e, poi, dal d.lgs. n. 23 del 2015, è quello di analizzare i percorsi intrapresi dalla giurisprudenza di legittimità in ordine al particolare ambito del licenziamento nullo. Nella seconda parte del contributo procederemo all’analisi del recente intervento della Corte costituzionale n. 22 del 2024 sul licenziamento nullo, con conseguente caducazione dell’avverbio “espressamente” nell’art. 2, d.lgs. n. 23 del 2015, valutandone gli effetti.
The purpose of the contribution, within the framework of the national legislation on dismissals, dictated by Art. 18 St. reformed by l. no. 92 of 2012 and, then, by Legislative Decree. No. 23 of 2015, is to analyze the paths taken by the jurisprudence of legitimacy regarding the particular area of dismissal nullity. In the second part of the contribution we will proceed to the analysis of the recent intervention of the Constitutional Court No. 22 of 2024 on null dismissal, resulting in the consequent fall of the adverb “expressly” in Article 2, Legislative Decree No. 23 of 2015, assessing its effects.
1. Scopo e perimetrazione dell’indagine: analisi dei percorsi seguiti dalla giurisprudenza di legittimità e uno sguardo alla Corte costituzionale in chiave prospettica - 2. La nullità del licenziamento - 3. Le cc.dd. nullità virtuali nel diritto civile - 4. Il licenziamento nullo del quadro dell’art. 18 St. a seguito della novella del 2012 - 5. Il licenziamento nullo nel quadro del d.lgs. n. 23/2015 - 6. Il diritto vivente negli arresti della Corte di Cassazione. L’inquadramento nell’alveo della nullità del licenziamento in caso di mancato superamento del comporto - 7. Le rimarcate differenze tra ipotesi contigue: il licenziamento discriminatorio e il licenziamento per motivo illecito - 8. L’attenzione alla tutela del lavoratore disabile: il carattere discriminatorio del licenziamento a causa di disabilità per inidoneità nonché in caso di superamento del comporto - 9. Le precisazioni sul licenziamento a causa di matrimonio e il licenziamento della lavoratrice madre - 10. L’individuazione di ipotesi di nullità per violazione di norme imperative: il licenziamento nel trasferimento d’azienda; il divieto di licenziamento per Covid-19; il licenziamento per mancato superamento dei limiti di età - 11. La giurisprudenza che verrà. Spunti dal recente intervento della Corte costituzionale (n. 22/2024) sul licenziamento nullo ex art. 2 del d.lgs. n. 23/2015: la caducazione dell’avverbio “espressamente” - 12. Gli effetti della sentenza: l’inclusione delle cc.dd. “nullità virtuali” tra le ipotesi di licenziamento illegittimo - 13. Le ipotesi proposte dalla Corte ed altre enucleabili - 14. Qualche conclusione: tendenziale apprezzamento e fiducia in una giurisprudenza meditata - NOTE
Scopo del presente contributo, nel quadro della normativa nazionale sui licenziamenti, è quello di analizzare i percorsi intrapresi dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alle regole del diritto vigente dettate nel particolare ambito del licenziamento nullo. La normativa sul licenziamento rappresenta come noto un ambito tipico, noto e diffuso di confronto tra dottrina e giurisprudenza [1], dove proprio la ricchezza anche numerica degli interventi rende ogni analisi forse più complessa. In un tale contesto, l’indagine è qui tesa a valutare quale sia stato sinora l’apporto della Cassazione in ordine alla individuazione, in particolare, delle ipotesi di nullità del licenziamento rispetto al dettato della legge e alle letture che sono state proposte dalla dottrina, in quello che può definirsi il diritto vivente sul tema [2]. Dobbiamo precisare, nell’esigenza di circoscrivere il perimetro della presente indagine, che questa è condotta con particolare riferimento al rapporto tra determinate fattispecie di licenziamento e la sanzione della nullità, cioè in relazione alle ipotesi nelle quali questa è stata riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità, in diretto o indiretto riferimento al dato testuale della legge. Ne deriva che vengono evidenziati gli aspetti di quelle fattispecie legali funzionali alle finalità descritte, restando così in ombra altre questioni ermeneutiche, per le quali si rinvia fin d’ora alla letteratura in materia. Nel contesto prescelto di indagine, a nostro avviso, non può mancare poi nella seconda parte del presente contributo un’analisi del recente intervento della Corte costituzionale in ordine alla disciplina dettata dall’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015 sul licenziamento nullo, con conseguente modifica della disposizione di legge, derivante dalla caducazione dell’avverbio “espressamente”. L’intervento pare stimolare nuovi percorsi della giurisprudenza anche di legittimità, che tentiamo quantomeno di intravedere nei loro possibili aspetti problematici. Limitiamo pertanto la nostra indagine alla disciplina vigente in tema di licenziamenti nulli, dettata nel quadro dell’art. 18 St. riformato dalla legge n. 92/2012 e, poi, del d.lgs. n. 23/2015. Si tratta di ipotesi di licenziamento illegittimo ritenute dal legislatore di tale gravità da [continua ..]
