Il saggio affronta il tema dell’età, con riferimento al fenomeno dell’ageismo, inteso come complesso di discriminazioni e pregiudizi che affligge lavoratori e lavoratrici nel corso dell’intera vita professionale. Il tema viene coordinato con le questioni relative all’intersezionalità dei fattori di discriminazione che, in uno con il cambiamento demografico che interessa le organizzazioni, richiedono soluzioni innovative. L'A. esplora, quindi, la complessa tematica del Diversity (e Age) management, con riferimento al contesto Europeo e nazionale, quest'ultimo indagato sia nel settore privato, sia nella pubblica amministrazione.
The essay deals with the issue of age, with reference to the phenomenon of ageism, understood as a complex of discriminations and prejudices that afflict workers throughout their professional lives. The theme is coordinated with issues related to the intersectionality approach to discrimination factors which, together with the demographic change affecting organizations, requires innovative solutions. The A. explores, therefore, the complex issue of Diversity (and Age) management, with reference to the European and national context, the latter investigated both in the private sector and in the public administration.
1. L’ageismo e l’età “mai giusta” - 2. Intersezionalità e fattore demografico - 3. Diversity (e Age) management tra opportunità e necessità: a) il settore privato - 4. Segue. b) la pubblica amministrazione - 4. Conclusioni - NOTE
Affrontare il rilievo dell’elemento anagrafico nel (diritto del) lavoro pone di fronte a molteplici sfide, che richiedono, in primo luogo, di aver chiaro come l’ageismo sia una componente di pregiudizio estremamente diffusa e, al contempo, di difficile percezione. L’ageismo [1] consiste in una forma di discriminazione particolarmente insidiosa, allorché l’età viene utilizzata come mezzo discretivo per stabilire ciò che una persona può, o non può, fare o essere. A prescindere da una approfondita valutazione delle circostanze del caso, siamo di fronte a una manifestazione che non riguarda esclusivamente le persone anziane e che è idonea a danneggiare la salute e il benessere delle persone che ne sono vittime [2]. A differenza degli altri fattori di discriminazione tipizzati, si tratta dell’unica caratteristica che, strutturalmente, muta nel tempo. In questo senso, spesso accade che il prestatore non abbia “l’età giusta”, rispetto al mondo e al mercato del lavoro: a volte lo si ritiene troppo giovane per aver esperienza, ovvero, se donna, pericolosamente e potenzialmente fertile; di lì, il passo è breve verso una visione del lavoratore come troppo anziano per essere (ancora) prestante e performante. Si tratta, in tutti i casi, di fasi della vita, personale e professionale, attraversate “naturalmente” dai lavoratori, in un dibattuto cammino tra incentivi all’occupazione, divieti di impiego e licenziamenti agevolmente accordati dall’ordinamento, ovvero contrastati dalle magistrature [3]. L’ulteriore caratteristica della Cenerentola delle discriminazioni [4] è il suo essere intrisa di pregiudizi, talvolta legalmente codificati, che fanno coincidere un’astratta idea di piena maturità fisica e professionale con la condizione premiante nell’impiego. La somma di tali bias [5] va ad alimentare l’ageismo, oggetto da ultimo di un recente e ampio Global Report dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), collocato all’interno della Strategia globale e del Piano d’azione per l’invecchiamento attivo e in salute [6], che si snoda lungo tutto il decennio dell’Invecchiamento sano (2021-2030) [7]. Dunque, la formulazione della dir. 2000/78/CE «che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in [continua ..]
