Il saggio affronta alcune questioni essenziali che derivano dalla recente riforma del trasferimento dell’azienda in stato di insolvenza. Le criticità della nuova disciplina, per molti aspetti ancora irrisolte, vengono analizzate alla luce dell’evoluzione normativa, sia nazionale che europea. In particolare, il contributo intende evidenziare come la originaria disciplina nazionale dello stato di crisi, quale presupposto di accesso alla integrazione salariale, abbia profondamente e irrazionalmente influenzato, sul piano del diritto positivo quanto su quello interpretativo, la regolazione della cessione dell’azienda, nonostante quest’ultima riguardi situazioni giuridiche assai differenti.
The essay addresses some essential issues arising from the recent reform of the transfer of the undertaking in case of the insolvency of the enterprise. The critical issues of the new discipline, in many aspects still unresolved, are analyzed in the light of both national and European regulatory developments. In particular, the contribution aims to highlight how the original national regulation of the state of crisis, as a prerequisite for access to wage supplementation fund, has profoundly and irrationally influenced, on the level of positive law as much as on the level of interpretation, the regulation of the transfer of the undertaking, despite the fact that the latter concerns very different legal situations.
1. Impresa insolvente, cessione dell’azienda e valore del lavoro - 2. Danni storici: il recepimento della direttiva n. 77/187 con la legge n. 215/1978 - 2.1. Alla radice di ogni questione: i lavori preparatori sulla duplice estensione della originaria disciplina in deroga per lo stato di crisi - 2.2. Il trittico del 1991: sezioni unite, cigs concorsuale, caso D’Urso - 2.3. Gli effetti indiretti della sentenza Spano e i loro riflessi sull’evoluzione normativa - 3. La finalità della procedura d’insolvenza e la torsione del diritto positivo sulla casistica giudiziale - 3.1. Modalità di svolgimento della procedura e controllo dell’autorità pubblica - 3.2. Il problema della continuazione dell’attività dell’impresa insolvente - 4. La funzione dell’accordo derogatorio nelle procedure liquidative: rivoluzione o riformulazione? - 4.1. Il difficile coordinamento sistematico e intertemporale della disciplina separata per l’amministrazione straordinaria - 4.2. Trasferimento e continuazione dei rapporti di lavoro - 5. La cessione dell’azienda dell’impresa in stato di crisi: due nozioni e nessuna deroga - NOTE
È opinione diffusa nella dottrina giuslavorista che, a seguito delle riforme introdotte dal Codice della crisi e insolvenza (da ora c.c.i.i.), la tradizionale impermeabilità tra il diritto del lavoro e quello concorsuale sia venuta meno, inverando almeno in parte le istanze di prevalenza, costituzionalmente orientata se non proprio necessitata, di tutela del lavoro “sulle pur importanti finalità alle quali è diretta la disciplina del fallimento” [1]. In questa nuova dimensione valoriale, ispirata a riletture solidaristiche del fenomeno [2], si collocherebbero anche le nuove regole sul trasferimento dell’azienda nell’ambito delle procedure di insolvenza, rispetto alle quali “il principio di continuità si conferma il fulcro paradigmatico della disciplina dei mutamenti soggettivi nella titolarità dell’azienda in crisi” [3]. La prospettiva va sostanzialmente condivisa, ma non esime dal rilevare che, rispetto allo specifico tema qui trattato, persistono ampi margini di incertezza sia a livello concettuale, sia di carattere interpretativo per molti aspetti oggetto del più recente intervento legislativo. Il tema è innegabilmente incentrato sulla complessa relazione tra l’interesse alla conservazione dell’occupazione e i sacrifici che, in termini di tutele del lavoro, possono ammettersi per conseguire quell’interesse. Peraltro tali sacrifici hanno una funzione ambivalente, perché da un lato contribuiscono a favorire la stessa circolazione dell’azienda e, dall’altro, consentono una migliore soddisfazione dei creditori della procedura, tra cui gli stessi lavoratori interessati dalla cessione. L’idea che la tutela dell’occupazione debba comunque prevalere su ogni altro bene di rilevanza costituzionale (proprietà, impresa, risparmio), sposta l’asse del bilanciamento, ma merita alcune considerazioni preliminari rispetto allo stesso “valore” lavoro, il quale non può essere assunto come estraneo agli interessi dei creditori soltanto perché i crediti di lavoro subordinato sono parzialmente protetti dal sistema previdenziale. Innanzitutto, la soddisfazione dei crediti delle imprese concorre comunque a preservare l’occupazione dei loro dipendenti. Occorre dunque chiedersi fino a che punto tale interesse possa essere trascurato, nelle soluzioni legislative [continua ..]