La nullità rappresenta come noto la più grave forma di invalidità del contratto. Salvo diverse disposizioni di legge, anche le norme sulla nullità del contratto sono poi estese, in quanto compatibili, agli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale [3], tra i quali, quindi, va annoverato anche il recesso dal rapporto di lavoro, ossia, quando esercitato dal datore di lavoro, il licenziamento. Ora, anche nell’ambito originario del diritto civile la nullità si articola secondo modalità non uniformi, giacché, ad es., le regole generali sulla legittimazione assoluta e la rilevabilità anche d’ufficio, sull’imprescrittibilità dell’azione di nullità [4] nonché sull’impossibilità di convalida del contratto nullo [5], subiscono diversi temperamenti in varie ipotesi, che non appare utile in questa sede evidenziare. Quel che ci interessa concerne evidentemente la declinazione della nullità nell’ambito della disciplina del licenziamento illegittimo offerta dal diritto positivo vigente, che si appalesa senza dubbio come peculiare rispetto a quella civilistica [6]. Nel licenziamento la nullità gioca in sostanza il ruolo di rimarcare il massimo disvalore possibile connesso a quella determinata ipotesi di licenziamento illegittimo, che implica per questo l’applicazione generale delle relative sanzioni a prescindere cioè dalle consuete delimitazioni, sia quanto ai limiti numerici riferiti ai lavori impiegati dall’azienda, sia in relazione a particolare categorie di lavoratori, esclusi dalla normativa limitativa dei licenziamenti, ma in questo caso beneficiari di tali tutele, come i dirigenti. In un tale particolare perimetro possiamo enucleare alcune altre caratteristiche portanti della nullità del licenziamento: si tratta di una nullità c.d. relativa, in quanto la legittimazione ad agire è riservata solo al lavoratore, sul quale grava l’onere di impugnare l’atto di licenziamento reputato illegittimo entro il termine di decadenza di sessanta giorni fissato dalla legge [7], tranne che per il caso del licenziamento orale [8], superandosi così la regola della imprescrittibilità. Trattandosi poi di atto unilaterale non potrà mai parlarsi di convalida, ma è possibile revocare (anche) un licenziamento nullo. Fermo quanto [continua ..]
