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Profili lavoristici della legislazione antiebraica fascista
Mirko Altimari, Ricercatore di Diritto del lavoro, Università Cattolica di Milano
Sebbene in apparenza secondari rispetto ad altri aspetti, i profili lavoristici che scaturirono dall'applicazione della legislazione antisemita fascista ebbero conseguenze rilevanti per migliaia di ebrei italiani. Il saggio ha quale scopo quello di tratteggiare i principali istituti, spesso negletti, derivanti dalla legislazione razzista del 1938. Al contempo appare necessario evidenziare come le misure “riparative”, poste in essere successivamente alla caduta del regime fascista, rimasero in molti casi ineffettive, anche a causa di un approccio eccessivamente timido di ampia parte della magistratura del tempo.
The labour law profiles of the implementation of fascist anti-Semitic legislation have had relevant effects for thousands of Italian jews, even if the issue has not always been deeply analysed. The purpose of the essay is to outline the main institutions arising from the racist legislation of 1938. At the same time, it appears necessary to highlight how the “reparatory” measures implemented after the end of the fascist regime remained often ineffective, even because of a too cautious approach of a large part of Italian courts.
Sommario:
1. Alcune questioni introduttive - 2. La legislazione del 1938 - 3. I provvedimenti nelle istituzioni formative: scuole e università - 4. La Magna Charta della persecuzione [30]: il r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728 - 5. L’istituto della discriminazione - 6. L’esercizio delle professioni ordinistiche e gli altri divieti (anche di fonte amministrativa) - 7. La precettazione civile e la proposta di mobilitazione totale degli ebrei al servizio del lavoro - 8. L’abrogazione della normativa del 1938 e la lacunosa legislazione riparatoria - 9. I lavori della c.d. “Commissione Anselmi” sui beni sottratti ai cittadini ebrei: cenni - 10. Le provvidenze riconosciute ai perseguitati politici antifascisti e ai perseguitati dalle leggi razziali e ai loro familiari: le modifiche introdotte dalla legge di bilancio per il 2021 - NOTE
1. Alcune questioni introduttive
Il tema degli aspetti giuslavoristici delle leggi fasciste antiebraiche, nonché di quelle che, in una recente monografia di carattere storico, sono state definite le conseguenze economiche [1] di quella infame [2] legislazione, non è stato storicamente molto arato dalla dottrina, ma alcuni Autori hanno rimediato a questo oblio pluridecennale per una vicenda tragica della storia dell’ordinamento nazionale [3]. Tale circostanza non stupisce quanti considerano la disattenzione all’analisi dell’antisemitismo giuridico quale il riflesso di «un certo ritardo della storiografia giuridica ad affrontare il tema del fascismo sub specie iuris» [4]. Tale affermazione è però, almeno parzialmente, da rivedere: vero è che ci furono anni di silenzio ma la storiografia storico-giuridica ha comunque avuto un deciso cambio di prospettiva a partire dal 1988, data del cinquantesimo anniversario delle leggi antiebraiche, che, sul piano della ricerca storiografica, «ha segnato un’autentica inversione di tendenza e l’inizio di una nuova epoca» [5]. Ovviamente non si vuole affrontare in questa sede né la questione del rapporto tra fascismo e lavoro né proporre una storiografia del rapporto tra fascismo e antisemitismo, o – ancora più in generale – tra fascismo ed ebrei italiani. Su questo aspetto però un elemento da tenere in considerazione, anche perché funzionale a quanto si dirà in ordine alla effettiva portata della legislazione razzista, concerne la financo banale riflessione per cui i cittadini di fede (o comunque di cultura) ebraica, essendo parte attiva della società italiana e non rappresentandone un corpo estraneo, come invece l’antisemitismo andava ripentendo, avevano evidentemente opinioni di carattere politico tutt’altro che monolitiche e non erano pochi coloro i quali avevano aderito al fascismo, seguitando a sostenerlo anche dopo l’assassinio Matteotti e il consolidamento del regime [6]. Altra questione preliminare è quella di stabilire il numero della popolazione ebraica in quegli anni; non a caso la notissima monografia di De Felice [7] si apre proprio affrontando tale problema e, rimandando a quegli scritti per un approfondimento, in questa sede basterà riportare come gli ebrei residenti in Italia fossero 47 mila di cittadinanza italiana e [continua ..]
