Il saggio si propone di approfondire il tema della condizione lavorativa delle donne per l’impatto che questa può avere sull’intensità lavorativa a livello familiare e, dunque, sulla diffusione dell’in-work poverty. Sono considerate le politiche dirette a garantire un’effettiva parità tra donne e uomini, oltre che pari opportunità nel mercato del lavoro, e quelle dirette a favorire la conciliazione dell’attività lavorativa con le esigenze di cura, nell’ottica di favorire una maggiore redistribuzione di tali responsabilità nella famiglia.
Parole chiave: conciliazione – discriminazione – gender pay gap – pari opportunità – povertà lavorativa.
The paper investigates the issue of the working conditions of women for the impact that they can have on the work intensity of the household and, therefore, on the spread of in-work poverty. It addresses the policies aimed at achieving equality between women and men, as well as equal opportunities in the labour market, and policies aimed at facilitating the work-life balance for workers with caring responsibilities, with a view of encouraging a more equal sharing of these caring responsibilities.
Keywords: work-life balance – discrimination – gender pay gap – equal opportunities – in-work poverty.
1. La lunga strada verso la parità di genere e il contrasto alla “povertà nelle famiglie di lavoratori” - 2. Il bilanciamento tra parità di diritti e speciale protezione - 3. La parità e la trasparenza in materia retributiva: un primo passo nella giusta direzione - 4. Tecniche e nozioni per promuovere la parità di genere nel mondo del lavoro - 5. Gli strumenti per favorire l’equilibro tra lavoro e vita privata: a) i congedi - 6. Segue: b) l’orario di lavoro e le modalità di lavoro flessibili - 7. La parità e l’adeguata protezione del lavoro femminile quali strumenti per il contrasto all’in-work poverty - NOTE
La povertà lavorativa in Italia dipende da un’interazione “di bassi salari annuali percepiti da un’alta quota di lavoratori” e un “numero limitato di percettori di reddito in molte famiglie” [1]. Nella letteratura che si occupa di in-work poverty è ampiamente riconosciuto che si tratta di un fenomeno connesso ad una pluralità di fattori, di cui uno dei principali è proprio la bassa intensità lavorativa a livello di nucleo familiare [2], tanto che di recente, nel tentativo di mettere in risalto questo aspetto, taluno ha parlato di “povertà nelle famiglie di lavoratori”, una nozione da accostare al concetto di “lavoro povero”, che invece fa riferimento alla dimensione individuale della povertà lavorativa [3]. Il presente contributo approfondirà alcuni aspetti relativi alla dimensione familiare, specialmente quelli connessi alle scelte e ai “vincoli, nella partecipazione al mercato del lavoro”, dei componenti della famiglia potenzialmente parte della popolazione attiva [4]. A conferma del fatto che le caratteristiche del nucleo familiare sono uno dei fattori chiave dell’in-work poverty come definita dall’indicatore europeo [5], si consideri, a titolo esemplificativo, che in Italia nel 2019 nei nuclei familiari costituiti da un solo lavoratore la povertà era pari al 6,9%, in quelli composti da due adulti senza figli aveva raggiunto il 16,7%, mentre superava il 24% nelle famiglie composte da un genitore single con un figlio a carico [6]. Accanto a tali dati è di rilievo l’in-work at-risk-of-poverty rate in relazione all’intensità lavorativa del nucleo familiare: il rischio infatti aumenta molto nel caso di nuclei familiari con una media o bassa intensità lavorativa, con percentuali rispettivamente pari al 26,3% e al 39,6% [7]. In modo controintuitivo, l’incidenza della povertà lavorativa è più elevata per gli uomini rispetto a quanto non lo sia per le donne [8], nonostante queste ultime siano mediamente meno retribuite e abbiano più spesso contratti di lavoro temporanei o part-time [9]. La ragione di questo “paradosso” – come è stato definito per l’immagine poco realistica che restituisce del mercato del lavoro, viste le maggiori [continua ..]