Il testo originario dell’art. 2112 c.c. – pur subendo l’incidenza della sopravvenuta disciplina limitativa dei licenziamenti rispetto al potere di “disdetta” riconosciuto al cedente in occasione del trasferimento – per molto tempo era rimasto insensibile al tema delle procedure concorsuali, in linea con la complessiva relazione tra il diritto del lavoro e il diritto fallimentare. Anche la direttiva n. 77/187/CEE ignorava il problema, non contenendo alcuna previsione al riguardo, salva la tipica e generale facoltà degli Stati membri di introdurre disposizioni più favorevoli ai lavoratori. Infatti la prima pronuncia della Corte di Giustizia in materia, relativa ad una peculiare procedura concorsuale propria del diritto olandese, rimarcava la specificità del diritto fallimentare presente in tutti gli ordinamenti nazionali, ed anzi osservava, secondo il criterio ubi voluit dixit, che “se la direttiva fosse stata destinata ad applicarsi anche ai trasferimenti di imprese effettuati nell’ambito di siffatti procedimenti, vi sarebbe stata inserita all’uopo una disposizione espressa” [10]. Quella stessa pronuncia, tuttavia, introduceva l’essenziale criterio distintivo incentrato sulla finalità perseguita dal procedimento, precisando che qualora essa sia “anzitutto la salvaguardia del patrimonio ed eventualmente il proseguimento dell’attività dell’impresa” il trasferimento d’azienda ricade comunque nell’applicazione della direttiva [11]. Da qui la frastagliata elaborazione di un orientamento giudiziale che, a livello sovranazionale, costituirà le premesse per la riforma del diritto positivo comunitario. Nel frattempo, l’Italia comunicava di avere provveduto al recepimento della direttiva mediante la legge n. 675/1977 ed il d.l. n. 80/1978, conv. legge n. 215/1978 [12]. La prima normativa demandava al CIPI l’accertamento della “sussistenza, ai fini della corresponsione del trattamento previsto dall’articolo 2 della legge 5 novembre 1968, n. 1115 e successive modificazioni, di specifici casi di crisi aziendale” (art. 2, comma 5, lett. c, legge n. 675/1977). La seconda – resasi necessaria per ovviare alla rigidità della disciplina della mobilità introdotta dalla prima [13] – incaricava gli uffici regionali del lavoro “ove si profilino [continua ..]
Senonché, nell’ottemperare agli obblighi comunitari con la legge n. 428/90, nel quinto comma dell’art. 47 il legislatore italiano non solo riproponeva, con identica formula strutturale, la deroga alla disciplina ordinaria del trasferimento d’azienda per l’ipotesi di crisi aziendale, ma estendeva tale deroga sia per l’oggetto – riferendola all’intera disciplina dell’art. 2112 c.c., contestualmente modificata dall’allora terzo comma dell’art. 47 – sia per l’ambito di applicazione. Infatti allo stato di crisi si aggiungevano le “imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all’amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”. L’equivocità di tale duplice estensione – di certo non richiesta dal diritto comunitario in quel momento vigente, che esigeva solo l’allineamento della disciplina ordinaria – è ricavabile con altrettanta chiarezza dalla fondamentale disamina dei lavori preparatori. Infatti l’originario art. 10, d.d.l. 585-ter del 3 agosto 1988 (poi confluito nell’art. 24, comma 4, d.d.l. 583-ter-B, ma soppresso nel testo approvato dalla Camera per l’adozione della legge n. 223/1991), prevedeva che “qualora il trasferimento riguardi aziende o unità produttive delle quali il CIPI abbia accertato lo stato di crisi aziendale a norma dell’articolo 2, quarto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675, o che si trovino nelle condizioni previste nell’articolo 2 della presente legge, e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell’occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l’acquirente non trova applicazione il primo comma dell’articolo 2112 del codice civile, salvo che dall’accordo non risultino condizioni di miglior favore”. La norma, dunque, era esattamente corrispondente a quella dell’art. 1, comma 3, legge n. 215/1978, mentre le imprese individuate col rinvio all’art. 2, comma 1, d.d.l. 583-ter (relativa alla c.d. cigs concorsuale) erano [continua ..]