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2. La legislazione del 1938
Con riferimento alla legislazione del 1938, in questa sede appare utile rimarcare la sostanziale continuità normativa – mutatis mutandis – tra razzismo coloniale e razzismo antisemita [13]. In sostanza, la costruzione giuridica dell’altro e del diverso, nelle colonie, sebbene più semplice o, meglio, più agevolmente accettata – costituì una delle basi teoriche per la legislazione antiebraica, la quale rappresentò l’apice «dell’eversione giuridica fascista» posta in essere, tra l’altro, a costituzione invariata, senza la necessità di dover formalmente superare lo Statuto albertino [14]. Allo stesso tempo per perseguire gli scopi propri della legislazione antisemita non fu necessario privare gli ebrei della cittadinanza dal momento che, di fatto, la si svuotò di ogni contenuto. È l’art. 8 del r.d. del 1938, n. 1728 a disporre che, agli effetti di legge: «a) è di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se appartenga a religione diversa da quella ebraica; b) è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di cui uno di razza ebraica e l’altro di nazionalità straniera; c) è considerato di razza ebraica colui che è nato da madre di razza ebraica qualora sia ignoto il padre; d) è considerato di razza ebraica colui che, pur essendo nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, appartenga alla religione ebraica, o sia, comunque, iscritto ad una comunità israelitica, ovvero abbia fatto, in qualsiasi altro modo, manifestazioni di ebraismo. Non è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori di nazionalità italiana, di cui uno solo di razza ebraica, che, alla data del 1º ottobre 1938, apparteneva diversa da quella ebraica». In sintesi, dall’analisi dall’art. 8 emergevano tre distinte categorie: (i) gli ebrei (lett. a); ii) coloro i quali erano comunque considerati ebrei (lett. b, c, d); (iii) i non appartenenti alla «razza» ebraica. Come è stato evidenziato, la nozione giuridica [15] pur muovendo dal dato asseritamente biologico, in realtà collegava alla stessa altresì l’elemento religioso con quello della nazionalità e della iscrizione alla comunità ebraica: il [continua ..]
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3. I provvedimenti nelle istituzioni formative: scuole e università
Quelli riguardanti le istituzioni formative e le accademie furono tra i primi provvedimenti di un corpus razziale molto fitto. Si tratta della legislazione [16] tristemente nota perché determinò l’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole di ogni ordine e grado [17]. Con riferimento ai lavoratori del settore la stessa determinò l’estromissione – rectius, la dispensa dal servizio nel più neutro lessico del legislatore – «delle persone di razza ebraica da qualsiasi ufficio od impiego nelle scuole di ogni ordine e grado, pubbliche e private, frequentate da alunni italiani» (art. 1, r.d.l. n. 1779/1938). La nozione di ufficio e impiego veniva interpretata in senso ampio, ricomprendendo altresì gli istituti di educazione, pubblici o privati, e quelli per la vigilanza nelle scuole elementari. Le «comunità israelitiche» o «persone di razza ebraica» potevano istituire scuole elementari e medie per i soli «fanciulli di razza ebraica»; si ammetteva per i soli alunni ebrei che professassero la religione cattolica l’iscrizione nelle scuole elementari e medie «dipendenti dalle Autorità ecclesiastiche» (art. 3, comma 2). Nelle Università [18] si vietava l’ammissione alla libera docenza, sospendendo dal servizio anche gli aiuti assistenti universitari. Più in generale la legge precludeva agli studenti ebrei l’accesso allo studio universitario – ricomprendente i Conservatori e le Accademie di belle arti – concedendo soltanto di terminare gli studi a coloro i quali li avessero già intrapresi [19]. Venne altresì prescritto il divieto di adozione di libri di testo di autori ebrei (financo quando tali fossero gli eventuali coautori o addirittura i commentatori o revisori) in cui – per quanto possa apparire grottesco prima ancora che tragico – furono coinvolti persino gli autori «delle cartine geografiche murali» [20]. Molto si è scritto circa l’accoglimento, tutt’altro che ostile, almeno in maniera manifesta, di tali disposizioni nell’ambiente accademico. Orbene proprio al fine di fornire qualche ulteriore spunto di approfondimento non si può omettere di ricordare, in questa sede, l’introduzione nel 1931 del giuramento di fedeltà al fascismo (rectius, al re e al regime fascista) per i [continua ..]