Le pari opportunità tra uomini e donne sono un principio fondamentale a livello nazionale e sovranazionale. Nel diritto dell’Unione Europea trova espressione nei Trattati [27], nella Carta dei diritti fondamentali [28], oltre che in numerose direttive [29]. Di recente, l’Unione Europea ha posto grande attenzione al tema con l’affermazione di alcuni principi nel Pilastro europeo dei diritti sociali [30] e nella Gender Equality Strategy 2020-2025 [31]. Da ultimo è intervenuta con la direttiva 2019/1158 “relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza”, che segna in modo definitivo il passaggio dall’approccio della conciliazione come strumentale a favorire “solo” una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro ad una prospettiva orientata al bilanciamento tra vita e lavoro in senso più ampio e “neutro” dal punto di vista di genere, maggiormente in linea quindi con l’obiettivo dell’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne [32]. Tale direttiva si pone infatti l’obiettivo di rimediare alla sotto-rappresentazione delle donne nel mondo del lavoro, sostenere la loro carriera e garantire l’attuazione del principio di parità tra uomini e donne in relazione alle opportunità sul mercato del lavoro e alle condizioni di lavoro. Nell’ordinamento italiano tale principio è espresso nell’art. 37 Cost., che sancisce espressamente il diritto delle lavoratrici alla parità di trattamento e allo stesso tempo individua esigenze di “speciale protezione” delle stesse. Proprio per la presenza di due diversi nuclei normativi, tale norma, frutto di compromesso tra posizioni dei partiti di sinistra che puntavano sull’emancipazione della donna e posizioni più conservatrici, può apparire ambigua [33]. Com’è stato messo in evidenza da più autori, tuttavia, è possibile un’interpretazione dell’art. 37 Cost. che esclude ogni contraddizione tra le due prescrizioni. L’affermazione dell’uguaglianza non impedisce “il rispetto delle esigenze proprie delle donne e la risposta positiva dello stato ai loro problemi e bisogni”. Anzi, la direttiva relativa alla tutela specifica del lavoro femminile è il [continua ..]
Come accennato, nonostante l’incidenza della povertà lavorativa sia più elevata tra gli uomini che tra le donne alla luce della nozione comunemente adottata, se consideriamo il reddito da lavoro annuo, il rischio di bassa retribuzione è decisamente più elevato per le donne [47]. Secondo i dati forniti da Eurostat relativi al 2020, il gender pay gap in Italia sembrerebbe essere tra i più bassi nell’Unione Europea, aggirandosi intorno al 4,2% [48]. Tuttavia, se si considera il c.d. “gender overall earnings gap”, che prende in considerazione, oltre i salari orari medi, anche il numero di ore retribuite in media in un mese e il tasso di occupazione, la situazione appare molto diversa: il divario di genere in Italia è pari al 43%, ben al di sopra della media europea di poco superiore al 36% [49]. Le ragioni alla base di tale dato sono connesse non solo a discriminazioni retributive, ma anche alla non equa distribuzione del lavoro di cura in famiglia, con le donne che, come anticipato, svolgono in media meno ore di lavoro retribuito degli uomini. In aggiunta, si deve tenere a mente che le donne sono più spesso impiegate con lavori temporanei [50] e in occupazioni meno retribuite. Tale gap è in parte connesso, infatti, anche alla c.d. “segregazione occupazionale” [51], cioè alla maggiore concentrazione delle donne nei settori cd. a basso salario, quali il settore sanitario, dell’istruzione, tessile, della ristorazione e della vendita al dettaglio [52]. Il contrasto al gender pay gap può avere un ruolo di rilievo anche nella prevenzione e nella lotta alla povertà lavorativa, quanto meno indirettamente, per l’impatto delle differenze retributive nell’organizzazione familiare, ad esempio nella scelta – in termini di convenienza – di quale genitore debba fruire dei congedi per prendersi cura dei figli [53]. La parità retributiva tra generi è principio fondante dell’Unione Europea ed è stato riconosciuto come tale già a partire dal trattato di Roma del 1957. Oggi è affermato nell’art. 157 TFUE, che enuncia il principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile “per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore” e richiede l’impegno [continua ..]
