Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il tempo di lavoro dell'operaio agricolo a termine tra ambiguità tipologiche, trattamento diversificato e riflessi previdenziali (di Matilde D'Ottavio, Assegnista di ricerca in Diritto del lavoro, Università Politecnica delle Marche)


Il contributo si propone di analizzare la figura dell'operaio agricolo assunto a tempo determinato, in quanto caratterizzata da una disciplina, di fonte legale e collettiva, che combina la tipologia di lavoro flessibile con condizioni relative ai tempi di lavoro. Ne deriva una fattispecie complessa, che genera problemi di coordinamento con la complessiva regolamentazione europea ed anche con le regole previdenziali in materia di obbligazione contributiva. In particolare, un recente orientamento giurisprudenziale segnala l'esigenza di individuare, non solo in ambito previdenziale, un parametro temporale su cui incentrare la ricostruzione di una fattispecie di lavoro idonea a soddisfare sia le indicazioni comunitarie sia basilari istanze di certezza nella pretesa allo svolgimento della prestazione di lavoro.

The working time of the fixed-term agricultural worker between typological ambiguities, diversified treatment and social security implications

The essay aims to analyse the figure of the worker with a fixed-term employment contract in agriculture, since it is characterised by regulations, of legal and collective source, which combine the type of flexible work with working time conditions. This gives rise to a complex case, which generates some difficulties of coordination with both the overall European legislation and the security social rules concerning the contributory obligation. In particular, a recent line of case law points to the need to identify, not only in the security social matter, a time criterion on which to focus the construction of an employment type that is capable of granting both the conformity to the European legislation and basic instances of certainty in the claim to the performance of work.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. L’articolazione tipologica dell’operaio agricolo a termine e la “soglia” delle 180 giornate di lavoro annue - 3. Lavoro agricolo a termine e garanzia dell’orario giornaliero di lavoro - 4. Tempi di lavoro agricolo e obbligazione contributiva - 5. Tempi di lavoro agricolo a termine e parità di trattamento - 6. In appendice. Note minime sull’applicazione del decreto Trasparenza al lavoro agricolo a termine - NOTE


1. Premessa

La disciplina del lavoro subordinato prestato in agricoltura costituisce un’eccezione alle regole generali, seppur soltanto di carattere accidentale [1], a causa dell’influenza che sul settore esercita la natura, generando esigenze non misurabili, almeno fino ad oggi [2], con le logiche invece prevedibili e standardizzate della produzione industriale di massa [3]. Infatti, il lavoro agricolo deve coordinarsi con la durata dei cicli colturali agrari, dalla quale deriva il carattere “stagionale” del settore, con l’estrema eterogeneità fenologica delle colture ed anche con gli eventi di forza maggiore, in particolare le intemperie atmosferiche, qualificabili come cause di sospensione dell’attività non imputabili al datore di lavoro [4]. Tutti questi elementi, in uno alla complessità degli accertamenti ispettivi, spesso inducono le imprese agricole, tipicamente di medio-piccole dimensioni, al ricorso al lavoro sommerso, se non proprio all’interposizione di manodopera, specie straniera, che a sua volta sovente sfocia nel reato di sfruttamento [5]. Tuttavia, anche in un’ottica fisiologica occorre rilevare che le peculiarità del settore consentono o addirittura impongono l’instaurazione di rapporti di lavoro di breve o di brevissima durata, risultando in molti casi impossibile garantire un’occupazione stabile. Per queste ragioni la stessa disciplina tipologica dei rapporti di lavoro in agricoltura, soprattutto in relazione alle figure operaie, si è storicamente evoluta "in deroga" a quella generale. La normalità è infatti rappresentata dal ricorso al contratto a tempo determinato, non a caso espressamente escluso dall’applicazione della riforma del 2001 (art. 10, d.lgs. n. 368/2001), a seguito di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale formatosi in relazione alla previgente disciplina legale [6]. Nel mentre, le condizioni di utilizzo di questa tipologia di lavoro flessibile sono state ampiamente governate dalla contrattazione collettiva, anche di tipo provinciale, che si è pure ingegnata nel conformarle alle ulteriori specificità che, nel settore, interessano la gestione dei tempi di lavoro.