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4. La Magna Charta della persecuzione [30]: il r.d.l. 17 novembre 1938, n. 1728
Una annotazione iniziale: il 14 dicembre 1938 vennero approvati dalla Camera cinque decreti legge in materia di persecuzione antiebraica e nella stessa seduta venne soppressa la stessa Camera dei deputati e istituita la Camera dei Fasci e delle corporazioni. Al Senato si ebbero dei voti contrari: si tenga conto che vi erano nove senatori di origine ebraica [31]. Ritornando al r.d.l. n. 1728/1938, già analizzato nel secondo paragrafo limitatamente alla definizione di ebreo, tale provvedimento all’art. 10 dispone una serie molto nutrita di divieti, alcuni dei quali rilevano, in maniera indiretta, anche dal nostro precipuo angolo visuale. Alla luce dello stesso i «cittadini italiani di razza ebraica» non potevano, ad esempio, prestare servizio militare; «essere proprietari o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate interessanti la difesa della Nazione»: si trattava di un elenco nutrito di aziende, direttamente o indirettamente connesse alla difesa, si pensi all’industria siderurgica, ad esempio; in ogni caso questo divieto di estendeva, al di là dell’ambito produttivo, ad aziende di qualunque natura con più di cento dipendenti. In tali aziende i cittadini ebrei non potevano assumere né la direzione né svolgere l’ufficio di amministratore o di sindaco. Si prevedevano limiti stringenti anche alla proprietà di terreni (con un estimo superiore a cinquemila lire) ovvero di fabbricati urbani (che, in complesso, avessero un imponibile superiore a lire ventimila). Con un successivo decreto del 9 febbraio 1939 furono previste ulteriori norme di attuazione ed integrazione delle disposizioni appena presentate, che rendevano ancora più severa la disciplina sui limiti relativi alle proprietà immobiliare e alle attività industriali e commerciali per i cittadini ebrei. All’interno di quel decreto trovano collocazione anche le norme costitutive dell’Ente di gestione e liquidazione immobiliare (Egeli) [32], istituito allo scopo di curare la gestione e la liquidazione dei beni ebraici espropriati, affidando, tra l’altro, a istituti di credito fondiario le deleghe alla gestione e alla vendita degli immobili trasferiti all’ente. Tralasciando il complesso iter disciplinato nel decreto con riferimento alle limitazioni alle proprietà immobiliari (e va da sé che si ponevano notevoli problemi sia dal punto [continua ..]
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5. L’istituto della discriminazione
Fin qui sono state analizzate le stringenti limitazioni poste nell’ambito del lavoro subordinato. Un peculiare istituto già evocato – e che rileva anche in tema di lavoro autonomo, come si dirà – è quello della discriminazione, normato all’art. 14 del decreto n. 1728/1938. Preliminarmente è indispensabile una premessa che riguarda l’uso stesso del termine, che tradisce un capovolgimento, non solo lessicale, della realtà: nella concezione del diritto razzista «discriminato era l’ebreo cui fosse concesso di evitare quelle conseguenze negative [invero soltanto alcune n.d.a.] che il regime riteneva derivanti da un ordine naturale delle cose. Discriminare consisteva nel porsi in contrasto, in via eccezionale, con le leggi di natura inerenti […] la prevalenza della razza ariana e la soccombenza di tutte le altre» [36], per via di una concessione del gerarca o del burocrate di turno. Infatti il Ministero dell’interno [37] poteva, su istanza degli interessati, dichiarare, caso per caso, non applicabili alcune delle disposizioni fin qui oggetto di analisi, ed in particolare quelle contenute all’art. 10 – id est le limitazioni relative alla proprietà/gestione delle aziende come colà individuate nonché le restrizioni sulle proprietà immobiliari – nonché l’art. 13, lett. h, riferito dunque soltanto alla possibilità di impieghi presso imprese di assicurazioni private: nessuna eccezione era dunque contemplata per l’impiego presso le istituzioni scolastiche e universitarie nonché presso i datori di lavoro pubblici ampiamente intesi. Tale provvedimento di discriminazione, nella accezione già indicata, poteva essere concesso in presenza di una serie di circostanze quali l’appartenenza a una famiglia di caduti o di feriti nelle guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola e dei caduti per la causa fascista, ovvero ai mutilati, invalidi, feriti, volontari di guerra o decorati al valore nelle guerre suindicate, o quanti – combattenti – avessero ottenuto la croce al merito di guerra, nonché ai legionari fiumani, agli iscritti al Pnf negli anni dal 1919 al 1922 e nel secondo semestre del 1924. Il beneficio poteva essere esteso anche ai familiari. Si prevedeva inoltre una sorta di norma di chiusura disponendo che il provvedimento di discriminazione potesse [continua ..]
