A partire dalle pronunce rese sui reclami collettivi proposti dalla CGIL in tema di contratto a tutele crescenti e di diritti sindacali degli appartenenti alla Guardia di Finanza, il saggio propone una riflessione sull’impatto che le decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali hanno nell’ordinamento italiano, con particolare riferimento al rapporto fra CEDS, Corte Costituzionale e legislatore, al fine di evidenziare i limiti di un dialogo ancora incerto e di delineare possibili spazi per la costruzione di un sistema caratterizzato da una sempre maggiore integrazione, di segno positivo, delle tutele.
The current essay reflects on the legal decisions issued as a consequence of the collective complaints made by the CGIL regarding the need to increase contract protections and union rights for the members and officers of Guardia di Finanza. In particular, the essay discusses the impact that the decisions of the European Committee for Social rights have on the Italian legal system. A specific focus is given on the relationship among the CEDS, the Constitutional Court and the legislature, in order to highlight the limitations of the current dialogue, and to outline potential opportunities for the construction of a legal system that prioritise the protection of workers, including their rights and contracts.
1. Considerazioni introduttive: dove eravamo rimasti - 2. Le decisioni del CEDS sui reclami collettivi proposti dalla CGIL: il contratto a tutele crescenti - 2.1. Segue. I diritti sindacali degli appartenenti alla Guardia di Finanza - 3. CEDS e Corte Costituzionale - 3.1. Segue. CEDS e legislatore - 4. Prospettive futuribili in tema di diritti sindacali - 4.1. Segue. E di plafond risarcitorio - 5. Per concludere - NOTE
Come si è già avuto modo di osservare ampiamente in altra sede [1], l’attribuzione alla Carta Sociale Europea (CSE) [2], nella versione riveduta del 1996, del rango di fonte interposta ha rappresentato una novità di assoluto rilievo nella giurisprudenza della Consulta degli ultimi anni, uscendone significativamente arricchito il patrimonio di norme di rilievo costituzionale poste a garanzia dei diritti dei lavoratori [3]. La condizione di minorità in cui a lungo era stata costretta rispetto all’altra fonte – la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) [4] – elaborata in seno al medesimo organismo internazionale (il Consiglio d’Europa), e conseguente al riconoscimento alla stessa del ruolo, al più, di mero ausilio interpretativo della Costituzione, aveva, infatti, grandemente limitato il potenziale impatto sull’ordinamento interno dell’analitico catalogo di diritti sociali ivi individuati [5]. La svolta compiutasi nel 2018, e propiziata da una maggiore attenzione, da parte dei giudici rimettenti, per quella che, fino ad allora, era stata considerata una sorta di «sorella povera» [6] della CEDU, pare così da annoverare tra le luci più luminose accese dalle sentenze della Corte Costituzionale 16 giugno 2018, n. 120 [7] e 8 novembre 2018, n. 194 [8], in tema, rispettivamente, di libertà sindacale dei militari e licenziamenti individuali, che, com’è noto, hanno dichiarato l’incostituzionalità delle norme sottoposte a scrutinio – ossia l’art. 1475, comma 2, d.lgs. 15 marzo 2010, n. 66 e l’art. 3, comma 1, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 – anche per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., tramite l’interposizione, nell’un caso, dell’art. 5 CSE e, nell’altro, dell’art. 24 CSE [9]. Non erano, tuttavia, mancate le ombre, per la verità molto più evidenti avuto riguardo alla prima pronuncia. Nella sentenza n. 120/2018, infatti, all’inedita collocazione della CSE fra le fonti interposte si era accompagnata la ferma negazione del valore giuridico delle decisioni assunte in sede di reclami collettivi dall’organo deputato al controllo sull’attuazione della medesima, ossia il Comitato Europeo dei Diritti Sociali (CEDS), ritenute, pur nella loro autorevolezza, nulla [continua ..]