Non sfugge, a questo punto, come sia rilevante il profilo concreto delle vicende affrontate dalla Corte, che tiene conto del contesto di impiego Europeo, determinato dal numero reale di soggetti che si immettono nel mercato alla ricerca di lavoro, dalle qualifiche che gli stessi posseggono e da quelle che, invece, sono richieste dalle imprese. Il quadro che va così stagliandosi è noto da decenni ed è stato ben focalizzato dalla Commissione Europea [13], che ha gettato uno sguardo sull’Europa che “sarà”, presumibilmente e a scanso di repentini mutamenti, nel 2050 [14]. La popolazione di età compresa tra i 65 ed i 79 anni aumenterà del 45%, mentre il numero di coloro che hanno meno di 15 anni diminuirà del 18%; quelli nella fascia dai 15 ad i 24 anni si ridurranno del 24%. è l’esito del complessivo calo del tasso di crescita, che si attesta intorno a un 1,5 figli per ciascuna donna, contro il 2,1 considerato necessario per il ricambio generazionale; dell’aumento dell’aspettative di vita, connesso anche al naturale invecchiamento dell’attuale generazione dei 60enni, nati nel boom del dopoguerra. Il mutamento di composizione della società e della forza lavoro determina inevitabilmente disparità rispetto al trattamento riservato alle generazioni passate, che può sfociare in vere e proprie discriminazioni in ogni fase del lavoro (dall’accesso, al rapporto, sino alla cessazione), compresi i tentativi di reinserimento e le connessioni con il sistema previdenziale. In questo senso, è noto che il concetto di “discriminazione” si è nel tempo arricchito, grazie all’impulso offerto dalla CGUE, che ha evidenziato i perniciosi effetti (aggravati) della discriminazione fondata su una combinazione di motivi, pur non giungendo alla costruzione di una «nuova categoria di discriminazione risultante dalla combinazione di più di uno di tali motivi» [15]. Più recentemente si è fatta strada anche nella dottrina del Vecchio Continente l’accezione di discriminazione intersezionale, la quale si sostanzia in una (discriminazione basata su una) combinazione inseparabile di motivi protetti. Benché anche in essa la Corte non abbia riconosciuto un (nuovo) motivo protetto, questa prospettiva appare come uno degli sviluppi più fecondi a cui guardare, per [continua ..]
È, dunque, necessario agire sia in tutte le fasi dell’impiego (dall’offerta al pensionamento), sia per tutti i prestatori, onde evitare che, prima o poi, il lavoratore (e più gravemente, come detto poc’anzi, la lavoratrice) subisca le conseguenze della propria, naturale, obsolescenza. Si deve, però, muovere dalla consapevolezza che i fattori di discriminazione impattano diversamente, a seconda della situazione di partenza del soggetto, di cui si vada a indagare la condizione. Considerando altrove ben documentate le questioni a monte e a valle del rapporto [20] e concentrandoci qui sulla relazione di lavoro, il maggior e miglior strumento salva-carriera pare essere per tutti la formazione, declinata non nell’intervento emergenziale ma nella prospettiva di uno stabile life-long learning [21]. La ricerca muove oltre, verso l’individuazione dello strumento più idoneo per meglio soppesare la situazione di ciascun prestatore. A tal fine, sembra interessante accedere alla complessiva (e complessa) gestione delle diversità nei luoghi di lavoro, accolta nella etichetta di Diversity management. Questa modalità di revisione dei processi organizzativi attinge all’intersezionalità dei fenomeni considerati, al fine di considerare l’intreccio delle caratteristiche individuali all’interno di contesti di lavoro, adottando un approccio alla gestione delle differenze, capace di identificare i pregiudizi professionali e i meccanismi di discriminazione. Gli studi e le ricerche sul Diversity management hanno assunto una certa rilevanza anche in Italia, ove si è sviluppato un intenso dibattito accademico, coltivato per lo più dai cultori delle scienze dell’organizzazione [22], ma non sfuggito, invero, ai più attenti osservatori delle vulnerabilità lavoristiche [23]. Sono, così, emerse tanto le opportunità, rispetto alle istanze di inclusione e valorizzazione, quanto le criticità di questo approccio [24], caratterizzato da costi elevati, lunghi tempi di realizzazione e difficoltà di conciliare la valorizzazione delle differenze con la riduzione delle disuguaglianze e i diritti di gruppo con quelli individuali. Ma è con riferimento al tema dell’età che, recentemente, si sono fatti i più interessanti esperimenti, proprio in virtù delle peculiari [continua ..]