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6. L’esercizio delle professioni ordinistiche e gli altri divieti (anche di fonte amministrativa)
In tema di professioni ordinistiche intervenne la legge 29 giugno 1939, n. 1054, la quale regolamentava l’esercizio, per i cittadini ebrei, delle professioni di giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale. L’art. 2 vietava l’esercizio della professione di notaio a tutti i cittadini ebrei; parimenti vietato, di fatto, era lo svolgimento della professione di farmacista (art. 21) potendosi esercitare soltanto in quelle istituite ai sensi dell’allora vigente Testo unico delle leggi sanitarie approvato con r.d. 27 luglio 1934, n. 1265 – il cui art. 14 consentiva ad istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza o alle istituzioni ospedaliere di gestire farmacie interne esclusa qualsiasi facoltà di vendita di medicinali al pubblico, purché – aggiungeva l’art. 21 della legge n. 1054/1939 – «l’ente cui la farmacia appartiene svolga la propria attività istituzionale esclusivamente nei riguardi di appartenenti alla razza ebraica». La professione di giornalista (art. 2, secondo periodo) era invece vietata a meno che non si fosse destinatari di un provvedimento di discriminazione. Anche con riferimento all’esercizio delle altre professioni sopra elencate rilevava l’eventuale “beneficio” derivante dalla discriminazione, prevedendosi – laddove presente – l’iscrizione in elenchi aggiuntivi, in appendice ai “normali” albi, mentre per gli ebrei non discriminati (si è ben consci che si tratti di dizione invero farsesca e al contempo tragica) era disposta l’iscrizione in elenchi speciali. Le limitazioni erano estremamente rilevanti: a tutti i professionisti ebrei non potevano essere conferiti incarichi dai quali derivasse la funzione di pubblico ufficiale, né era consentito loro di esercitare attività per conto di enti pubblici, fondazioni, associazioni; era prevista inoltre l’esclusione dai ruoli dei revisori ufficiali dei conti, dei periti e degli amministratori giudiziari. I professionisti iscritti negli elenchi speciali invece potevano esercitare la professione «esclusivamente a favore di persone appartenenti alla razza ebraica, salvi i casi di comprovata necessità ed [continua ..]
