In relazione all'irresistibile invecchiamento della popolazione residente in Italia e al forzato allungamento della vita lavorativa, l'A. affronta la questione della obsolescenza professionale nella condizione senile, al tempo della digitalizzazione e delle conseguenti (sempre più repentine) trasformazioni del mondo del lavoro. Nella consapevolezza della centralità della formazione per il superamento del digital divide e per la manutenzione delle competenze dei lavoratori (anziani), il ragionamento ricostruisce diritto, limiti e potenzialità dell’apprendimento permanente.
Facing the ongoing ageing of the Italian population, and to the forced lengthening of working life, the A. addresses the issue of professional obsolescence of the elder, in the age of the digitalization and the resultant (and increasingly rapid) transformation of the world of work. In the awareness of the crucial importance of professional training for the flattening of the digital divide and for the maintenance of the skills of (older) workers, the paper deals with the right to, the limits and potential of life-long learning.
1. Professionalità, invecchiamento e digitalizzazione del lavoro - 2. Un dialogo fra demografia e mercato del lavoro - 3. La solidarietà intergenerazionale al vaglio dei divari digitali: il ruolo della formazione - 4. Annotazioni conclusive: verso il diritto all’apprendimento permanente - NOTE
La professionalità, intesa quale adeguatezza del lavoratore rispetto alla organizzazione in cui opera [1], dipende tanto dalle tecnologie utilizzate [2], quanto dalle caratteristiche proprie della persona che lavora [3]. Fra queste ultime, ci si intende qui concentrare sull’età, nella ricerca di una (possibile) formula che possa proficuamente armonizzare gli emergenti assetti dell’economia digitale con l’aspirazione a un invecchiamento attivo della forza lavoro [4]. Di regola, raggiunta una apprezzabile anzianità di servizio, età e professionalità – che sino a quel momento erano cresciute assieme – assumono i connotati di due grandezze inversamente correlate, nel senso che, all’aumentare dell’una, l’altra tende a diminuire. Un tempo, questo accadeva per effetto del progressivo deterioramento delle energie fisiche necessarie per l’esecuzione di attività prettamente manuali; oggi, invece, la questione si pone osservando l’impatto delle tecnologie sul contenuto di prestazioni digitalizzate e, pertanto, sulle specifiche competenze richieste ai lavoratori per il loro espletamento [5]. Invero, in un mercato del lavoro in cui le carriere non sono solo più lunghe – come meglio si dirà tra poco – ma anche maggiormente soggette a trasformazioni di ruoli e mansioni [6] (seguendo, peraltro, percorsi sempre meno lineari [7]), l’obsolescenza professionale si manifesta con maggiore frequenza e intensità nella condizione senile. Nella complessità del lavoro 4.0 [8], già evoluto nella industria e nella società 5.0 [9], gli older worker [10] paiono, infatti, essere esposti al maggiore rischio di esclusione, a causa della ridotta alfabetizzazione digitale [11], che male si concilia con l’ingresso della tecnologia nei contesti di impiego [12]. Allo stesso tempo, però, la digitalizzazione del lavoro, che, in Italia, avanzava «a macchia di leopardo» [13], con una «mescolanza [e una] contrapposizione di vecchio e nuovo» [14], e che, sovente, era percepita quale fattore di potenziale sostituzione dell’agire umano [15], si sta mostrando come processo fondamentale per garantirne la conservazione [16]. In questi termini, la «trasformazione epocale» innescata dalle [continua ..]
In una Europa sempre più anziana [27], le dinamiche demografiche italiane dipingono un quadro assai più sconfortante della media [28]. Infatti, complici il guadagno in longevità e la persistente bassa fecondità [29], la popolazione residente nel Paese sta progressivamente invecchiando, minacciando la sostenibilità dell’intero sistema di welfare state [30]. Il fenomeno sembra «strutturale e ineludibile» [31] e, anzi, pare essere destinato a consolidarsi – o, addirittura, a peggiorare – sul lungo periodo, in quanto frutto di trend che le strategie di politica macroeconomica, serrate da vincoli di bilancio sempre più stringenti, non sono state, sino a oggi, in grado di invertire [32]. Secondo le indagini più recenti [33], le persone residenti in Italia ammontano a poco meno di 59 milioni, dovendosi registrare un leggero calo rispetto alla precedente rilevazione censuaria [34]. Di esse, la quota di stranieri (con le relative limitazioni nel mercato del lavoro) è giunta al 8,8% del totale [35], all’esito della sensibile accelerazione (+13,3% sul 2021) manifestatasi a seguito dell’allentamento dei vincoli agli spostamenti internazionali post-emergenza sanitaria, ma pure in relazione alla fuga di persone dall’invasione russa dell’Ucraina [36]. L’età media sul territorio nazionale, in ulteriore rialzo rispetto al passato, è di oltre 46 anni: a incidere sul dato, oltre alla emigrazione dei giovani verso le grandi città europee [37], vi è anche – e soprattutto – il costante aumento della speranza di vita alla nascita, che oggi oscilla fra gli 80,1 (per la componente maschile) e gli 84,7 anni (per quella femminile) [38]. Al riguardo, duole osservare, però, come a un innalzamento delle aspettative di vita non corrisponda necessariamente un prolungamento delle aspettative di “vita sana” [39]: benché in Italia si (soprav)viva sempre più a lungo, sovente, infatti, ci si trova a far fronte a problemi di salute e patologie croniche [40]. Il fattore complementare all’invecchiamento concerne, come cennato, il tasso di natalità: esso si attesta intorno all’1,25 figli per donna – evidenziando l’ennesima riduzione delle nascite nel Paese, con un decremento annuale che, nel 2022, [continua ..]