In verità, le occasioni per un passo in avanti nella direzione auspicata – passo in avanti in fondo non velleitario proprio alla luce delle aperture rinvenibili nella sentenza n. 194/2018 – non sono mancate. Successivamente alle pronunce della Consulta, infatti, il CEDS ha avuto modo di rendere due decisioni destinate a intervenire sulle medesime questioni oggetto delle citate sentenze, ed entrambe propiziate da reclami collettivi proposti dalla CGIL. Con quella pubblicata in data 11 febbraio 2020 [28], il Comitato, in piena continuità con quanto affermato nel caso Finnish Society of Social Rights, esprimendosi sul reclamo n. 158/2017, ribadisce, in una sorta di dialogo a distanza con la Corte, che, se a seguito della sentenza n. 194/2018 è da ritenersi ormai superato il problema della compatibilità con l’art. 24 CSE dell’automatismo di calcolo legato alla sola anzianità di servizio delineato dal d.lgs. n. 23/2015 (punto 85 della decisione), resta invece attuale la questione dei plafond individuati dalla medesima normativa quali soglie massime al risarcimento del danno. Invero, il rimedio risarcitorio, per quanto qualitativamente diverso da quello reintegratorio/ripristinatorio e non del tutto fungibile rispetto ad esso [29], va comunque configurato come suo «equivalente funzionale» [30], dovendo, dunque, risultare idoneo a restituire il soggetto illegittimamente licenziato a una situazione non meno favorevole di quella in precedenza goduta [31], alla luce della duplice funzione – compensativa del danno subìto dal lavoratore e dissuasiva di futuri comportamenti patologici del datore di lavoro [32] – desumibile dall’art. 24 CSE nell’interpretazione datane dal CEDS. In effetti, è chiaro come, almeno in questo caso, l’opera ermeneutica del Comitato appaia essenziale, posto che la lettera della disposizione, sancendo il diritto del lavoratore ingiustamente licenziato a «un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione», presenta un contenuto all’evidenza del tutto generico. In tale ottica, secondo il CEDS, «i meccanismi indennitari sono ritenuti conformi alla Carta quando prevedono: il rimborso delle perdite finanziarie subite tra la data del licenziamento e la decisione dell’organo del ricorso; la possibilità di reintegro del lavoratore e/o indennità di un importo [continua ..]
In precedenza, nella decisione, pubblicata il 7 giugno 2019, resa a seguito del reclamo n. 140/2016, il Comitato aveva invece espresso la propria posizione su alcuni profili molto significativi toccati dalla sentenza della Corte n. 120/2018 [36]. Sempre con riguardo al Corpo della Guardia di Finanza, protagonista della controversia che aveva indotto il Consiglio di Stato a sollevare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1475, comma 2, d.lgs. n. 66/2010, il CEDS, preso atto dell’intervenuta pronuncia della Consulta, in primo luogo rileva come anche la libertà (dell’individuo e dell’organizzazione) di scegliere a quale sindacato aderire o affiliarsi vada garantita in quanto connaturata alla tutela offerta dall’art. 5 CSE. Invero, sebbene quello protetto da tale disposizione «sia il diritto dei singoli soggetti di costituire ed aderire ad associazioni sindacali, l’Articolo 5 stabilisce che i lavoratori devono essere liberi di costituire organizzazioni locali, nazionali o internazionali» e «ciò implica, per le organizzazioni stesse, il diritto di costituire e aderire alle Federazioni» (punto 84 della decisione). Ne deriva che gli appartenenti al Corpo della Guardia di Finanza, a prescindere dalla natura civile o militare dei compiti loro assegnati [37], «dovrebbero poter aderire ad un’associazione sindacale di loro scelta e le associazioni sindacali dovrebbero potersi affiliare ad organizzazioni nazionali ed internazionali» (punto 92): tale libertà, infatti, è «essenziale per il diritto di associazione stabilito dalla Carta», risultando, invece, il relativo divieto «sproporzionato […] e pertanto non […] necessario in una società democratica» (punto 88) [38]. Dall’altro lato, il Comitato afferma, ancora a maggioranza di 9 voti a 2 come nella fattispecie precedente, che la radicale negazione del diritto di sciopero, in quanto capace d’incidere negativamente sull’effettività del diritto di contrattazione collettiva tutelato dal successivo art. 6 [39], risulta contraria alla Carta, potendo eventuali limitazioni riguardare semmai solo il suo esercizio [40]. Infatti, «il diritto di sciopero è intrinsecamente legato al diritto alla contrattazione collettiva», rappresentando «il mezzo più efficace per ottenere [continua ..]