Ora, come vedremo in seguito, anche nel peculiare perimetro del licenziamento nullo può assumere rilievo la questione della individuazione delle cc.dd. nullità virtuali, che si pone anche in generale nel diritto civile. Invero, secondo la normativa dettata dal codice civile all’art. 1418, comma 1, c.c.: “Il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente”, che risulta applicabile come già notato anche agli atti unilaterali come il recesso datoriale, id est il licenziamento. La previsione assume per comune opinione carattere di norma di chiusura, con riferimento a quanto prescritto dai successivi commi 2 e 3 dell’art. 1418 c.c., che prescrivono l’uno la nullità del contratto per mancanza dei requisiti essenziali ex art. 1325 c.c., per illiceità della causa ex art. 1343 c.c., per illiceità dei motivi ex art. 1345 c.c. e per mancanza dei requisiti dell’oggetto del contratto ex art. 1346 c.c.; mentre l’altro fa riferimento agli altri casi di nullità testuale stabiliti dalla legge [16]. Quindi, soltanto nel caso in cui non vi sia stata violazione delle suindicate espresse ipotesi può aprirsi uno spazio per la verifica della sussistenza della nullità, allorché ci si trovi in presenza appunto della violazione di una norma imperativa [17]. In questi casi, sempre per comune e risalente acquisizione, possano così emergere anche ipotesi di nullità c.d. virtuali, in quanto appunto non espressamente individuate dalla legge, ma qualificabili come tali sulla base dell’accertamento del carattere imperativo della norma violata in quel caso. Ciò può avvenire sempre che la stessa legge non disponga diversamente, cioè non prescriva espressamente per quella fattispecie un diverso regime. Sul raggio di azione della norma dibatte da tempo la civilistica. Nella varietà delle posizioni, si è ritenuta di carattere imperativo la norma non derogabile dalle parti, oppure tale sarebbe quella posta a difesa di interessi pubblici [18]. In un tale contesto si ritiene imperativa anche la norma posta a presidio delle ipotesi di c.d. nullità di protezione, nelle quali si appresta una tutela speciale nei confronti di soggetti che si trovino in situazione di debolezza contrattuale [19]. Di recente la Cassazione a Sezioni Unite [continua ..]
Al fine di inquadrare le fattispecie poi vagliate dalla giurisprudenza passiamo ora a descrivere e analizzare la normativa vigente in tema di nullità del licenziamento, soffermandoci appunto in particolare sulle ipotesi identificate o identificabili in base alla legge, dove le considerazioni di carattere generale sinora svolte potranno trovare un terreno di verifica. Partiamo da quella dettata dall’art. 18, comma 1, legge n. 300/1970, nel testo modificato dalla legge n. 92/2012. Come evidenziato dai primi commentatori, la modifica del 2012 ha esplicitato i casi di licenziamento nullo ricompresi sotto la disciplina lavoristica, con la conseguenza di erodere la confusa area della tutela reale “di diritto comune” legata al riscontro della “nullità di diritto comune” [21]. Vedremo, tuttavia, che in riferimento a singole questioni non di evidente soluzione a causa dei silenzi del legislatore, da più parti sia riemersa la prospettiva della nullità di diritto comune. Le ipotesi identificate espressamente dalla legge di licenziamento nullo sono: a) il licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 3 della legge n. 108/1990; b) il licenziamento intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’art. 35 del d.lgs. n. 198/2006 (codice delle pari opportunità tra uomo e donna); c) il licenziamento intimato in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’art. 54, commi 1, 6, 7 e 9, d.lgs. n. 151/2001 (testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità); d) il licenziamento riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge; e) il licenziamento determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’art. 1345 c.c. In questi casi la sanzione prescritta è quella della reintegrazione, che trova applicazione a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, nonché a favore anche dei dirigenti. Tale regime si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale [22]. Si tratta della reintegrazione “piena”, cioè con risarcimento del danno dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, detratto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative [23]. Per quanto concerne il licenziamento [continua ..]
