Il contributo ripercorre l’evoluzione normativa della parità di genere nel corso del '900, soffermandosi sulla regolazione del ventennio fascista e sulle sue conseguenze sul piano culturale, riscontrabili nella produzione normativa successiva. L’obiettivo è di fare emergere come, ad una rinnovata cultura sui diritti delle donne al lavoro e sul lavoro (favorita dalla Costituzione), non sia seguita una corrispondente cultura di genere dei vertici aziendali e degli stessi legislatori degli ultimi decenni.
The contribution traces the legislative evolution of gender equality during the '900s, dwelling on regulation of the fascist period and on its consequences on the cultural level, found in the subsequent lawmaking. The aim is to bring out how the new renewed culture on women’s rights at work (favoured by Italian Constitution), does not find a corresponding gender culture of business leaders and legislators themselves in recent decades.
1. Introduzione - 2. Gli anni dei mestieri negati - 3. La lenta riemersione post-costituzionale - 4. I continui aggiustamenti tra protezione, promozione e diritto al lavoro - 5. Opportunità lavorative tra prassi consolidate e stereotipi esistenti - NOTE
Quand’anche possa non apparire così evidente, la cultura occidentale è ancor’oggi caratterizzata da un atavico pregiudizio misogino [1]. Anche di recente, nella stampa, si è assistito all’ennesima critica della conquista dell’autonomia della donna (divenuta perciò più “propensa alla separazione coniugale”) ed alla critica dell’emotività femminile che la caratterizzerebbe, rendendola non adatta a certi ruoli [2]. Riecheggia il 1957 quando, con reale convincimento, il Presidente onorario di Cassazione, Eutimio Ranelletti, contribuiva al vivace dibattito sull’accesso delle donne in magistratura con il libro «La “donna giudice”, ovverosia la “grazia” contro la “giustizia”» [3], additandola come «inadatta a valutare, obiettivamente, serenamente, (…) i delitti e i delinquenti», perché «è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica». Il processo di attenuazione di stereotipi e preclusioni lavorative è ancora in corso e testimoniato dal dibattito sul divario salariale femminile, rispetto a quello maschile [4]. E se dunque la condizione delle donne sul mercato del lavoro e nel lavoro è oggettivamente migliorata nel corso degli anni [5], allo smantellamento giuridico della più gran parte delle preclusioni nell’accesso a mestieri o mansioni non è seguito, con la stessa efficacia, quello di riduzione dei preconcetti e pregiudizi, talvolta addirittura accentuati in contesti culturali multietnici. Ed in effetti è al riguardo interessante ricordarne l’evoluzione normativa nel corso del ’900, constatando la particolarità di un percorso di cambiamento regolativo (nella direzione del contrasto alle discriminazioni di genere nel lavoro) a cui raramente, nei contesti normati (e ancor meno in quelli non normati, come i luoghi degli “affetti”), ha fatto seguito un mutamento nell’approccio culturale verso la donna e il suo contributo materiale; approccio ben spesso rimasto conformato a letture ancestrali e maschiliste dei datori di lavoro, talvolta perfino rafforzate da convincimenti o tradizioni religiose, dalla cultura sociale o etnica di appartenenza o provenienza. [continua ..]