2. L’articolazione tipologica dell’operaio agricolo a termine e la “soglia” delle 180 giornate di lavoro annue

Quanto al profilo tipologico, va ricordato che il costante intreccio della fonte collettiva con le regole legali, a volte di carattere strettamente previdenziale, ha spesso generato potenziali incongruenze, con problemi interpretativi amplificati sia dall’articolazione della contrattazione al livello provinciale, sia dalla moltitudine degli stessi contratti di categoria [7], almeno fino alla essenziale unificazione del 1979 tra operai agricoli e lavoratori florovivaisti [8]. Peraltro, già in precedenza i Patti nazionali del 1973-74, cui si conformava la contrattazione nazionale, avevano sostituito la storica classificazione delle categorie dei braccianti agricoli e dei salariati fissi con quella generale degli operai agricoli a tempo determinato e a tempo indeterminato, individuando l’elemento distintivo nel parametro delle 180 giornate di lavoro effettivo nel­l’arco di 12 mesi dalla data di assunzione e nella garanzia di almeno 181 giornate annuali di effettivo lavoro per tutta la durata del rapporto [9]. Si affermava così, in via di sintesi, l’idea, in seguito assunta quasi a paradigma, per cui la figura dell’operaio agricolo a tempo indeterminato dovesse identificarsi con “un minimo di occupazione garantita per 180 giornate all’an­no” [10]. Tuttavia non si mancava di osservare come la principale contrattazione collettiva del 1977, poi ripresa da quella unificata del 1979, avesse in effetti già abbandonato l’identificazione del prestatore agricolo a tempo indeterminato sulla scorta di tale garanzia minima occupazionale, riconducendolo più semplicemente al concetto di “lavoratore assunto con rapporto di lavoro senza prefissione di termine che presta la propria opera alle dipendenze di una impresa agricola o associata” [11]. Di conseguenza gli operai agricoli a termine, in linea con la disciplina generale della legge n. 230/1962, erano individuati in quelli “assunti per l’ese­cuzione di lavori di breve durata, stagionali o a carattere saltuario oppure assunti per fase lavorativa o per la sostituzione di operai assenti per i quali sussista il diritto alla conservazione del posto”. Ciò nonostante, in quella stessa contrattazione il requisito delle 180 giornate di lavoro effettivo manteneva una funzione di tutela, garantendo la trasformazione del rapporto qualora il requisito fosse maturato alle [continua ..]


3. Lavoro agricolo a termine e garanzia dell’orario giornaliero di lavoro

Questi delicati problemi interpretativi segnalano, in ogni caso, che tanto la disciplina legale quanto quella collettiva si incentrano, da decenni, sulla giornata di lavoro quale elemento che caratterizza la posizione contrattuale dell’o­peraio a tempo determinato dell’agricoltura [23]. Senonché, la giornata di lavoro costituisce anche il parametro su cui misurare il “tempo di adempimento” delle prestazioni dell’operaio agricolo, sempre in ragione delle caratteristiche di discontinuità della produzione del settore, di per sé inidonea ad assicurare una collocazione temporale certa, perlomeno sul lungo periodo, alle attività di lavoro. Ed anzi va ricordato che, rispetto alla originaria ipotesi di lavoro a termine giustificato da esigenze saltuarie o stagionali, il tentativo di assumere quale base di computo del tempo di lavoro la “fase lavorativa”, intesa come un’operazione fondamentale tra quelle in cui si articola il ciclo produttivo annuale delle principali colture agrarie, mirava proprio ad offrire una maggiore stabilità al rapporto rispetto al criterio della giornata [24]. In effetti, in agricoltura è innanzitutto l’orario di lavoro, inteso nella sua accezione quantitativa, ad essere condizionato dalle peculiarità del settore, dal momento che proprio il “tempo di lavoro” risulta intimamente connesso ai ritmi della produttività colturale, alle variabili stagionali ed ai repentini cambiamenti degli stati atmosferici. Tuttavia, malgrado gli eventi esterni interessino tutte le tipologie contrattuali, la contrattazione collettiva di settore stabilisce la quantità temporale delle prestazioni – e in questo senso regola l’orario di lavoro – in modo differente per gli operai agricoli a tempo indeterminato e determinato. Soltanto i primi, infatti, risultano protetti dal rischio della discontinuità delle prestazioni mediante l’applicazione delle regole generali di tutela del lavoro, come peraltro già conferma il rilievo per cui soltanto i rapporti a termine sono espressamente esclusi dalla disciplina legale della durata settimanale dell’orario, ai sensi dell’art. 16, comma 1, lett. g), d.lgs. n. 66/2003 [25]. Il contratto collettivo nazionale per gli operai agricoli e florovivaisti [26], quale principale fonte di regolamentazione della materia, fissa in [continua ..]