Il licenziamento nullo trova poi un’apposita disciplina anche nella normativa dettata dal d.lgs. n. 23/2015, che trova applicazione per i lavoratori assunti a partire dalla data del 7 marzo 2015. La nuova normativa non include invece i dirigenti, per i quali, dunque, in caso di licenziamento discriminatorio o nullo continua ad applicarsi la disciplina prescritta dall’art. 18 St., commi da 1 a 3 [50]. In questo caso le ipotesi identificate dalla legge di licenziamento nullo sono: a) il licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 15 della legge n. 300/1970; nonché b) il licenziamento riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge. Il regime ivi previsto si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale. Per quanto attiene alla prima, il licenziamento discriminatorio viene individuato qui solo in relazione alle ipotesi declinate dal già citato art. 15 della legge n. 300/1970, ma si ritiene che queste coincidano con quelle individuate dall’art. 18, comma 1, legge n. 300/1970, in precedenza riportate, sul presupposto del carattere non tassativo di quel riferimento, tanto da non precludere il rinvio ad altre fonti nelle quali sia previsto un ulteriore fattore di discriminazione [51]. Alle ipotesi generali andrebbero quindi aggiunte quelle previste da specifiche discipline, quali quelle che individuano il fatto di discriminazione nell’infezione da HIV [52]; nella razza, colore, etnia, convinzioni o pratiche religiose [53]; e poi, nel sesso e dell’età anagrafica, con riferimento esplicito anche alle molestie [54]. Inoltre, secondo alcuni la formula confermerebbe la natura “soggettiva” del licenziamento discriminatorio, tanto da rendere necessaria la dimostrazione che il licenziamento sia determinato dalla volontà del datore di lavoro di colpire il lavoratore per certe sue caratteristiche [55], mentre, al contrario, per altra parte della dottrina dall’esplicito riferimento all’art. 15 St., che sanziona gli atti “a causa” o “a fini” di discriminazione, dovrebbe desumersi il carattere oggettivo della discriminazione, cioè a prescindere dalla prova dell’elemento intenzionale [56]. Inoltre, sebbene nel d.lgs. n. 23/2015 il licenziamento per motivo illecito determinante non venga menzionato, si può ritenere che questa [continua ..]
Dopo aver vagliato le letture del licenziamento nullo nella normativa vigente, cioè in quella dettata dall’art. 18 St. post novella del 2012 e dal d.lgs. n. 23/2015, passiamo ai riscontri offerti dalla giurisprudenza di legittimità. Precisiamo che volendo qui offrire una panoramica di tali interventi abbiamo deciso di selezionare alcuni dei percorsi che ci sono parsi maggiormente significati e incidenti. Una classificazione per tipologia di interventi, in una possibile gradazione di innovatività rispetto al quadro legale si rivela difficile, oltre che forse inutile, giacché quel che può interessare risiede comunque nello sviluppo delle singole questioni, pur se non mancherà poi qualche considerazione a consuntivo. Senza dunque individuare primazie sistemiche, una prima questione di indubbio rilievo è quella del licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto, ma anteriormente alla scadenza di questo [87]. Ora, già in relazione alla normativa antecedente a quella dettata dalla legge n. 92/2012 di riforma dell’art. 18 St., un orientamento della Cassazione aveva ritenuto non già temporaneamente inefficace, ma nullo tale licenziamento per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 c.c. Tuttavia la sentenza, in quanto riferita ad una vicenda svoltasi nel 2009, aveva applicato la tutela reale di diritto comune [88]. Successivamente, nel contesto dell’art. 18 St. riformato nel 2012, la Cassazione a Sezioni Unite, nel sanare il contrasto presente nelle sezioni semplici, ha confermato la collocazione del licenziamento per malattia, in caso di mancato superamento del comporto, nella categoria del licenziamento nullo, per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110, comma 2, c.c., posta a tutela della salute, valore prioritario all’interno dell’ordinamento. A tale ricostruzione, secondo la Corte, non osta la previsione della tutela reintegratoria attenuata disposta dall’art. 18, comma 7, legge n. 300/1970, atteso che questa si pone come norma speciale rispetto a quella generale della reintegrazione piena prescritta dal medesimo art. 18, al comma 1, che trova le sue ragioni “in considerazione d’un minor giudizio di riprovazione dell’atto assunto in violazione di norma imperativa” [89]. Dalla qualificazione in termini di nullità e non di mera inefficacia deriva che non sia [continua ..]