Ove si guardi alle pubbliche amministrazioni, si potrà agevolmente osservare come esse abbiano costantemente adottato politiche del personale “a fisarmonica”, nelle quali si alternano periodi di cd. blocco delle assunzioni, cui fanno seguito ampie stabilizzazioni del personale precariamente impiegato per far fronte a necessità più o meno urgenti o addirittura, semplicemente, per sopperire alla impossibilità di assumere a tempo indeterminato [36]. Dopo la grande stabilizzazione del 2007 (attuata con la legge di Stabilità n. 296/2006), a partire dal 2008 le assunzioni della pubblica amministrazione sono state bloccate attraverso una serie di provvedimenti, che hanno previsto anche limitazioni alla sostituzione del personale in uscita [37]. I limiti hanno riguardato, fino al 2014, sia la spesa sostenuta per gli uscenti, sia il numero di dipendenti e, dopo il 2014, solo la prima, consentendo un aumento del personale a parità di spesa [38]. I vincoli adottati hanno certamente permesso di ridurre la spesa per il personale e contribuito al riequilibrio dei conti pubblici, ma, al contempo, hanno inciso dal punto di vista quali-quantitativo sul capitale umano della p.a. Secondo l’Osservatorio Conti Pubblici Italiani, il blocco del turnover ha contribuito a un aumento di circa quattro anni dell’età media dei dipendenti pubblici [39]. Se il fenomeno, da un lato, è in parte “fisiologico” in un Paese che invecchia; dall’altro, è stato indotto anche dall’aumento dell’età di pensionamento. L’età media si è, infatti, sensibilmente ridotta nel 2019, sia per effetto dei pensionamenti di Quota 100, sia per effetto del contemporaneo riavvio del reclutamento, che ha comportato una iniezione di personale nella p.a. per quasi 18 mila unità. A seguire, il d.l. n. 34/2019 ha anche stabilito un diverso funzionamento del turnover per gli enti locali a partire dal 2020, ove le assunzioni non sono legate alle uscite di personale ma a valori di bilancio. A fianco della cennata cura dimagrante, si deve ricordare la coeva stabilizzazione di circa 100mila unità di personale scolastico, attraverso la cd. Buona Scuola (legge n. 107/2015) e la complessa sanatoria a essa collegata, esito della nota vicenda sui contratti a termine (abusivi) nel Comparto dell’istruzione [40]. Non vi è [continua ..]
Da fanalino di coda [46], il divieto di discriminazione per ragioni connesse alla età si è imposto come il più praticato e il più dirompente [47] tra i fattori di discriminazione, sino a divenire un vero e proprio principio generale dell’ordinamento [48]. Il successo giudiziario era, in qualche misura, prevedibile per questo divieto elevato a parametro per il vaglio delle (numerosissime) previsioni nazionali che collegano all’età un vantaggio o, più spesso e per converso, uno svantaggio. Proprio il divieto in esame ha aperto la porta all’affermazione degli effetti diretti del principio di uguaglianza negli ordinamenti nazionali. Il trittico muove dalla più volte ricordata sentenza Mangold, ove si afferma che i divieti di discriminazione stabiliti dalle direttive sono «specificazione di un principio generale di eguaglianza e non discriminazione dotato di efficacia diretta (verticale e orizzontale), principio che preesiste alla loro adozione, con la conseguenza che anche le sue specificazioni producono effetti fra i privati e che i giudici nazionali sono tenuti a disapplicare ogni disposizione di legge non conforme anche in una controversia fra privati» [49]. Il secondo passaggio si è consolidato nella sentenza Kücükdeveci [50], con l’affermazione del principio di non discriminazione quale «espresso concretamente» dalla Direttiva (2000/78/CE), sicché, allorquando sia impossibile risolvere il contrasto attraverso l’interpretazione conforme, il giudice nazionale è comunque tenuto ad «assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica che il diritto dell’Unione attribuisce ai soggetti dell’ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni disposizione della normativa nazionale contraria a tale principio». Infine, con la sentenza Dansk Industri [51] la Corte di giustizia ha rafforzato l’idoneità del principio generale di non discriminazione in base all’età a produrre effetti diretti orizzontali, entrando poi nel merito del meccanismo di disapplicazione, per cui «(né) i principi della certezza del diritto e tutela del legittimo affidamento né la possibilità per il privato che si ritenga leso dall’applicazione di una disposizione nazionale contraria al [continua ..]