L’anno seguente alla riforma del 1990 tre eventi, sostanzialmente contestuali, contribuivano all’evoluzione, sul piano interpretativo, del quinto comma dell’art. 47. Innanzitutto, le sezioni unite concorrevano a rinsaldare, in tema di trasferimento d’azienda, l’equiparazione tra le discipline concorsuali e l’istituto della integrazione salariale. Si affermava, infatti, che ai fini dell’applicabilità dell’art. 1, comma 3, legge n. 215/1978, non era necessario che la dichiarazione di crisi fosse successiva al trasferimento e all’accordo sindacale. In questo modo la scansione causale-temporale tra i due atti veniva allineata a quella appena introdotta anche per le procedure d’insolvenza (“… e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo …”) espressamente assunta a paradigma nell’interpretazione del giudice di legittimità [18]. Nella medesima statuizione si chiariva, inoltre, che lo schema prefigurato dalla legge n. 215/1978 delineava “un sistema caratterizzato dalla istituzionalizzazione del concorso della volontà della pubblica amministrazione con la volontà espressa dalle associazioni sindacali contrapposte, in cui la inoperatività delle disposizioni di cui al primo comma dell’art. 2112 del codice civile presuppone sia il provvedimento amministrativo di dichiarazioni di crisi, sia l’esistenza di un accordo tra le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”. La regola era quindi individuata nella necessaria combinazione dei due atti (pubblico e privato collettivo), secondo un’interpretazione unanimemente condivisa in dottrina [19]. Poco prima, con il varo della cosiddetta “cassa integrazione concorsuale”, il legislatore non si preoccupava soltanto di stabilizzare la relazione tra integrazione salariale e procedure d’insolvenza (art. 3, comma 1, legge n. 223/19991) [20], ma regolava anche la proroga dell’integrazione nell’ipotesi in cui sussistessero “fondate prospettive di continuazione o ripresa dell’attività e di salvaguardia, anche parziale, dei livelli di occupazione tramite la cessione, a qualunque titolo, dell’azienda o di sue parti” (art. 3, comma 2). A ben vedere quest’ultima disposizione, che costituiva la riproposizione di quanto originariamente previsto [continua ..]
Quell’equilibrio era invece potenzialmente compromesso dalla successiva sentenza Spano [26]. In effetti, la questione interessava la generale disciplina della cassa integrazione, rispetto alla quale la Corte di Giustizia perveniva alla conclusione per cui la dichiarazione dello stato di crisi dell’impresa adottato ai sensi dell’art. 2, comma 5, lett. c), legge n. 675/1977, essendo “volto a consentire il risanamento della sua situazione economica e finanziaria, ma soprattutto al mantenimento dell’impiego … lungi dal tendere alla liquidazione dell’impresa, mira al contrario a favorire la prosecuzione della sua attività nella prospettiva di una futura ripresa”. Sul piano dell’interpretazione normativa, questa pronuncia determinava l’espunzione dello stato di crisi aziendale dalla disciplina del quinto comma dell’art. 47, che a quel punto risultava incentrata esclusivamente sulla tipizzazione di procedure d’insolvenza. Senonché, quelle stesse procedure erano caratterizzate dal possibile accesso all’integrazione salariale. A ben vedere, pertanto, il problema di compatibilità con la direttiva, ancora silente sul tema, non era di per sé rappresentato dalla continuazione o meno dell’attività dell’impresa in dissesto, ricavata da una sorta di vis attrattiva della regolazione speciale dell’amministrazione straordinaria, quanto dalla funzione che il giudice comunitario assegnava, correttamente, all’istituto della cassa integrazione rispetto allo stato di crisi. Per scongiurare l’implicita abrogazione del quinto comma dell’art. 47 in ogni caso di ricorso alla cigs concorsuale, era dunque necessario predicare – all’interno del circuito della mobilità [27] – la natura perlomeno peculiare di quell’ammortizzatore, in quanto caratterizzato dalla c.d. automaticità e giustificato dall’idea che la tutela dell’occupazione, anche solo “parziale” come previsto dal secondo comma dell’art. 3, legge n. 223/1991, non coincidesse necessariamente con il risanamento dell’impresa [28]. Per altro verso, è più che plausibile che le successive e note distorsioni nell’utilizzo dell’integrazione salariale (anche) nell’ambito delle procedure di insolvenza abbiano generato una commistione concettuale con il distinto [continua ..]