Per attenuare la pressione demografica sul bilancio dello Stato, le riforme che si sono susseguite negli anni hanno inteso innalzare i requisiti collegati all’anzianità contributiva, con l’obiettivo di ritardare l’accesso allo stato di quiescenza e alle prestazioni pensionistiche [50]. Sicché, in un Paese di (ma non per) vecchi, che tenta progettualità per favorire l’inserimento lavorativo dei giovani [51], la gestione dell’età nei contesti di impiego rappresenta un’assoluta priorità, al fine di dare sostanza al disegno – da tempo immaginato a livello europeo – di una «solidarietà intergenerazionale» (art. 3, comma 3, TUE). Lungi dal rappresentare una mera petizione di principio, il richiamo alla solidarity between generations [52] evoca l’idea di un riparto equilibrato, fra le diverse fasce d’età, dei costi sulla società e del contributo che le persone possono apportare alla stessa, ma anche delle risorse e delle opportunità a cui queste possono accedere [53]. Se molteplici, ormai, sono le leggi che menzionano un’analoga dimensione della solidarietà, di questa resta ancora incerto il valore precettivo [54]. Infatti, benché sorretta dall’apparato costituzionale (ex artt. 2, 3 e 32, Cost.), la questione si complica a livello pratico: pur travalicando le materie, gli intrecci e i limiti ordinamentali della competenza legislativa [55], l’invecchiamento della popolazione e l’allungamento forzoso della vita produttiva rischiano di generare situazioni di conflitto fra giovani e anziani [56]. Tali criticità sono state tradizionalmente affrontate in ambito previdenziale, ove «l’interesse sempre maggiore per la solidarietà intergenerazionale […] nasce [e si sviluppa, a garanzia del] godimento dei diritti fondamentali delle generazioni future» [57]. Muovendo dalla previdenza verso il rapporto di lavoro e responsabilizzando le imprese, siffatto approccio solidale pare potersi realizzare mediante azioni mirate (anche negoziate collettivamente [58]), tese alla istruzione della “nuova” forza lavoro e della riqualificazione di quella “vecchia”, nell’ottica della costruzione e dell’aggiornamento della professionalità lungo tutto l’arco della vita [continua ..]
Il percorso di riflessione sin qui tracciato impone di vagliare la sussistenza di un diritto all’apprendimento permanente (a supporto dell’invecchiamento attivo) e, eventualmente, di verificarne l’esigibilità nella relazione di lavoro. In altri termini, se è vero che l’innovazione tecnologica e le mutate condizioni di impiego impongono a tutti i lavoratori (giovani e anziani) una professionalità diversa rispetto al passato – che da «lineare, solida e prevedibile diventi ibrida, liquida e adattiva» [84] – con una evidente dilatazione della pretesa creditoria del datore, occorre comprendere se quest’ultimo possa essere gravato di un obbligo (di fare, ovvero di patire) in materia di formazione continua, per la salvaguardia del proprio “capitale umano” nel lungo periodo. Anzitutto, si deve rammentare come, sulla scorta di impulsi di matrice europea [85], il legislatore nazionale – dopo aver definito i principi e i criteri generali per il «riordino della formazione professionale» (art. 17, legge n. 196/1997 [86]) e poco prima di istituire i «fondi paritetici interprofessionali per la formazione continua» (art. 118, legge n. 388/2000 [87]) – abbia provveduto a riconoscere ai lavoratori, occupati e non, «il diritto di proseguire i percorsi di formazione per tutto l’arco della vita, per accrescere conoscenze e competenze professionali» (art. 6, legge n. 53/2000) [88]. L’anelito verso la tutela e l’aggiornamento della professionalità nell’ottica life-long, su impulso tanto del datore, quanto della persona che lavora, si colloca sotto tale ombrello protettivo, che include sia iniziative formative «ad autonoma scelta del lavoratore», sia interventi «predispost[i] dall’azienda, attraverso i piani formativi aziendali o territoriali concordati tra le parti sociali» (art. 6, comma 1, legge n. 53/2000). Tuttavia, la disposizione, seppur apprezzabile sul piano formale, «registra [nel concreto] una tendenza alla svalutazione della portata del riconoscimento del diritto alla formazione continua», limitandosi alla sua previsione, senza incidere in alcun modo sulla posizione debitoria del datore di lavoro [89]. Quest’ultima, infatti, si traduce in un mero pati [90], nella misura in cui si conceda (e si sopportino le [continua ..]