La prima delle ricordate decisioni del Comitato, forse perché destinata a toccare una materia particolarmente sensibile come quella dei licenziamenti, ha da subito avuto una certa eco negli ambienti giudiziari, tanto da essere pervenuta anche all’attenzione della Corte Costituzionale, la quale, però, in tutte le occasioni in cui ciò è accaduto ha avuto buon gioco a dribblare il confronto diretto con gli orientamenti del CEDS. In effetti, della pronuncia del Comitato dell’11 febbraio 2020 si fa menzione già nella sentenza del 16 luglio 2020, n. 150 [43], a proposito del tentativo, compiuto dalla parte ricorrente nel giudizio principale instaurato davanti al Tribunale di Bari e condivisibilmente stoppato dalla Consulta, di allargare irritualmente il thema decidendum alla questione della legittimità del tetto massimo definito dall’art. 4 d.lgs. n. 23/2015 in relazione al risarcimento dovuto per il caso di vizi formali e procedurali del licenziamento, ritenuto ingiustificatamente più basso rispetto a quello individuato dal precedente art. 3. E ciò facendo leva altresì sull’idoneità degli orientamenti del CEDS a «esercitare un proprio effetto conformativo, per quanto soft, anche ai fini della determinazione del quantum dell’indennità risarcitoria per licenziamento illegittimo» [44]. Sennonché, come accennato, poiché di ciò non vi era traccia nell’ordinanza del giudice a quo, che non contestava il regime differenziato riservato dal legislatore a detti vizi rispetto a quelli sostanziali ed era incentrata esclusivamente sul rigido e uniforme meccanismo di calcolo legato all’anzianità di servizio già censurato dalla pronuncia del 2018, la Corte, in modo formalmente ineccepibile, ha osservato come la questione prospettata dalla difesa della lavoratrice quale declatoria d’illegittimità costituzionale in via consequenziale si configurasse, piuttosto, in termini del tutto nuovi, in quanto riguardante il trattamento difforme, circa le soglie, tra vizi formali e vizi sostanziali del licenziamento. Tale questione, pertanto, non è stata presa in considerazione, senza che, per arrivare a ciò, ci sia stato bisogno di confrontarsi con l’orientamento formulato dal CEDS. Appare comunque di un certo rilievo che la decisione non ribadisca, in relazione all’art. 4, la [continua ..]