La prima questione si pone al cuore della disciplina e interessa la macro-distinzione, come detto riconducibile alla giurisprudenza della Corte di Giustizia, tra procedure con finalità liquidatoria e, rispettivamente, conservativa. In questa prospettiva, si può comprendere lo sforzo del legislatore italiano di ripartire le varie procedure in gruppi caratterizzati da queste distinte finalità, così assoggettandoli a diverse discipline in linea con le integrazioni apportate alla direttiva nel 1998. C’è da chiedersi, tuttavia, se (e nel caso in quale modo) la soluzione nazionale riesca davvero a soddisfare le indicazioni europee. Il fatto è che questo criterio “di scopo”, peraltro elaborato e poi vagliato dalla Corte di Giustizia in relazione a differenti procedure, regolate in altri Stati membri per via legislativa o anche solo giudiziale, non può trovare esatta corrispondenza in una ripartizione ontologica tra le procedure tipizzate dal nostro sistema giuridico [31]. In effetti, il problema già emerge a livello sovranazionale, giacché la disciplina dell’art. 5 della direttiva n. 2001/23 non brilla affatto per chiarezza e – nonostante la opposta e dominante opinione – neanche appare formalmente allineata a quel criterio finalistico. Innanzitutto, la regola di esclusione delle tutele apprestate dagli articoli 3 e 4, cioè quelle trasposte con l’art. 2112 c.c., include ogni procedura di insolvenza “aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente”, incentrandosi su una locuzione (“aperta in vista”) che è finalisticamente ambigua e che, se equivale a quella delle versioni francese (ouverte en vue) e spagnola (abierto con vistas), già si discosta da quella tedesca, in cui emerge il più vincolante concetto di obiettivo (mitdemziel … eroffnet). Questa criticità linguistica è plausibilmente derivata dalla traduzione della versione inglese (with a view to the liquidation), la quale, però, solo apparentemente sembra confermare la corrispondenza della versione italiana. Infatti la medesima locuzione (with a view) si rinviene tanto nella direttiva n. 75/129 quanto nella stessa direttiva n. 77/187, ma in entrambi i casi in relazione all’espletamento delle procedure di informazione e consultazione sindacale, imposte all’impresa rispetto allo specifico scopo di [continua ..]