La giurisprudenza di legittimità si è poi occupata di rimarcare le differenze tra licenziamento discriminatorio, come tale legato a fattori tipici di discriminazione e licenziamento per motivo illecito, per sua natura atipico. Così, in linea con l’interpretazione maggioritaria circolata in dottrina, la Corte ha ritenuto che nel caso del licenziamento nullo in quanto discriminatorio non sia necessaria la prova di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., come invece nel caso del licenziamento ritorsivo. Sul punto la sentenza ha ritenuto in sintesi che “la nullità derivante dal divieto di discriminazione discende (...) direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno ed europeo, senza passare attraverso la mediazione dell’articolo 1345 c.c.”. La non richiesta esclusività del fattore discriminatorio è fatta derivare dalla lettera dell’art. 3 della legge n. 108/1990, che prescrive la nullità del licenziamento “indipendentemente dalla motivazione addotta”. Inoltre, la Corte ha evidenziato che “la discriminazione – diversamente dal motivo illecito – opera obiettivamente – ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta – ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”, senza quindi necessità della prova dell’intenzionalità della condotta discriminatoria da parte del datore di lavoro [97]. Sebbene questa pronuncia si basi sulla previgente relativa normativa ante 2012, il precedente ha trovato poi seguito nella giurisprudenza successiva pronunciatasi nel quadro della normativa ora vigente, ove, in merito alle differenze sul piano probatorio, si rimarca che: “il lavoratore che esercita la azione a tutela dalla discriminazione può limitarsi a fornire elementi di fatto – desunti anche da dati di carattere statistico e relativi ad esempio alle assunzioni, ai regimi retributivi, all’assegnazione di mansioni e qualifiche, ai trasferimenti, alla progressione in carriera ed ai licenziamenti, che siano idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza di atti o comportamenti discriminatori. Spetta invece al convenuto l’onere della prova sulla insussistenza della discriminazione che opera obiettivamente, in [continua ..]
Tra gli orientamenti della giurisprudenza a nostro avviso maggiormente pregnanti e incidenti sul sistema vi è quello che concerne la tutela dei lavoratori disabili, nei cui confronti la giurisprudenza di legittimità ha mostrato – del tutto opportunamente – particolare sensibilità. Una sensibilità che si è manifestata nel riconoscimento ad alcune condizioni del carattere discriminatorio del licenziamento subito dal lavoratore disabile. Si tratta di un orientamento declinato a quanto consta in due differenti versanti. Nel primo, la Cassazione ha dapprima interpretato la normativa in tema di “accomodamenti ragionevoli” gravanti sui datori di lavoro al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità [101], nel senso che essa impone obblighi ulteriori anche al datore di lavoro che intenda licenziare un lavoratore in condizione di disabilità [102], ma in quel caso ritenendo applicabile la tutela reintegratoria attenuata ex art. 18, comma 4, legge n. 300/1970. Su tali basi, in linea con quanto già proposto in dottrina [103], è stato riconosciuto il carattere discriminatorio del licenziamento del lavoratore disabile, con conseguente applicazione della sanzione della reintegrazione piena ex art. 18, comma 1, legge n. 300/1970, laddove questo sia stato disposto per motivo oggettivo consistente nella sopravvenuta inidoneità parziale alla mansione, nel caso in cui il datore di lavoro non avesse adottato le necessarie e dovute misure concrete ed effettive (c.d. “adattamenti ragionevoli”) richiesti appunto dalla normativa eurounitaria e nazionale [104]. La Corte ha in quella sede osservato che seguendo tale linea ermeneutica la tutela stabilita dal combinato disposto dei commi 4 e 7 dell’art. 18 St. risulta confinata ad ipotesi residuali, che voci dottrinali ravvisano nei casi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo, in presenza di una inidoneità non riconducibile ad una condizione di disabilità, perché, ad esempio, avente natura temporanea (e quindi non “duratura” secondo il diritto dell’Unione), o perché non qualificabile come menomazione, per il venir meno di qualità rispondenti a finalità di efficienza o utilità di prestazioni lavorative peculiari. In ogni caso resta fermo che la c.d. [continua ..]