La trasparenza salariale e la parità sarebbero senza dubbio un primo passo per promuovere la parità di genere, ma si deve tenere presente che a tal proposito non rileva esclusivamente il divario retributivo. La questione riguarda più in generale le pari opportunità e la persistenza di un più ampio “global gender gap” [72]. Come visto, infatti, non solo le donne sono in genere occupate in professioni meno retribuite, ma sono anche più spesso impiegate con lavori temporanei e part-time [73]; inoltre, sintomo di un persistente “glass ceiling”, sono meno rappresentante nelle posizioni dirigenziali [74]. Ancora una volta i dati mostrano una condizione di maggiore vulnerabilità delle donne rispetto agli uomini, con un non irrilevante rischio che questa situazione porta con sé in termini di “scarsa libertà e autodeterminazione” [75]. E, secondo lo studio pubblicato nel Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum [76], la pandemia ha peggiorato ulteriormente il divario esistente. Da ciò discende l’importanza di un più ampio ventaglio di misure, che vadano oltre la parità salariale a parità di mansioni, per promuovere le pari opportunità delle donne nel mercato del lavoro. In questa direzione muovono sia gli investimenti previsti nel PNRR a sostegno dell’imprenditoria femminile [77], sia le novità introdotte dalla già menzionata legge n. 162/2021. Uno strumento potenzialmente utile a tale scopo è la certificazione sulla parità di genere [78], introdotta al fine di verificare le misure adottate dai datori di lavoro per ridurre il divario di genere in relazione alle opportunità di crescita in azienda, alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. Secondo quanto stabilito dall’art. 46-bis del Codice delle pari opportunità [79], i parametri per conseguire questa certificazione richiedono una valutazione globale delle condizioni lavorative della componente femminile della forza lavoro: devono tener conto della retribuzione corrisposta, delle opportunità di progressione di carriera e della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, “anche con riguardo ai lavoratori occupati di sesso femminile in stato di gravidanza” [80]. Per rendere [continua ..]
Che la questione della regolazione del tempo di lavoro e del tempo di “non lavoro”, o meglio non dedicato al lavoro retribuito, sia più pressante per le donne non è una novità. Anche nei considerando della direttiva 2019/1158 dell’Unione Europea è espressamente riconosciuto che uno dei fattori che più di altri contribuisce alla sotto-rappresentazione delle donne nel mercato del lavoro è la maggiore “propensione” delle lavoratrici madri a dedicare meno ore al lavoro retribuito e più tempo al lavoro di cura [103]. È chiaro quindi che le misure dirette a favorire la conciliazione possono avere un impatto sull’intensità lavorativa a livello di nucleo familiare e, di conseguenza, sull’in-work poverty. Tuttavia tali politiche andrebbero pensate e orientate anche nella direzione di un superamento della visione della donna come unico soggetto con responsabilità di cura nella famiglia. A tale proposito non si può negare che la recente direttiva 2019/1158 compia alcuni importanti passi in avanti [104]. Nell’ottica di promuovere un’effettiva condivisione delle responsabilità genitoriali è molto positiva l’introduzione del diritto al congedo di paternità. Nell’ordinamento italiano l’intervento di stabilizzazione del congedo di paternità di dieci giorni realizzato dalla legge di bilancio 2022 è in linea con quanto richiesto dall’art. 4 della direttiva [105]. È senz’altro un passo importante verso il superamento dell’idea, molto radicata nella nostra società, secondo cui la cura è una questione principalmente femminile [106]. Per questo motivo è promosso, legittimamente, con una netta disparità di trattamento rispetto a quanto spetta alla donna per il congedo di maternità, attraverso un’azione positiva quale il riconoscimento del diritto ad un’indennità pari al 100% della retribuzione. Nel nostro ordinamento mancavano, tuttavia, strumenti idonei a garantirne un’effettiva fruizione, non essendo prevista alcuna sanzione per il caso di rifiuto, opposizione o ostacolo, come accade invece rispetto alla fruizione dei congedi parentali [107]. A tal proposito è intervenuto il d.lgs. n. 105/2022, attuativo della direttiva relativa all’equilibrio tra attività [continua ..]