Questa conclusione, però, ha effetti potenzialmente dirompenti, giacché la valutazione del reale, ed anche solo principale, obiettivo perseguito mediante la cessione (in tutto o in parte) dell’azienda, è influenzata da molteplici fattori. Infatti la questione della disapplicazione delle tutele dell’art. 2112 c.c. non è circoscritta al piano interpretativo delle differenti deroghe consentite alla fonte collettiva – vale a dire ammesse sulla scorta dell’accertata esistenza di una finalità liquidatoria o conservativa (infra, 4) – risultando condizionata, rispetto a quell’accertamento, dalle peculiarità di ciascuna procedura e dalla sua combinazione con gli strumenti negoziali che realizzano il trasferimento (vendita, affitto, retrocessione) [43]. D’altra parte, mentre la disciplina di questi strumenti richiede un’interpretazione adeguatrice alle previsioni dell’art. 47, che dipende anche dalle diverse finalità perseguite, la scelta sul loro utilizzo, che è compiuta in forza di valori di liquidazione mutevoli nel tempo [44], può incidere a monte sulla individuazione della finalità (almeno) prevalente, quando non addirittura sulla stessa configurabilità della cessione di azienda o di un suo ramo [45]. Questi rilievi possono coordinarsi all’aspirazione di “privilegiare le scelte reversibili rispetto a quelle irreversibili” [46] ma sempre sul presupposto che le procedure di insolvenza costituiscono fattispecie di durata. Sicché, anche a prescindere dall’accelerazione dei tempi della procedura auspicata in relazione alla soppressione dell’ammortizzatore ad hoc [47], va pure condivisa la preoccupazione di chi osserva come, quantomeno rispetto ai rapporti sospesi secondo la disciplina dell’art. 189 c.c.i.i., “il tempo destinato alla ricerca di una soluzione traslativa è limitato” [48], mentre un prolungamento dello stato di sospensione induce i dipendenti più qualificati alle dimissioni [49]. Ne deriva che, rispetto alla valutazione della finalità concretamente perseguita, l’attribuzione di un carattere meramente residuale alle modalità di svolgimento della procedura [50] può forse essere affermata nell’ottica dei criteri di accertamento applicabili ex post, ma in un tale quadro di incertezza [continua ..]
Alle problematiche segnalate il c.c.i.i. sembra replicare con una soluzione tranchant, ovvero confermando che, rispetto alle procedure nominalmente liquidative (liquidazione giudiziale, liquidazione coatta amministrativa, concordato con cessione dei beni), le maggiori deroghe ancora consentite dal quinto comma dell’art. 47 si applicano solo “nel caso in cui la continuazione dell’attività non sia stata disposta o sia cessata”. Pertanto si dovrebbe reputare superata la tesi che riferiva quest’ultimo inciso alla sola amministrazione straordinaria [58], per la quale il requisito è comunque ribadito in separata disposizione (comma 5-ter). La scelta sembra porsi in contrasto con un recente approdo del nostro giudice di legittimità [59] ma, soprattutto, ignora completamente le ragioni che hanno determinato l’inserimento dell’inciso nel testo del 1990 (supra, § 2.1). Tuttavia come norma di disciplina la previsione può apparire legittimata dalla ricordata facoltà degli Stati membri di introdurre disposizioni di maggior tutela per i lavoratori. Nondimeno, residuano molte perplessità sulla razionalità giuridica della soluzione. Innanzitutto, c’è da chiedersi se essa sia frutto di una ponderata riflessione piuttosto che l’esito di un’impropria generalizzazione del caso D’Urso. Quest’ultimo, infatti, va distinto dal successivo orientamento della stessa giurisprudenza europea, che si riferisce alla prosecuzione dell’attività da parte del cessionario, sempre con ampio ricorso alla tecnica dell’auto-citazione [60]. Pertanto l’idea che tra la continuazione dell’attività da parte dell’impresa insolvente e la finalità conservativa della procedura, benché nominalmente liquidativa, intercorra un collegamento indefettibile – nonostante nelle modifiche della direttiva tale collegamento non abbia riscontri positivi – avrebbe imposto maggiori riflessioni e, semmai, un nuovo coinvolgimento della Corte di Giustizia. D’altra parte, mentre per l’amministrazione straordinaria l’art. 47 reitera la disciplina dicotomica incentrata sulla continuazione o meno dell’attività (commi 4-bis e 5-ter), alimentando ancora il dubbio che tale distinzione possa identificarsi con quella fondata sulle causali dell’art. 27, legge n. [continua ..]