Sempre in relazione agli apporti della giurisprudenza di legittimità sul licenziamento nullo, passiamo ad analizzare quello a causa di matrimonio [111]. La Suprema Corte è intervenuta a rimarcare la legittimità della limitazione del divieto nei riguardi della sola lavoratrice donna, in quanto la diversità di trattamento non è giustificata dal genere, ma da ragioni coerenti con la realtà sociale e fondate su una pluralità di principi costituzionali (artt. 2, 3, comma 2, 4, 31, 35, 37), “ben giustificanti misure legislative intese a consentire alla donna di poter coniugare il legittimo diritto al lavoro con la propria vita coniugale e familiare”, inutili per gli uomini [112]. A conferma di un tale indirizzo, più di recente il giudice di legittimità ha ribadito, in aderenza al dato normativo [113], inoltre: a) che la nullità del licenziamento della donna lavoratrice a causa di matrimonio opera oggettivamente, cioè prescinde dalla considerazione della buona fede del datore di lavoro; b) che la presunzione di collegamento del licenziamento col matrimonio può essere superata unicamente nei tre casi previsti dalla legge: colpa grave della lavoratrice, costituente giusta causa di licenziamento, cessazione dell’attività di azienda cui essa è addetta e scadenza del termine direttamente o indirettamente apposto al contratto di lavoro; c) che la tutela reintegratoria piena prevista esclude, sul piano risarcitorio, la detrazione dell’aliunde percepiendum [114]. Con riguardo alla diversa fattispecie del divieto di licenziamento della lavoratrice madre (dall’inizio della gestazione al compimento di un anno di età del figlio) si possono altresì segnalare alcuni interessanti indirizzi che possono ritenersi consolidati. Così, in merito alla condizione alla previsione della colpa grave da parte della lavoratrice, costituente anche in questo ambito una eccezione al divieto di licenziamento [115], la Suprema Corte ha ritenuto configurarsi “un’ipotesi di colpa qualificata dal punto di vista soggettivo in ragione delle specifiche condizioni psico-fisiche in cui versa la donna madre e comprende dal punto di vista oggettivo situazioni più complesse rispetto ai comuni schemi previsti dal codice e dalla contrattazione collettiva come giusta causa di licenziamento. In tali ipotesi, dunque, [continua ..]
A questo punto offriamo una breve rassegna di casi in cui la giurisprudenza di legittimità ha riscontrato la presenza di norme imperative, la cui violazione comporta la nullità del licenziamento intimato, con la conseguente applicazione della sanzione della reintegrazione piena. Allora, in tema di licenziamento intimato a causa di un trasferimento d’azienda nella giurisprudenza di legittimità più recente vengono a contrapporsi due orientamenti. Va subito precisato che la sentenza dichiarativa della nullità del licenziamento intimato prima del trasferimento d’azienda, unicamente motivato dal fatto in sé del trasferimento, quindi carente di una propria giustificazione estranea allo stesso trasferimento, ex art. 2112, comma 4, c.c., produce la sua estinzione e fa sì che il rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie si trasferisca ex art. 2112, comma 1, c.c., in capo al cessionario [119]. Ne deriva che la nullità di un tale licenziamento non coinvolge, a ben vedere, la normativa sui licenziamenti [120]. In una tale prospettiva anche la giurisprudenza più recente lo qualifica nullo [121]. Un’ipotesi diversa, ma convergente negli effetti, è quella che attiene al licenziamento intimato da parte del cedente (o retrocedente) dopo l’avvenuto trasferimento dell’azienda e, quindi, dopo il passaggio ex lege del rapporto di lavoro, garantito dall’effetto legale ex art. 2112 c.c. In quel caso il licenziamento è da considerare tamquam non esset e come tale non assoggettato a oneri di impugnazione da parte del lavoratore, il quale chieda che si accerti la continuità del rapporto alle dipendenze del cessionario [122]. Invece, secondo un altro indirizzo il licenziamento è annullabile per difetto di giustificato motivo, in quanto l’art. 2112 c.c. non statuisce un divieto di licenziamento [123]. In quel caso la Corte ha statuito che il licenziamento intimato in vista di una futura fusione societaria – non ancora attuale al momento del recesso – concretizza l’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto ex art. 18, comma 7, St., con conseguente applicazione della sanzione della reintegrazione attenuta. Per quanto sopra osservato questo indirizzo non pare esente da critiche. Si segnala altresì che in ordine a un licenziamento collettivo intimato durante il periodo [continua ..]