Il convincimento dell’inferiorità “naturale” e della maggiore debolezza fisica della donna è la ragione che, senza troppi nascondimenti, ha nei secoli legittimato numerose normative, da quella sull’autorizzazione maritale [6] e la patria potestà, a quelle sulle soglie inferiori di salario femminile, affiorando in maniera ancora evidente negli interventi normativi dello Stato liberale. Non è un caso che il dibattito alla Costituente [7] attorno all’art. 37 Cost. ne risenta, e quindi questo finisca per unire, in un’unica norma, le donne e i minori, quand’anche il criterio guida dell’accorpamento (la particolare “debolezza”) resti oscurato dalla lettura ammodernata che della norma è stata fatta negli anni a venire. A sostegno del convincimento circa la naturale inferiorità delle donne, bastino due esempi. All’art. 125 del r.d. 1° agosto 1901, n. 399 [8] si stabiliva che i titolari delle rivendite di Sali e Tabacchi, ove incorsi in malattia, avrebbero potuto scegliere di farsi rappresentare da un idoneo commesso, a differenza delle donne (e degli orfani) che nelle medesime circostanze avrebbero dovuto necessariamente farsi sostituire. L’art. 65 del r.d. 24 dicembre 1911, n. 298 [9], in tema di spostamento della persona detenuta da un luogo all’altro, disponeva invece che «la persona tradotta [dovesse] essere sempre assicurata con ferri prescritti, ad eccezione delle donne, dei vecchi, dei fanciulli e degli individui che per le loro infermità facciano ritenere superflua tale precauzione». Fino agli anni ’20-’30 la produzione normativa è così stata finalizzata prevalentemente alla protezione materiale, dell’integrità fisica della donna (a difesa, e sul presupposto, della condizione di maggior debolezza). Nel 1902, all’esito di un vivace dibattito politico, la “legge Carcano” (n. 242 del 19 giugno), oltre a limitare il potere di sfruttamento su base oraria giornaliera del personale addetto alle lavorazioni (quindi anche femminile, con una limitazione del lavoro notturno per le donne minorenni), escluse la manovalanza femminile da lavori sotterranei, perché ritenuti particolarmente defatiganti e pericolosi, approntando una prima, embrionale, tutela delle lavoratrici madri [10], per quanto limitata al lavoro prestato in [continua ..]
La caduta del corporativismo portò cambiamenti rilevanti, in anticipazione delle previsioni di parificazione (formale) che l’art. 37 Cost. avrebbe infatti favorito. Il d. cp. st. del 10 luglio 1947, n. 675, ammise ad esempio le donne ai concorsi previsti per il personale del Ministero del commercio con l’estero (art. 8). Su altro versante, l’ancor precedente r.d.l. del 4 giugno 1944, n. 186 – poi riscritto dal d.lgs.lg. del 12 aprile 1945, n. 239 – soppresse invece il divieto per le donne di impartire alcuni insegnamenti e di assumere alcuni uffici direttivi negli istituti di «istruzione media di primo e secondo grado, di istituti medi pareggiati, di scuole o istituti di istruzione media tecnica»; previde la possibilità di insegnamento di materie prima escluse nei «licei di istruzione tecnica»; ammise le donne agli esami di abilitazione a tali insegnamenti, ai concorsi a tali cattedre, nonché alla nomina ad assistente negli istituti tecnici industriali e a segretario degli istituti e nelle scuole tecniche industriali, commerciali ed agrarie. Ma il pregiudizio era ancora duro a morire, in ragione dell’approccio culturale che si era nel frattempo formato negli anni del ventennio fascista in conseguenza della regolazione normativa. Tale pregiudizio accompagnò la riapertura all’insegnamento delle donne con l’invito rivolto alle insegnanti (d.lgt. del 24 maggio 1945, n. 459, allegato 5) di tenere presente, nell’impartire gli insegnamenti alle alunne, che l’economia della casa è principalmente affidata alle donne e che pertanto vanno incoraggiate (e non disdegnate) «forme di lavoro femminile più modeste, quali il rattoppo e il rammendo, perché (…) di grande utilità nella vita famigliare». Il progressivo rientro delle donne nei lavori preclusi, anche successivamente al 1948, continuava a palesare risacche di pregiudizi ed esclusioni talvolta del tutto immotivate e non aderenti al precetto costituzionale, ma frutto di quell’approccio culturale mediato dalle riforme fasciste. Tale fu il caso del d.lgs. 7 maggio 1948, n. 557 che riammise le donne ai concorsi per il personale tecnico di vigilanza presso l’Ispettorato generale della motorizzazione civile e dei trasporti, escludendole tuttavia dai concorsi per l’accesso ai gradi più elevati (art. 2). Ugualmente, la legge 18 ottobre [continua ..]