La seconda questione riguarda la funzione assegnata all’accordo sindacale per realizzare il processo di convergenza verso la continuazione dei rapporti, perseguito dalla riforma con la riscrittura dei commi 4-bis e 5 dell’art. 47. L’interpretazione restrittiva della Cassazione sul significato del precedente testo del comma 4-bis deve essere condivisa, perché è sicuramente conforme a quanto impone l’art. 5, par. 2, lett. b), della direttiva rispetto a procedure di carattere conservativo e quindi, ratione temporis, anche rispetto alle situazioni di grave crisi regolate dal successivo par. 3 mediante rinvio a quella disciplina [72]. Invece rispetto all’evoluzione normativa del quinto comma persistono rilevanti perplessità. Riserve vanno infatti espresse, non solo sul piano della tecnica argomentativa, nei confronti dell’affermazione per cui, ai fini della differenziazione con le procedure a carattere liquidatorio, “assumerebbe … centralità dirimente l’espressione, di cui al comma 4-bis, secondo cui “trova applicazione” l’art. 2112 c.c., diametralmente opposta a quella contenuta nel comma 5, secondo cui “non trova applicazione” l’art. 2112 c.c.”. In effetti, questa considerazione lascerebbe ipotizzare che nell’ipotesi del vecchio quinto comma, purché in presenza di un accordo sul mantenimento parziale dell’occupazione, la disapplicazione dell’art. 2112 c.c. costituisse un effetto legale, restando nella facoltà dell’accordo sindacale la reintroduzione, in tutto o in parte, di tutele in favore dei soli lavoratori passati alle dipendenze del cessionario, come pure ampiamente sostenuto in dottrina [73]. Tuttavia la conclusione non è così ovvia. Il fatto è che, dinanzi ad una disposizione che necessitava di disambiguazione, la stessa pronuncia non offre risposte univoche, peraltro sovrapponendo i distinti piani della continuazione del rapporto e delle tutele applicabili ai lavoratori che beneficiano di tale passaggio. Ed invero, sotto questo secondo profilo l’affermazione per cui “il principio generale è (per i lavoratori trasferiti alle dipendenze del cessionario) l’esclusione delle tutele di cui all’art. 2112 c.c., salvo che l’accordo preveda condizioni di miglior favore” contrasta all’evidenza con quella per cui [continua ..]
Il quadro interpretativo appena ricostruito è però potenzialmente stravolto dalla scelta del c.c.i.i. di regolare separatamente l’amministrazione straordinaria senza continuazione dell’attività aziendale. Al di là delle perplessità già espresse a seguito della riforma del 1999, per tale procedura è stata infatti confermata, in un nuovo comma 5-ter, la disciplina del precedente testo del quinto comma per la regolazione della cessione dell’azienda. La collocazione dell’amministrazione straordinaria in una distinta e autonoma disposizione, identica a quella già esistente, riapre il dibattito sul significato attribuibile a quest’ultima. Invero, se la attuale versione del quinto comma costituisse soltanto una variante esplicativa del significato proprio di quella originaria, la conferma di quest’ultima versione in una nuova disposizione e per la sola procedura in esame resterebbe priva di giustificazione. Nonostante persistano tutti i dubbi già riferiti sull’irrazionale evoluzione del contesto normativo, questa scelta legislativa sembra quindi riaffermare che il meccanismo originario si incentrava sulla disapplicazione automatica delle tutele dell’art. 2112 c.c. Non a torto, dunque, si insiste nel dire che il vero rovesciamento strutturale avrebbe riguardato il quinto comma dell’art. 47 [85], con ovvie implicazioni rispetto alle procedure pendenti. D’altronde, in questa prospettiva va anche valorizzato il mancato riferimento, nel comma 5-ter, al necessario intervento con finalità di salvaguardia dell’occupazione di contratti collettivi stipulati ai sensi dell’art. 51, d.lgs. n. 81/2015, come invece previsto nell’attuale quinto comma. Da tanto potendosi dedurre che la riforma intende munire l’intervento sindacale di una più ampia legittimazione solo qualora l’accordo abbia carattere privativo [86], come appunto dovrebbe dirsi per quello adesso contemplato per le altre procedure liquidative. Nella stessa prospettiva di disapplicazione automatica delle tutele dovrebbe deporre la conferma, ad opera del comma 5-ter, della possibilità che l’accordo escluda dal trasferimento il personale eccedentario, così determinando un mantenimento parziale dell’occupazione; mentre la corrispondente disposizione è stata espunta dal nuovo quinto comma, in linea con la [continua ..]
