Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Età e incentivi: il rimedio allo svantaggio (di Carmela Garofalo, Ricercatrice in Diritto del lavoro, Università di Bari «Aldo Moro» – DJSGE)


Il saggio affronta il tema del divario generazionale in chiave occupazionale. L'età anagrafica è considerata fattore di svantaggio “occupazionale” nel mercato del lavoro stante la difficoltà di chi è troppo giovane o troppo “anziano” di collocarsi o ricollocarsi nel mercato del lavoro. Per favorire l'incremento dei livelli occupazionali di questi lavoratori, il legislatore appresta misure di incentivazione in favore dei datori di lavoro che procedono alla loro assunzione che se da un lato drenano ingenti risorse pubbliche, dall’altro non sempre restituiscono, in termini di efficacia, l'effetto sperato di alterare le dinamiche strutturali del mercato del lavoro. Da qui l'esigenza, in chiave prospettica, di reindirizzare le politiche per l'occupazione verso la valorizzazione delle competenze al fine di colmare i gap formativi e di competenze che caratterizzano la vita lavorativa di questi lavoratori o con poca o con troppa, ma obsoleta, maturità professionale.

Age and incentives: the remedy to disadvantage

The essay deals with the issue of the generation gap between young and old people in terms of employment. The chronological age is considered a factor of “occupational” disadvantage in the labor market because of the difficulty of those who are too young or too “elderly” to place themselves or re-place themselves in the labor market. To favor the increase in the employment levels of these workers, the legislator prepares incentive measures in favor of the employers who proceed with their hiring which, if on the one hand drain huge public resources, on the other they do not always return, in terms of effectiveness, the hoped-for effect of altering the structural dynamics of the labor market. Hence the need, in a prospective key, to redirect employment policies towards the enhancement of skills to fill the training gaps that characterize the working life of these workers either with little or too much, but obsolete, professional maturity.

SOMMARIO:

1. “Essere o non essere” giovani: questo è il problema - 2. Il “paradosso” dei giovani nel mercato del lavoro - 2.1. La resilienza dei giovani alla prova della pandemia - 3. L’Italia è un Paese “vecchio” ma non per “vecchi” - 4. Quali soluzioni? - NOTE


1. “Essere o non essere” giovani: questo è il problema

Una delle conseguenze del c.d. “inverno demografico” che connota negativamente il nostro Paese è che nel mercato del lavoro vi sono sempre meno “giovani” e sempre più lavoratori “anziani”. Il crollo della popolazione in età lavorativa è dovuto principalmente al saldo negativo tra le persone che compiono 15 anni e quelle che ne compiono 65, e quindi al calo delle nascite registrato nell’ultimo mezzo secolo (che si attesta intorno a 1,2 figli per ciascuna donna contro il 2,1 considerato necessario per il ricambio generazionale [1]) accompagnato dal contemporaneo invecchiamento dell’attuale popolazione, figlia del boom di nascite del dopoguerra (c.d. baby-boomers) che sta raggiungendo l’età per andare in pensione [2]. Il divario generazionale si è trasformato in divario occupazionale: i giovani di oggi sono più istruiti, ma hanno visto disattese molte delle aspettative di un felice e redditizio inserimento occupazionale prospettate loro dalla generazione precedente divenendo, al contrario, una risorsa “rara”, ma paradossalmente al tempo stesso largamente inutilizzata o impiegata con forme di lavoro precario che hanno determinato discontinuità occupazionale (e di reddito) e scarse prospettive di carriera; al polo opposto, i lavoratori più “anziani” vengono trattenuti più a lungo nel mercato del lavoro con l’innalzamento progressivo del­l’età pensionabile creando degli effetti eclatanti come la concorrenza con le coorti più giovani e l’obsolescenza delle loro conoscenze e competenze con connesso potenziale calo della produttività o scarsa adattabilità alle nuove esigenze organizzative, specie nell’attuale momento di forte transizione verso l’economia verde e digitale [3]. Essere troppo giovani o troppo “adulti” significa, perciò, trovarsi in una condizione di debolezza nel mercato del lavoro stante le difficoltà, per i primi, di entrarvi per la prima volta e, per i secondi, di rimanervi sino al raggiungimento dell’età pensionabile, ormai proiettata verso i settant’anni. Per questo motivo l’età anagrafica è diventata una condizione di svantaggio occupazionale de iure, oltre che de facto, per fronteggiare la quale sono necessari interventi legislativi che non possono solo [continua ..]