A questo punto vogliamo dar conto del recente intervento della Corte costituzionale sulla normativa in tema di licenziamento nullo dettata dall’art. 2 del d.lgs. n. 23/2015. Con sentenza 22 febbraio 2024, n. 22, la Corte ha espunto dal testo dell’articolo citato l’avverbio “espressamente”, riferito, come già abbiamo notato in precedenza, alle altre ipotesi di nullità del licenziamento da individuare [130], tanto da aprire a nuovi interventi della giurisprudenza ovviamente anche di legittimità. L’intervento della Consulta parte dal presupposto della correttezza dell’orientamento giurisprudenziale più restrittivo, teso cioè a individuare ipotesi di licenziamento nullo soltanto nel caso in cui la nullità fosse appunto “espressamente” prevista dalla legislazione. Quindi, osserva la Corte, l’avverbio “espressamente” assume un peso particolare perché svolge una funzione selettiva di limitazione alle nullità testuali, con esclusione di quelle virtuali [131]. Il vizio riscontrato è quello dell’eccesso di delega, in violazione dell’art. 76 Cost., in quanto la legge delega imponeva la reintegrazione per i licenziamenti nulli, senza possibilità di limitarne il raggio di applicazione, vale a dire senza differenziare il regime rimediale applicato in ragione del carattere ‘testuale’, ‘strutturale’, ‘funzionale’ o ‘virtuale’ della invalidità del recesso [132]. Tale criterio direttivo risulta pertanto violato. La Corte statuisce dunque che: «il regime del licenziamento nullo è lo stesso, sia che nella disposizione imperativa violata ricorra anche l’espressa e testuale sanzione della nullità, sia che ciò non sia espressamente previsto, pur rinvenendosi il carattere imperativo della prescrizione violata e comunque “salvo che la legge disponga diversamente”. Occorre, però, pur sempre che la disposizione imperativa rechi, in modo espresso o no, un divieto di licenziamento al ricorrere di determinati presupposti».
In seguito alla sentenza le ipotesi di nullità c.d. virtuale di licenziamento entrano dunque, senza più dubbi, nel raggio di applicazione dell’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 23/2015, con la conseguente applicazione della sanzione della reintegrazione piena. Un primo effetto apprezzabile sul piano sistemico è quello di ridurre lo spazio per la c.d. tutela reale di diritto comune, utilizzata spesso – come si è dato conto anche nel corso della presente analisi – come una sorta di valvola di sfogo da mettere in campo in casi dubbi, ma che resta di difficile maneggiabilità, proprio in quanto contrapponibile alle tutele solo indennitarie. Contribuire, invece, a rimarcare la specialità e, quindi, l’autosufficienza delle tutele lavoristiche sembra un risultato rilevante, che ne conferma il valore. La questione, tuttavia, non può dirsi del tutto risolta, giacché se la formula restrittiva fondata sulla nullità solo “espressamente” prevista poteva condurre a escludere alcune ipotesi meritevoli di quella apposita tutela, ora emerge il problema opposto, cioè quello di selezionare le ipotesi, pena un eccessivo loro ampliamento. Evidentemente proprio in quanto virtuali tali nullità vanno identificate in via interpretativa, tanto da richiedere criteri fermi da utilizzare. La Corte pone al riguardo, come notato, il filtro della connessione della norma imperativa con un divieto, espresso o meno. Quindi, per desumere la presenza di una ipotesi di nullità del licenziamento, questo deve violare una norma che tale divieto esprime. Il divieto, dunque, rimarca il carattere peculiare di quella determinata normativa, da ritenere posta a tutela di interessi di più alto grado rispetto a quelli normalmente sottesi alla mera mancanza di giustificazioni del recesso datoriale. A questo punto svolgiamo qualche considerazione che viene a saldarsi con quanto osservato in precedente in generale sulla nullità virtuale nel diritto civile e sui suoi caratteri [133]. Ora, il diritto del lavoro è il luogo della inderogabilità, è costruito sulla norma inderogabile. Per questo motivo l’assunto del diritto civile per cui la norma imperativa è quella non derogabile dai privati non può essere accolto, giacché verrebbe a comprendere l’intero impianto della normativa lavoristica, tranne rari [continua ..]