A complicare ancora il quadro interpretativo c’è la scelta del c.c.i.i. di utilizzare due termini differenti rispetto agli spazi di deroga consentiti per procedure con finalità contrapposte. Occorre chiedersi se nell’inciso “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro”, ora inserito nel comma 4-bis, il termine trasferimento vada inteso diversamente dalla continuazione dei rapporti, prevista dal successivo quinto comma. Premesso che la continuazione dei rapporti di lavoro col cessionario non si identifica con la continuazione dell’attività aziendale, di cui semmai costituisce l’effetto qualora essa sia assunta ad elemento costitutivo della fattispecie o ad indice della reale finalità perseguita, è altrettanto evidente che la continuazione del singolo rapporto non si identifica neppure con il concetto di continuità giuridica. Il diritto alla continuazione è espressione dell’apparato protettivo del rapporto contro una sua ingiustificata estinzione, sicché si radica nella disciplina dell’art. 4 della direttiva; mentre la continuità giuridica è integrata dal mantenimento di diritti ed obblighi esistenti al momento del trasferimento dell’azienda e si lega al diritto alla continuazione, secondo la disciplina ordinaria inderogabile, “in conseguenza di tale trasferimento”, ai sensi dell’art. 3, par. 1, della stessa direttiva. È certo che quel legame non può essere spezzato per le procedure che ricadono nella disciplina dell’art. 5, par. 2, della direttiva, appunto deputato a regolare le ipotesi in cui “si applicano gli articoli 3 e 4”. Pertanto la riforma utilizza il termine trasferimento, riferendolo ai rapporti di lavoro, come concetto di sintesi, vale a dire precludendo all’accordo sindacale (“fermo il trasferimento”) di derogare sia alla continuazione di ogni rapporto, sia alla sua continuità giuridica [93], qui ad eccezione delle consentite “modifiche delle condizioni di lavoro” finalizzate a “salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell’impresa”. Il nuovo comma 4-bis è allineato all’interpretazione della Cassazione quanto ai limiti delle deroghe della fonte collettiva, ma risolve anche, opportunamente, la questione del momento in cui l’accordo [continua ..]
L’ultima questione, di più agevole soluzione tecnica ma utile per sviluppare alcune riflessioni conclusive, riguarda l’attuale collocazione dello stato di crisi aziendale nel sistema normativo del trasferimento d’azienda rilevante per la tutela del lavoro. Ai fini delle deroghe, non è possibile ricondurre immediatamente uno stato di crisi alla previsione dell’art. 5, par. 3, della direttiva [105], perché la disposizione rimette agli Stati membri la “facoltà di applicare il par. 2, lettera b), a trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica”. Pertanto questa clausola europea è manifestamente priva di efficacia diretta, anche solo verticale, occorrendo una norma interna che inveri l’esercizio di tale facoltà. Al riguardo, occorre distinguere la nozione di crisi su cui si incentra il c.c.i.i. e quella che costituisce il presupposto dell’integrazione salariale. Quanto alla prima, che ha trovato un iniziale riconoscimento nella riforma della legge fallimentare a partire dal 2005 [106], non esiste comunque la possibilità di deroga ai sensi dell’art. 5, par. 3, della direttiva, il quale fissa un limite temporale invalicabile nella condizione che la regolazione nazionale di situazioni di grave crisi economica fosse già vigente al 17 luglio 1998. Coerentemente, a seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 83/2022 alla disciplina della composizione negoziata della crisi, il c.c.i.i. stabilisce che, qualora l’imprenditore sia autorizzato a trasferire in qualunque forma l’azienda o uno o più suoi rami, non si applica l’art. 2560, comma 2, c.c. ma “resta fermo l’articolo 2112 del codice civile” (art. 22, comma 1, lett. d). Precisazione oltremodo opportuna perché si lega alle procedure di informazione e consultazione sindacale imposte per le “rilevanti determinazioni, assunte nel corso delle trattative della composizione negoziata e nella predisposizione del piano nell’ambito di uno strumento di regolazione della crisi e dell’insolvenza, che incidono sui rapporti di lavoro di una pluralità di lavoratori” (art. 4, comma 3, c.c.i.i.) [107]. Per quanto riguarda lo stato di crisi accertato per il ricorso all’integrazione salariale, sembra peraltro indubbio che la mancata riproposizione di tale fattispecie [continua ..]