2. Il “paradosso” dei giovani nel mercato del lavoro

Analizzando l’evoluzione della disciplina regolamentare di matrice europea in tema di aiuti di Stato finalizzati all’occupazione ed esentati dall’obbligo di preventiva notifica alla Commissione, è di immediata evidenza che i “giovani” non sono stati sempre annoverati tra le categorie dei c.d. “soggetti svantaggiati”. I soggetti di «età compresa tra i 15 e i 24 anni», infatti, erano presenti come categoria autonoma di svantaggio occupazionale nel primo reg. (CE) n. 2204/2002 per poi scomparire nel reg. (CE) n. 800/2008 e ricomparire in quello attualmente in vigore, il reg. (UE) n. 651/2014, la cui efficacia è stata prorogata sino al 2023 [5]. Le ragioni di questa discontinua presenza dei giovani tra le categorie dello svantaggio occupazionale sono da ricondursi agli effetti socioeconomici ingenerati delle due crisi finanziarie, rispettivamente del 2008 e del 2011, che hanno colpito l’economia globale, ed in particolare la zona euro. A pagare il prezzo più caro delle avverse congiunture economiche sono state le fasce più giovani della popolazione, sovra rappresentate tra i disoccupati e i lavoratori a termine, con una drastica riduzione dei tassi di occupazione. L’innalzamento della disoccupazione giovanile ha spinto il legislatore europeo, che nel passaggio dal regolamento del 2002 a quello del 2008 aveva escluso i giovani sul presupposto che l’età anagrafica non potesse rappresentare ex sé una condizione di debolezza nel mercato del lavoro, a ricomprenderli nel 2014 nel novero dello svantaggio occupazionale per incrementare le occasioni di lavoro a loro riservate. Quello che sembrava un “paradosso” è diventato un ineludibile problema. Il solo tasso di disoccupazione rappresenta, tuttavia, un indice incompleto della forza lavoro giovanile inutilizzata perché esclude l’inattività, un’area che tra i giovani ha registrato negli ultimi due decenni una crescita esponenziale. Per cogliere questo aspetto, il legislatore europeo ha coniato il termine NEET (Neither in education nor in employment or training), con cui indentificare la quota di under 30 che sono disoccupati o inattivi per motivi diversi dall’essere studenti o in formazione. Nonostante il concetto di NEET si sia affermato nel dibattito pubblico solo in anni recenti, i giovani al di fuori di “attività” [continua ..]


2.1. La resilienza dei giovani alla prova della pandemia

La vulnerabilità strutturale del nostro mercato del lavoro (insiders vs outsiders) si è aggravata ulteriormente nell’ultimo triennio a seguito delle quattro crisi sovrapposte (la pandemia da Covid-19, la guerra in Ucraina, l’alta inflazione, la morsa energetica) che hanno esacerbato le difficoltà della transizione scuola-lavoro dei giovani, determinando un peggioramento delle loro prospettive di inserimento occupazionale [19]. Gli effetti occupazionali delle recenti crisi, infatti, sono stati particolarmente evidenti per la popolazione giovane, caratterizzata da un’elevata diffusione del lavoro precario che per primo risente degli andamenti restrittivi o espansivi del ciclo economico [20]. Al fine di evitare che l’attuale contesto recessivo provochi danni permanenti o di lungo termine sulle nuove generazioni, la “questione giovanile” è diventata una specifica priorità trasversale sia nel «Recovery and Resilience Facility» [21] (RRF) che finanziariamente supporta il Programma «Next Generation EU» [22] (NGEU), sia nel nostro PNRR che, pur non prevedendo una missione specificamente dedicata ai giovani, ha destinato loro diverse misure e risorse che, direttamente o indirettamente, sono volte a offrire opportunità occupazionali [23], con un rilievo peculiare attribuito ai processi di formazione professionale a loro rivolti (in particolare tramite l’ampliamento dell’offerta di apprendistato duale su tutto il territorio nazionale, nonché dell’offerta formativa duale, di cui alla Missione 5 – Componente 1 – Investimento1.4) che si intrecciano alle riforme nel campo dell’istruzione rinvenibili nella Missione 4 (più precisamente a quelle di cui alla Missione 4, Componente 1) [24]. Ma nonostante si continui a parlare delle nefaste conseguenze del periodo pandemico sul tessuto socioeconomico, gli ultimi dati forniti dall’ISTAT e dall’INPS attestano che nel 2022 la ripresa occupazionale ha riguardato soprattutto i lavoratori più giovani [25], con un incremento del loro livello occupazionale addirittura maggiore rispetto al 2018-2019 (fase pre-pandemica). Negli ultimi mesi del 2022 si è assistito, altresì, a uno spostamento da forme di lavoro precarie verso contratti con maggiori garanzie di stabilità anche a seguito del venir meno delle [continua ..]