Nel descritto quadro problematico, la stessa Corte offre un elenco di ipotesi significative in cui mancherebbe un’espressa previsione della nullità: il licenziamento in periodo di comporto per malattia in violazione dell’art. 2110 c.c.; il licenziamento per motivo illecito art. 1345 c.c., quale quello ritorsivo del dipendente (il c.d. whistleblower) che segnala illeciti commessi dal datore di lavoro [140]; il licenziamento intimato in violazione del “blocco” dei licenziamenti economici durante il periodo emergenziale [141]; il licenziamento intimato nei confronti di lavoratori che non rispettano le regole sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali [142]; il licenziamento in violazione del diritto alla conservazione del posto in favore di tossicodipendenti durante l’esecuzione del trattamento riabilitativo [143]. A queste ipotesi possiamo intanto aggiungerne altre ascrivibili certamente a casi invece di nullità testuale, in quanto appunto la nullità è espressamente disposta dalla legge. Queste si aggiungono a quelle già previste dalle normative vigenti sul licenziamento o comunque ai casi cui quelle rinviano (come le ipotesi di discriminazione) che abbiamo analizzato. Possiamo segnalare: il licenziamento conseguente alla richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro part-time per patologie proprie o dei familiari alle condizioni previste dalla legge [144]; il licenziamento conseguente alla richiesta di fruizione delle priorità previste dalla legge per l’applicazione del lavoro agile [145]; il licenziamento del lavoratore sieropositivo [146]; inoltre un altro caso di nullità testuale è quella declinata nell’ambito della normativa in tema di chiusura di stabilimenti con almeno 250 dipendenti. In questo caso i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo e i licenziamenti collettivi intimati in violazione dei previsti obblighi di comunicazione sono considerati espressamente nulli [147]. Infine, tra le ulteriori ipotesi che potrebbero ascriversi, invece, a casi di nullità virtuale, anche sulla base di quanto già osservato in precedenza, possiamo segnalare: il licenziamento del lavoratore che rivendica i propri diritti di informazioni sul suo rapporto di lavoro [148]; il licenziamento a motivo del trasferimento d’azienda o di [continua ..]
Dalla valutazione complessiva degli interessanti interventi della giurisprudenza di legittimità in ordine al licenziamento nullo possiamo trarne un giudizio positivo, formulato in base al generale apprezzamento dell’equilibrio ivi mostrato. Allo stesso tempo, dalla messe di interventi vagliati emerge un dato già percepito, cioè quello di un tendenziale allargamento dell’area di applicazione della tutela forte, cioè della reintegrazione, pur con le sue modulazioni. Dall’esame delle sentenze emerge l’impressione, quindi, che nella valutazione della fattispecie concreta la forte percezione del disvalore del licenziamento illegittimo abbia sovente aperto la strada all’accertamento di motivi “altri” rispetto alla mera mancanza di giusta causa e giustificato motivo, con il riscontro di ipotesi ascrivibili alla nullità del licenziamento, con conseguente riconoscimento della tutela massima possibile. Si tratta di un esito che resta da apprezzare, in quanto si può notare un’attenzione al materiale probatorio che valga a approfondire il contesto entro il quale il licenziamento ha avuto luogo, rendendo in tal modo rilevanti circostanze [154] utili al giudice per inquadrare la fattispecie concreta nelle ipotesi previste dalla legge. Il licenziamento è per sua natura fattispecie “intrisa di fatto”, come scriveva Antonio Vallebona, citando Angelo Falzea. Il procedimento sillogistico di riconduzione della fattispecie concreta a quella astratta si sviluppa entro un panorama sconfinato, quello delle vicende e dei rapporti umani che nel momento della fine di un rapporto di lavoro acquistano maggiore intensità rispetto al normale procedere degli eventi. Una chiosa sulla tutela massima della reintegrazione alla quale conducono le ipotesi di nullità non può mancare. È ormai da tempo diffusa l’opinione, suffragata dai dati empirici degli esiti delle controversie giudiziarie, che la reintegrazione sia una sanzione ineffettiva quanto al suo grado di concreta applicazione, cioè di ripristino del rapporto di lavoro in azienda, data la ancora indiscussa incoercibilità degli obblighi di fare, traducendosi in una sua monetizzazione [155]. Tuttavia, resta fermo che la reintegrazione vale a tenere alto il valore del licenziamento illegittimo, tanto da tradursi in una sorta di tutela super obbligatoria, che cioè [continua ..]