Quanto alla decisione del CEDS resa pubblica il 7 giugno 2019, essa si è inserita nel travagliato dibattito che ha accompagnato il tentativo del legislatore di elaborare una normativa capace di dare seguito alle indicazioni contenute nella sentenza n. 120/2018 [65], senza, però, essere in grado di incidere in maniera decisiva sul testo finale. In effetti, la legge 28 aprile 2022, n. 46 («Norme sull’esercizio della libertà sindacale del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché delega al Governo per il coordinamento normativo») [66], faticosamente approvata a quattro anni di distanza dalla pronuncia della Consulta a conferma della difficoltà di trovare un accettabile compromesso, presumibilmente anche per la scelta di muoversi in un orizzonte più ampio rispetto alla mera regolazione dei profili individuati dalla Corte, sembra nascere già “vecchia”, nella misura in cui pare riproporre, pur con le precisazioni che si diranno, le stesse limitazioni ai diritti sindacali, censurate dal CEDS, che si sono ricordate. Invero, secondo l’art. 1, comma 3, legge n. 46/2022, «Gli appartenenti alle Forze armate e alle Forze di polizia a ordinamento militare non possono aderire ad associazioni professionali a carattere sindacale diverse da quelle costituite ai sensi dell’articolo 1475, comma 2, del codice dell’ordinamento militare, di cui al decreto legislativo 15 marzo 2010, n. 66, come sostituito dal comma 1 del presente articolo» [67]. A sua volta, l’art. 4, comma 1, vieta alle associazioni professionali a carattere sindacale tra militari di «assumere la rappresentanza di lavoratori non appartenenti alle Forze armate o alle Forze di polizia a ordinamento militare» (lett. a), oltre che di «aderire ad associazioni sindacali diverse da quelle costituite ai sensi della presente legge o federarsi, affiliarsi o avere relazioni di carattere organizzativo o convenzionale, anche per il tramite di altri enti od organizzazioni, con le medesime associazioni» (lett. i) e di «preannunciare o proclamare lo sciopero, o azioni sostitutive dello stesso, o parteciparvi anche se proclamato da organizzazioni sindacali estranee al personale militare» (lett. b); sciopero il cui esercizio l’art. 1475, comma 4, d.lgs. n. 66/2010, non modificato sul punto dalla legge n. 46/2022, [continua ..]
Non è, ovviamente, dato sapere se le questioni qui considerate si ripresenteranno all’attenzione della Corte Costituzionale. Tuttavia, sul ragionevole presupposto che ciò possa avvenire – militari e appartenenti alle Forze di polizia a ordinamento militare, poco soddisfatti dalla nuova normativa, paiono molto intraprendenti e, d’altra parte, la disciplina dei licenziamenti è ben lungi dall’aver trovato un assetto definitivo – l’auspicio è che, anche in ragione delle sollecitazioni provenienti dal CEDS, i tempi siano finalmente maturi per un “aggiornamento” delle posizioni della Consulta, nell’ottica di una sempre maggiore integrazione, di segno positivo, delle tutele offerte dall’ordinamento multilivello. Il che, peraltro, come si vedrà, non esime affatto il legislatore dal farsi carico delle proprie responsabilità, sulla scorta di quanto richiesto con forza – lo si è rilevato poc’anzi – dalla stessa Consulta. In proposito, volendo partire dai diritti sindacali dei militari (ed equiparati), merita osservare come la strada tracciata dal Comitato sul bilanciamento fra diritto di sciopero e altri diritti espressione di interessi generali della collettività sembri equilibrata e non nuova per la Corte e per lo stesso legislatore nazionale. Basti pensare alla vicenda dei lavoratori dei servizi pubblici essenziali, rispetto ai quali si erano poste problematiche non dissimili in ordine alla titolarità del diritto de quo, prima che la parabola interpretativa della Consulta ne facesse – più correttamente alla luce della formulazione dell’art. 40 Cost. – una questione di limiti all’esercizio del medesimo, ponendo le basi giuridiche per il successivo intervento operato dalla legge 12 giugno 1990, n. 146 [68]. Del resto, a proposito della libertà di associazione dei militari, evoluzione analoga si rinviene nella giurisprudenza della Corte EDU, atteso che le due sentenze Matelly e Adefdromil, richiamate nella pronuncia n. 120/2018, presuppongono, per l’appunto, l’idea che eventuali limitazioni a detta libertà possano riguardare solo l’esercizio della stessa e non la sua titolarità [69]. In questa prospettiva, come ricorda il punto 138 della decisione del Comitato del 7 giugno 2019, «la CGIL sostiene che in Italia l’esperienza del passato [continua ..]