3. L’Italia è un Paese “vecchio” ma non per “vecchi”

Volgendo ora lo sguardo ai lavoratori “anziani”, l’analisi della loro condizione di svantaggio è più complessa in quanto siamo in presenza di una categoria non omogenea, la cui perimetrazione definitoria risente del contesto in cui si compie tale operazione [41]. Dal punto di vista giuridico, nel nostro Paese la nozione di “vecchiaia” è fortemente condizionata dall’età pensionabile assunta dal legislatore come valore-soglia per scremare chi deve ancora rimanere nel mercato del lavoro e chi può andare in quiescenza [42]. Tuttavia, definire il lavoratore anziano come persona prossima alla pensione pare non essere un approccio adeguato, in quanto soggetto a continue modifiche e fughe in avanti dovute all’aumento dell’età pensionabile. Nel recente Programma nazionale “Garanzia di occupabilità” (GOL), perno dell’azione di riforma delle politiche attive del PNRR che riprende i contenuti di quello introdotto dalla legge di bilancio per il 2021 [43], tra i beneficiari (lavoratori fragili o vulnerabili) a cui indirizzare le nuove misure di politica attiva, a prescindere dalla presenza di un sostegno al reddito, compaiano accanto ai giovani NEET (meno di 30 anni), alle donne in condizioni di svantaggio e alle persone con disabilità, i lavoratori con più di 55 anni. Nell’ambito, invece, delle politiche per l’occupazione, è considerato “soggetto svantaggiato” chi ha compiuto i 50 anni di età. Gli “over 50” sin dal 2002 sono inclusi dal legislatore europeo tra le categorie dello svantaggio occupazionale, stante le loro difficoltà, una volta perso il lavoro, di reinserimento nel mercato del lavoro con elevato rischio di permanere nello stato di disoccupazione per un lungo periodo [44]. I motivi per cui un’impresa preferisce assumere personale più giovane sono molteplici: dalla maggiore dimestichezza con le nuove tecnologie, fino alla flessibilità e alla resistenza a fatica e stress. Inoltre, sotto il profilo retributivo e delle tutele, il lavoratore più anziano, incide maggiormente sui bilanci aziendali. Anche valutando le competenze possedute, seppur i lavoratori più maturi hanno sviluppato abilità (comprese molte soft skills) ed esperienze che teoricamente ne migliorano la performance complessiva, l’esperienza [continua ..]


4. Quali soluzioni?

L’analisi condotta sulle misure attualmente vigenti per favorire l’inseri­mento lavorativo dei soggetti svantaggiati sotto il profilo anagrafico, ci consente di formulare alcune conclusioni che devono rappresentare un punto di partenza per indirizzare nell’immediato futuro le politiche per l’occupazione in chiave inclusiva. Il legislatore negli ultimi dieci anni ha utilizzato soprattutto la leva degli incentivi all’occupazione in senso stretto per risolvere il divario occupazionale ingenerato da quello generazionale, che hanno registrato un forte aumento soprattutto nel periodo post pandemico per affrontare le criticità connesse ai gravi effetti sociali causati dei ravvicinati eventi emergenziali [63]. La valutazione degli effetti di tali provvedimenti sul mercato del lavoro, sui livelli occupazionali, sulla capacità di incentivare l’assunzione di categorie “deboli” ha confermato, tuttavia, l’assunto già da tempo noto a chi si occupa di tale materia [64], che quando l’incentivo consiste in uno sgravio sostanziale ed è disegnato in modo rigoroso e mirato su target di gruppi di individui specifici, l’impatto della policy è positivo e statisticamente significativo (vedasi, ad esempio, l’incentivo “Esonero Giovani” che di fatto ha incrementato l’occu­pazione giovanile nel periodo post pandemico). Per contro, benefici con minori aliquote di agevolazione e non rivolte a target specifici non permettono di osservare alcun impatto occupazionale secondo la logica che «l’incentivo per tutti equivale all’incentivo per nessuno» [65]. Gli incentivi economici alle assunzioni non sembrano, quindi, essere particolarmente efficaci rispetto all’obiettivo di supportare l’inserimento o il reinserimento dei giovani (disoccupati, inoccupati o NEET) e degli over 50 nel mercato del lavoro, in particolare per il fatto che nell’ordinamento italiano esistono molti incentivi rivolti a diverse categorie di lavoratori che tendono per questo a spiazzarsi a vicenda. Ecco, quindi, delinearsi il paradosso: come mai le aziende si contendono a colpi di rialzo della busta paga i lavoratori che già sono occupati quando potrebbero attingere a costi ben più bassi, attraverso anche la leva degli incentivi, e con maggiore prospettiva di crescita da quel bacino di giovani con meno di 35 anni [continua ..]


NOTE