Sebbene la flessibilità sia stato uno dei principali ostacoli alla conciliazione, intesa come esigenza di trovare un “equilibrio che consenta di continuare a lavorare, evitando la fuoriuscita dal mercato del lavoro, ma anche la marginalizzazione nel mercato del lavoro” [125], è innegabile che l’orario di lavoro possa essere anche uno strumento utile nell’ottica di realizzare una “flessibilità conciliativa”, com’è stata definita in dottrina [126]. A tal proposito è perciò importante la disciplina relativa al diritto di richiedere orari di lavoro flessibili per motivi di assistenza introdotta dall’art. 9 della direttiva 2019/1158. Tale norma, pur non riconoscendo un diritto soggettivo perfetto a tale proposito, introduce un rilevante onere di trasparenza sul punto in capo ai datori di lavoro, accanto alla tutela rispetto a condotte discriminatorie verso chi ne faccia richiesta [127]. La previsione di cui all’art. 9 della direttiva sembra riferirsi ad un’idea di flessibilità non ristretta alla semplice fruizione su base oraria del congedo parentale [128], che oggi nell’ordinamento italiano è riconosciuta come facoltà alternativa rispetto alla fruizione giornaliera, salvo diversa regolamentazione da parte della contrattazione collettiva [129]. L’importanza della flessibilità, i cui benefici sulla conciliazione e quale strumento per favorire la partecipazione delle donne al mercato del lavoro sono ben noti [130], è tale che è inclusa anche tra gli indicatori volti a rilevare un’adeguata tutela della genitorialità e della conciliazione vita-lavoro ai fini della certificazione italiana sulla parità di genere, insieme ad altri elementi, quali il part-time a richiesta e temporaneo e la presenza dell’asilo nido aziendale. Anche il lavoro a tempo parziale, infatti, può essere uno strumento potenzialmente utile per favorire la conciliazione tra vita e lavoro. In tale ottica, l’art. 8 del d.lgs. n. 81/2015 ha riconosciuto il diritto di chiedere, in luogo del congedo parentale, la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, purché una sola volta e con una riduzione d’orario non superiore al 50% [131]. Tuttavia, bisogna tener presente che non mancano limiti [continua ..]
I dati sull’occupazione femminile e le indagini sulle ragioni dell’abbandono del lavoro indicano come, nonostante la tutela legislativa e le misure esistenti, il progetto costituzionale di cui all’art. 37 Cost. sia lontano dall’essere realizzato [139]. Le difficoltà maggiori che hanno dovuto affrontare le famiglie durante la pandemia da Covid-19 hanno solamente posto in luce le carenze a supporto della genitorialità, che “è ancora elemento scoraggiante per l’occupazione femminile”, specialmente “poiché ad essa le organizzazioni attribuiscono un costo elevato e asimmetrico rispetto a quello legato alla paternità” [140]. Infatti, finché l’equa distribuzione delle responsabilità genitoriali non sarà la realtà, gli impegni familiari di cura continueranno a determinare molto frequentemente “effetti negativi nei confronti delle donne sul versante dell’attività professionale” [141]. Nonostante tale questione interpelli “anche le imprese e la loro funzione sociale”, come evidenziato di recente dal Presidente della Repubblica [142], l’intervento dello Stato a sostegno di tali diritti è fondamentale: infatti, “non è il lavoro ad allontanare dalla maternità bensì le carenze a supporto della stessa” [143]. La realizzazione di un equo bilanciamento tra vita lavorativa e cura familiare e la rimozione degli ostacoli esistenti rispetto ad una distribuzione paritaria dei compiti di cura tra uomini e donne sono sempre più urgenti [144], in quanto si tratta di “una questione cruciale per l’eguaglianza tra uomini e donne nel lavoro” [145]. Per quanto sia da accogliere positivamente che questa finalità sia di recente quanto meno a parole identificata come obiettivo delle politiche conciliative [146], alla luce dell’ampiezza del problema sarebbero forse necessarie misure più ambiziose per renderla effettiva, come congedi, specialmente di paternità, di maggiore durata, incentivi e strumenti per rendere più facile il godimento in modalità flessibili dei congedi, e, nell’ottica di promuovere un’equa fruizione degli stessi da parte di entrambi i genitori, la previsione di un’indennità effettivamente adeguata. Essendo necessario un [continua ..]