Il punto merita attenzione, perché «se […] l’interpretazione della Carta rimane governata dal diritto internazionale, la sua applicazione come parametro interposto, che è fase distinta e logicamente successiva alla prima, resta condizionata alla conformità alla Costituzione, secondo quanto chiarito a più riprese dalla Corte sin dalle sentenze gemelle del 2007» [90]; con la conseguenza che «dovrà […] escludersi l’idoneità delle disposizioni della Carta sociale europea a fungere da parametro qualora, nell’interpretazione datane secondo i canoni internazionalistici, esse si pongano in contrasto con la Costituzione o comunque non offrano adeguata protezione a valori costituzionalmente tutelati» [91]. In altri termini, non sarebbe più questione di accogliere, o meno, i risultati dell’attività ermeneutica del CEDS: di questi bisognerebbe prendere atto, nella misura in cui anche le disposizioni della CSE “vivono” nell’interpretazione dalle stesse date dal Comitato, in quanto organo istituzionalmente preposto alla loro concreta attuazione. Si tratterebbe, piuttosto, di argomentare sul piano della contrarietà di dette disposizioni – nel significato precisato dal “diritto vivente” prodotto dal Comitato – rispetto ad altri principi costituzionali che dovessero venire in rilievo. E dunque sarebbe sul terreno applicativo, non già su quello interpretativo, che si giocherebbe il bilanciamento fra principi confliggenti [92], tenendo conto che, per la Consulta, nemmeno le pronunce della Corte di Strasburgo sono «incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali»: invero, «tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali, quale imposto dall’art. 117, primo comma, Cost., e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione» [93]. Certamente potrebbe obiettarsi che, dal lato pratico, poco, o nulla, cambierebbe, il che è indubbiamente vero. Tuttavia, non deve trascurarsi che, in tale prospettiva, per un verso, le interpretazioni del CEDS contribuirebbero a definire il parametro interposto rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità, senza che l’esito [continua ..]
Vedremo che cosa ci riserverà il futuro. In ogni modo, fermi restando gli spazi, che qui si è cercato di delineare, per un’eventuale revisione dei propri orientamenti, merita comunque rilevare che, di fronte a un impianto normativo – quale quello incidente sulle materie considerate in questa sede – a dir poco problematico anche rispetto alle fonti sovranazionali esaminate, la Consulta può molto, ma non può tutto. In tale ottica, due dati sembrano, allora, meritevoli di attenzione. Da un lato, rimanendo su di un piano giudiziale e con specifico riguardo alla vicenda dei licenziamenti, va rimarcata, come preconizzato da attenta dottrina [111], la penetrazione, pur se ancora in fase embrionale, delle decisioni del CEDS nell’interpretazione delle corti nazionali ai fini della quantificazione dell’indennità risarcitoria [112], a conferma di una circolazione, per quanto soft, di impulsi di sistema, che trova nel giudice del caso concreto il terminale ultimo della tutela multilivello garantita ai diritti fondamentali. Dall’altro lato, poiché, quantunque d’indubbia importanza [113], una prospettiva interamente costruita intorno al ruolo del giudice (costituzionale, di legittimità o di merito che sia) non appare appagante [114], occorre rilevare il peso politico della doppia “bocciatura” del CEDS, di fronte al quale uno Stato vincolato dall’osservanza della CSE, e dall’obbligo di partecipare secondo buona fede al procedimento di controllo internazionale sulla sua applicazione [115], non dovrebbe rimanere insensibile. Ma, ancora una volta, l’ottimismo della volontà si vede costretto a cedere il passo al pessimismo della ragione, a tre anni ormai di distanza dall’intervento del Comitato in tema di Jobs Act e in presenza di una legge – la citata n. 46/2022 – che, come osservato, pare porsi in più punti in controtendenza rispetto alle sopravvenute indicazioni di tale organo. E ciò nonostante le risoluzioni adottate, in ambedue i casi, nei confronti dell’Italia dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa a seguito delle infrazioni rilevate nell’ambito della procedura sui reclami collettivi, con le quali le autorità italiane sono state invitate a rendere la normativa nazionale conforme alla Carta in vista del prossimo ciclo di [continua ..]