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7. La precettazione civile e la proposta di mobilitazione totale degli ebrei al servizio del lavoro
Altro esempio paradigmatico di quell’aspetto delle persecuzioni antiebraiche di fonte amministrativa, è rappresentato dall’istituto della c.d. precettazione civile a scopo di lavoro, posto in essere a partire dal maggio 1942. Si tratta di uno dei provvedimenti connessi allo stato di guerra che annovera più di un punto di contatto con il c.d. internamento civile, che merita una breve descrizione perché la genesi dei due istituti – pur differenti tra loro, come brevemente si analizzerà – segna una escalation nella direzione di quella persecuzione della vita degli ebrei che ebbe poi il suo culmine a partire dall’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca, con la nascita in quelle settimane della Repubblica sociale e con il famigerato rastrellamento del ghetto di Roma che risale al 16 ottobre 1943. L’internamento civile – che solo negli ultimi decenni è stato oggetto di approfondimento scientifico da parte della storiografia [45] – consisteva nell’allontanamento dai luoghi di residenza e nella prigionia in appositi campi degli individui considerati ostili al regime ovvero, secondo il linguaggio dell’epoca, disfattisti o sovversivi. Sebbene dunque non fosse un istituto rivolto agli ebrei tout-court bensì a quelli che fossero ritenuti «pericolosi», tuttavia la sua concreta attuazione mise subito in chiaro che i soggetti coinvolti dovevano essere considerati in primo luogo ebrei e poi internati: «infatti, sui fascicoli personali degli israeliti italiani sottoposti al provvedimento, appare anzitutto la parola «ebreo», mentre la motivazione politica (a rigore era la sola responsabile della comminazione dell’internamento) è aggiunta secondariamente» [46]. Detta in altri termini: l’essere ebrei di per sé non determinava l’internamento ma in molti casi la valutazione circa la pericolosità (evidentemente nella logica del regime) di un individuo non aveva altro fondamento che l’appartenenza dello stesso all’ebraismo. Le circostanze fin qui riportate sono determinanti per comprendere il contesto entro il quale viene istituita la c.d. precettazione civile a scopo di lavoro. Nel maggio 1942 una circolare inviata ai prefetti dalla Direzione della Demografia e della Razza disponeva che, a partire da quel momento, tutti gli ebrei di età dai 18 [continua ..]
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8. L’abrogazione della normativa del 1938 e la lacunosa legislazione riparatoria
La complessa opera di abrogazione della legislazione antiebraica si ebbe a partire dai regi decreti nn. 9, 25 e 26 del gennaio 1944, sebbene alcune disposizioni in tema di reintegrazione dei diritti patrimoniali sarebbero entrate in vigore soltanto a partire dal mese di ottobre dello stesso anno. Nelle premesse di cui alla citata legislazione si riportava «la urgente ed assoluta necessità di reintegrare nei propri diritti anteriori i cittadini italiani appartenenti alla razza ebraica per riparare prontamente alle gravi sperequazioni di ordine morale e politico create da un indirizzo politico infondatamente volto alla difesa della razza». Tuttavia la densa produzione legislativa [55] nata dall’esigenza puntuale di abrogare le leggi antiebraiche, il cui apice fu raggiunto nel periodo successivo alla Liberazione e nei mesi precedenti la formazione della Repubblica, non fu né di rapida applicazione né, soprattutto, del tutto soddisfacente a reintegrare i diritti dei perseguitati, anzi: si trattò di una normativa «assai lacunosa che permise solo parzialmente di riannodare i fili spezzati dalla persecuzione» [56]. Dopo il 1948 vi fu un periodo di stallo nell’attività legislativa riparatoria e merita di essere segnalata, qualche anno dopo, la promulgazione della legge n. 26/1955 rubricata “Provvidenze a favore dei perseguitati politici antifascisti o razziali e dei loro familiari superstiti”, che sarà oggetto di approfondimento nel seguito. Il contenzioso che seguì alla normativa reintegratoria fu copioso: basti qui solo accennare al tema, che esula dal presente contributo, delle espropriazioni immobiliari e della retrocessione dei beni detenuti dall’Egeli o più in generale al ripristino dei diritti patrimoniali tenuto conto che la normativa faceva salvi «i diritti acquistati da terzi nei casi in cui la legge ammetteva la legittimità dell’acquisto per effetto del possesso di buona fede» [57]. Ciò che rileva evidenziare in questa sede furono «le resistenze nell’applicazione delle leggi» [58] e un certo orientamento giurisprudenziale [59] tendente all’interpretazione restrittiva delle stesse. Certamente anche la normativa riparatoria concernente le disposizioni lavoristiche si colloca entro questa tendenza più generale, con alcune importanti [continua ..]