Alle rigide preclusioni normative per l’accesso alle attività lavorative, si sono negli anni accompagnate limitazioni per specifiche mansioni o compiti, motivate dallo stato di gravidanza o puerperio della lavoratrice oppure da ragioni di pericolosità o insalubrità dell’attività richiesta. Sotto il primo frangente, fin dal periodo liberale la tutela della maternità ha costituito il nocciolo duro di misure dirette ad impedire l’adibizione a mansioni comportanti un rischio per la madre e il nascituro. La disciplina regolativa è in particolare transitata da provvedimenti quali la legge 26 agosto 1950, n. 860; il d.P.R. 21 maggio 1953, n. 568; la legge 30 dicembre 1971, n. 1204; il d.P.R. 25 novembre 1976, n. 1026; il d.lgs. 25 novembre 1996, n. 645, fino al d.lgs. n. 151 del 26 marzo 2001, il cui art. 7 ha previsto il divieto assoluto di impiegare le donne al trasporto e sollevamento pesi e comunque in lavori pericolosi, faticosi o insalubri, dall’accertamento dello stato di gravidanza fino al settimo mese di vita del bambino. Lavori peraltro tassativamente elencati in apposita tabella inserita in calce al d.P.R. n. 1026 del 25 novembre 1976 e richiamata dal TU del 2001, che comunque aggiunge l’opportunità per «il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri della sanità e per la solidarietà sociale» e sentite le parti sociali, di aggiornare l’elenco con lavorazioni o impieghi che in virtù dell’evoluzione tecnologica o scientifica si ritengano di escludere. Tra tali limitazioni del TU, peraltro, si dà per riconosciuta la pericolosità del lavoro operativo per le appartenenti alla Polizia di Stato, al Corpo di Polizia penitenziaria e a quello della Polizia municipale, mentre per il personale militare femminile (art. 10) – fino all’abrogazione ad opera dell’art. 2268, comma 1, n. 994 del d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 – la valutazione andava rimessa al Ministero della difesa. Sul secondo versante, il d. lgt. 31 dicembre 1915, n. 1910, ancora vigente [24], individua nel Consiglio superiore di sanità l’organo tributato a conferire parere sui lavori «pericolosi, faticosi o insalubri» cui confrontare le concrete modalità di impiego di donne e minori. Qualche anno più tardi, il r.d. 7 agosto 1936, n. 1720, anch’esso ancora in [continua ..]
Il lavoro femminile si fonda ormai su regolazioni che assicurano diritti (formalmente) paritari, ma continua a poggiare su di un substrato culturale (datoriale) che non agevola l’accesso delle donne in determinati mestieri o professioni, a prevalente appannaggio maschile. Gli ambiti sono noti ed attengono alla politica, al sindacato, agli alti vertici dirigenziali (sia nelle imprese private che presso le Pubbliche Amministrazioni) ovvero ad impieghi che implicano elevati poteri gestionali. Il pregiudizio è duro a morire [31] e lo smantellamento richiederà ancora del tempo, per quanto siano passati decenni da quando la stessa Consulta non rilevava un vizio di costituzionalità della disciplina (legge n. 1441/56) che limitava al numero di tre unità la partecipazione delle donne ai Collegi delle Corti di Assise, «(…) in quanto la limitazione numerica risponde non al concetto di una minore capacità delle donne, ma all’esigenza di un [non meglio dedotto] più appropriato funzionamento dei collegi stessi» [32]. D’altro canto, e pur dopo l’emanazione della legge n. 125/1991 sulle azioni positive [33], anche Corte Cost. n. 422/1995 [34] riscontrava, questa volta, l’illegittimità della legge n. 81/1993 che disponeva affinché «(…) nelle liste dei candidati nessuno dei due sessi [potesse] essere di norma rappresentato in misura superiore ai due terzi». È ben noto come il divario retributivo, che costituisce un dato più che eloquente a rappresentare il pregiudizio di genere dei datori di lavoro, non sia più addebitabile a vizi o limiti regolativi (quand’anche la normativa regolativa del divieto di discriminazioni economiche tra uomini e donne è acquisizione “recente”, i cui primi pilastri sono stati posti soltanto a partire dalla legge 15 settembre 1964, n. 556). Così come non esiste, ancora oggi, un allineamento proporzionale dei dati sulla mobilità verticale delle donne rispetto all’invece crescente livello culturale acquisito dalle stesse [35]. Aspetto che sconta, ancora adesso ed ancora una volta, la scarsa efficacia del sistema di classificazione del personale ben spesso adottato dalle parti sociali [36]. Le prospettive di intervento vanno tuttavia nella direzione di una (ri)valorizzazione del tema nel contesto europeo e nazionale. Tra [continua ..]