4. Tempi di lavoro agricolo e obbligazione contributiva

La problematica attinente all’orario di lavoro nel settore dell’agricoltura rileva anche in ambito previdenziale, perché va ad intersecarsi con il sistema di calcolo dei contributi che il datore di lavoro è obbligato a versare agli enti previdenziali e, in particolare, con l’istituto del “minimale contributivo” di cui all’art. 1, d.l. n. 338/1989, appunto in quanto condizionato dal “fattore tempo”. Le questioni finora esaminate vanno dunque rapportate anche alla disciplina previdenziale. D’altra parte, è in questa prospettiva che il ricordato orientamento della Cassazione sostiene, in forza dell’impostazione criticata, che i contributi previdenziali devono essere calcolati soltanto sulle “ore di lavoro effettivamente prestate” e su quelle in cui risulti che il datore di lavoro abbia disposto la permanenza in azienda dell’operaio a termine in occasione delle interruzioni individuate dalla fonte negoziale [34]. Infatti proprio in relazione a tale questione la Corte afferma chiaramente che un diverso “dovuto” in termini di minimale contributivo non può essere desunto nemmeno dall’inter­pre­tazione estensiva della norma sull’orario normale di lavoro predisposta dalla contrattazione collettiva, in quanto incompatibile con la diversa disciplina che è riservata agli operai a termine. Per quanto finora osservato sulla previsione, da parte del contratto collettivo di settore, di due differenti regimi orari, rispettivamente applicabili ai rapporti di lavoro agricolo a tempo determinato e indeterminato, può certamente essere confermato il riferimento a due distinte basi imponibili per il calcolo dei contributi, in quanto determinati su diverse quantità temporali delle prestazioni di lavoro retribuibili. È evidente, infatti, che per gli operai a tempo indeterminato, a cui è assicurato un orario di lavoro settimanale oggettivo e predefinito, il calcolo dei contributi previdenziali va effettuato, in assenza di prestazioni aggiuntive, sulla retribuzione minima dovuta per 39 ore settimanali, a prescindere da eventuali pattuizioni difformi in pejus e ovviamente dall’effettiva erogazione della retribuzione, in considerazione del “principio di autonomia” che governa il rapporto tra l’obbligazione retributiva e quella contributiva [35]. Quanto alla disciplina [continua ..]