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9. I lavori della c.d. “Commissione Anselmi” sui beni sottratti ai cittadini ebrei: cenni
Che la normativa lato sensu riparatoria abbia risentito di una formulazione talora ambigua e di una applicazione spesso timida e formalistica, che ne ha senz’altro limitato l’effettività, lo provano plasticamente anche i lavori della c.d. Commissione Anselmi, istituita a sessant’anni di distanza dalla legislazione fascista antiebraica, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, con Dpcm 1° dicembre 1998, al precipuo scopo di ricostruire le vicende «che hanno caratterizzato in Italia le attività di acquisizione dei beni dei cittadini ebrei da parte di organismi pubblici e privati». Si è trattato di un lavoro imponente, che ha analizzato in maniera completa non solo la normativa ma anche l’esatto funzionamento dell’Egeli, le spoliazioni poste in essere e le (non sempre corrispondenti) restituzioni. Oltre a questa parte di carattere generale il rapporto finale [67] presenta una sezione relativa a minuziosi approfondimenti settoriali – ad esempio in tema di beni industriali e commerciali, nel settore delle assicurazioni e soprattutto su quello bancario – nonché di carattere territoriale, esaminando alcune realtà locali. A più di vent’anni dalla redazione del rapporto, che ha finalizzato i lavori della Commissione, appare importante concentrarsi anche sulla parte finale dello stesso, che contiene ragionevoli raccomandazioni di carattere programmatico destinate alle istituzioni della Repubblica. Alcune di esse riguardano la conservazione della memoria e la promozione educativa nonché l’ambito archivistico e di ricerca, al fine di non disperdere l’archivio costituito presso la Commissione e poterlo valorizzare anche perché foriero di molti possibili e inesplorati filoni di ricerca. Con riferimento invece alla materia dei risarcimenti individuali la Commissione auspicava che il governo rendesse «sollecitamente possibili i risarcimenti individuali alle vittime di sequestri, confische e furti avvenuti negli anni 1938-1945 e nell’ambito della persecuzione antiebraica. E ciò in collegamento con i beneficiari aventi titolo e gli organismi che li rappresentano» (p. 538 del rapporto), anche in considerazione della circostanza per cui a oltre sessant’anni dagli eventi erano ancora consistenti i casi di mancata restituzione dei beni, soprattutto riguardanti quelli non reclamati dagli aventi [continua ..]
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10. Le provvidenze riconosciute ai perseguitati politici antifascisti e ai perseguitati dalle leggi razziali e ai loro familiari: le modifiche introdotte dalla legge di bilancio per il 2021
La vicenda che si analizza nel presente paragrafo, in tema di “benefici” riconosciuti ai perseguitati è parimenti esemplare di come una certa farraginosità applicativa e, prima ancora, una disattenzione nella formulazione delle norme abbia frenato l’effettività delle misure riparative, sino all’epoca più recente [69]. Al contempo una modifica normativa intervenuta negli anni scorsi sembrerebbe poter chiudere il cerchio di una questione veramente annosa, alla quale in questa sede, per economia di spazi, si farà un rapido quanto doveroso cenno. La legge 10 marzo 1955, n. 96 [70] attribuì una provvidenza di carattere economico a due categorie di cittadini: i perseguitati antifascisti e i perseguitati razziali. Tralasciando la questione, non meramente formale, circa la natura dell’assegno vitalizio di benemerenza [71], occorre evidenziare come l’art. 1 della legge, nella formulazione risultante da una pluralità di novelle legislative intervenute nel tempo, attribuisca l’assegno a quanti «siano stati perseguitati a seguito dell’attività politica da loro svolta contro la dittatura fascista e abbiano subito una perdita della capacità lavorativa in misura non inferiore al 30 per cento», qualora causa immediata e diretta della stessa siano state a) la detenzioni in carcere per reato politico; b) l’assegnazione al confino; c) «atti di violenza o sevizie da parte di persone alle dipendenze dello Stato o appartenenti a formazioni militari o paramilitari fasciste, o di emissari del partito fascista». L’ultimo comma della versione originaria della norma estendeva la misura, ideata dunque per i perseguitati politici, ai cittadini che dopo il 7 luglio 1938 avessero subito persecuzioni per motivi d’ordine razziale [72] aggiungendo che il diritto all’assegno di benemerenza dovesse ritenersi integrato «nelle identiche ipotesi» già analizzate. L’art. 3 della legge specifica inoltre che l’assegno è attribuito – integrati i requisiti succitati – a quanti si trovino in condizioni di bisogno economico. Non vi era dunque una autonoma valutazione della fattispecie riferita ai perseguitati delle leggi antiebraiche né delle cause prese in considerazione poiché determinanti la perdita della capacità lavorativa, id est [continua ..]
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NOTE