5. Tempi di lavoro agricolo a termine e parità di trattamento

Le condizioni di occupazione e di lavoro in cui versano gli operai a tempo determinato nel settore dell’agricoltura stimolano ulteriori considerazioni in relazione alla direttiva 1999/70/CE, che da un lato garantisce la parità di trattamento dei lavoratori a tempo determinato con quelli a tempo indeterminato comparabili e, dall’altro, intende prevenire l’utilizzo abusivo del lavoro a termine nell’ambito delle successioni di contratti. In particolare, la riflessione è imposta da un passaggio argomentativo di una delle sentenze di legittimità finora analizzate [39], la quale, senza entrare nel merito della questione, esclude soltanto che l’ente previdenziale sia munito di legittimazione rispetto al principio di “non discriminazione” sancito dall’art. 4 della direttiva. Quest’ultimo, infatti, opererebbe esclusivamente sul piano privatistico, sicché sarebbe ipoteticamente azionabile dai soli lavoratori a termine. In forza delle sue conclusioni, la pronuncia pertanto nega che rispetto alle pretese contributive dell’ente sia configurabile un “super principio” di orario di lavoro a tempo pieno, secondo quanto invece affermato dal giudice del gravame in relazione ad un orario settimanale [40]. In questo modo resta però inesplorata proprio l’applicazione del principio di parità di trattamento nella relazione contrattuale. Tuttavia la questione sembra meritare un approccio differente da quello seguito, con impostazioni assai divergenti, nei diversi gradi di quel giudizio. Invero, l’impressione è che tanto la pronuncia di merito, quanto quella di legittimità, si muovano sul piano delle norme di disciplina del rapporto, ed in particolare del tempo di lavoro, omettendo di considerare che, nel caso del lavoro in agricoltura, quella stessa disciplina è un elemento costitutivo della fattispecie a termine. Infatti, come visto, la fonte collettiva, cui la legge demanda la regolazione della materia, ha individuato nella quantità di giornate di occupazione o, rispettivamente, di lavoro effettivo l’elemento costitutivo di due causali di ricorso al lavoro a termine. Pertanto, nel caso del lavoro agricolo il tempo di lavoro concorre a definire i presupposti di legittimità della tipologia di lavoro flessibile, la quale, così elaborata, è anche “intrinsecamente” discriminatoria [continua ..]


6. In appendice. Note minime sull’applicazione del decreto Trasparenza al lavoro agricolo a termine

All’interno di questo complicato quadro normativo, la garanzia di un orario di lavoro giornaliero non sembra comunque risolvere la diversa questione attinente alla compatibilità della disciplina collettiva del lavoro agricolo a tempo determinato con le previsioni del d.lgs. 27 giugno 2022, n. 104 (c.d. Decreto Trasparenza), almeno secondo l’interpretazione letterale che sembra emergere dalla nuova normativa. Va premesso che il lavoro agricolo, senza distinzioni, è espressamente incluso nella disciplina generale del decreto (art. 1, comma 1, lett. a). Quanto al regime delle informazioni obbligatorie, il lavoro agricolo a termine sembra riconducibile alla previsione dell’art. 4, comma 1, lett. p), in quanto caratterizzato non solo dall’impossibilità di programmare un orario normale di lavoro, qui inteso almeno come fascia temporale, ma ancor prima dalla imprevedibilità delle modalità organizzative, appunto rilevante rispetto alle giornate di lavoro annuali. Ne consegue che, pure in base all’attuale stato della disciplina collettiva, il decreto Trasparenza sembra adeguarsi soltanto alla causale del lavoro a termine saltuario e stagionale, mentre per le altre due tipizzazioni risulta comunque estremamente difficile, se non proprio impossibile, garantire al singolo lavoratore, in via preventiva e formalmente documentata, il diritto all’informazione circa “le ore e i giorni di riferimento in cui è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative”. Peraltro, la distinta informazione sulla “variabilità della programmazione del lavoro e l’ammontare minimo delle ore retribuite garantite”, qualora riferita ad una quantità minima garantita di giornate di occupazione o di lavoro effettivo, dovrebbe confermare ulteriormente l’impossibilità di prescindere dal­l’orario giornaliero ai fini retributivi, imponendo una lettura ancora più restrittiva delle ragioni organizzative che determinino l’interruzione della prestazione. Invece l’informazione concernente il periodo minimo di preavviso a cui l’operaio ha diritto prima dell’inizio della prestazione lavorativa, pur praticabile rispetto alle singole giornate di lavoro, finirebbe per alimentare i dubbi sul carattere “a chiamata” della fattispecie. In questa prospettiva – ferme le criticità riscontrate sul piano negoziale [continua ..]


NOTE