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Il lavoro Povero in Italia
Andrea Lassandari, Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Bologna – Ester Villa, Professoressa associata di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Bologna – Carlo Zoli, Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università degli Studi di Bologna
Il presente fascicolo, curato dai proff. Gragnoli, Lassandari, Villa e Zoli è dedicato al lavoro povero in Italia e raccoglie i risultati di una parte dell’attività di ricerca svolta nell’ambito del progetto transfrontaliero «Working, Yet Poor» («WorkYP»), finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma Horizon 2020 [1]. La scelta del tema è dovuta alla presa d’atto della circostanza che negli anni più recenti la povertà lavorativa è emersa come problema sociale sempre più diffuso: basti pensare che il tasso di in-work poverty (IWP) in Italia è progressivamente cresciuto fino ad attestarsi intorno al 12% nel 2019, ben al di sopra della media europea ferma al 9,2% [2].
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Nel progetto WorkYP sono state individuate ed esaminate quattro categorie di soggetti particolarmente vulnerabili e sottorappresentate («VUP», ovvero Vulnerable and Underrepresented Persons), le cui condizioni impediscono il pieno godimento dei diritti e della cittadinanza. Si tratta dei prestatori subordinati standard con bassa professionalità occupati in settori poveri (VUP 1), dei lavoratori autonomi «economicamente dipendenti» (VUP 2), dei prestatori occupati con contratti a termine, part-time involontari e contratti di somministrazione di lavoro (VUP 3) e, infine, dei lavoratori a chiamata, occasionali e delle piattaforme (VUP 4). Il tipo di occupazione, infatti, incide sul rischio di povertà lavorativa, che è pari al 21,5% per i «precari» del terzo gruppo contro il 12,2% dei lavoratori subordinati standard. Seguono poi i lavoratori autonomi senza dipendenti, con un rischio pari al 18,6% e, infine, i lavoratori subordinati standard con bassa professionalità occupati in settori marginali che hanno un rischio di povertà lavorativa pari al 14,3% [3].
Prima di addentrarsi nel tema è opportuna una precisazione concettuale: per lavoratore povero (in-work poor) si intende il soggetto occupato almeno 7 mesi nell’anno di riferimento che vive in un nucleo familiare con un reddito equivalente disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale [4]. Siccome è basata sul reddito familiare equivalente, tale nozione comprende due dimensioni, una individuale e una familiare: mentre la prima è connessa all’occupazione del singolo, al salario percepito, alla durata e alla stabilità dell’impiego, la seconda dipende dalla composizione demografica ed occupazionale del nucleo familiare. Per cogliere appieno il fenomeno della povertà lavorativa è pertanto necessario considerare non solo le misure legate alla sfera individuale e all’esistenza di un rapporto di lavoro attuale o pregresso, come fanno i contributi di Giulia Marchi, Luca Ratti, Ester Villa e Carlo Zoli, ma anche quelle relative al nucleo familiare, a cui è dedicato il saggio di Nicola De Luigi e Giovanni Amerigo Giuliani. Il saggio di Andrea Lassandari si confronta invece con entrambe le dimensioni.
Per quanto la nozione di in-work poor sia più complessa di quella di low-wage worker, che coincide con il soggetto la cui remunerazione è inferiore ai 2/3 del salario orario mediano, le basse retribuzioni orarie interessano una quota elevata di lavoratori che espletano mansioni semplici e ripetitive, spesso inseriti in nuclei familiari più disagiati, nei quali la remunerazione dell’attività lavorativa rappresenta una quota rilevante del reddito complessivo. Se è vero che non incide direttamente sulla povertà lavorativa, una giusta retribuzione può comunque rappresentare uno strumento per ridurre l’IWP. Su queste tematiche si soffermano Carlo Zoli, che indaga sulla connessione fra giusta retribuzione e lavoro povero, e Luca Ratti, il cui saggio è incentrato sulla direttiva sui salari minimi adeguati.
Siccome la povertà lavorativa colpisce sempre più anche i lavoratori autonomi, come emerge dai dati sopra riportati, il contributo di Ester Villa si concentra sulla possibilità per questi ultimi di negoziare collettivamente le proprie condizioni di lavoro e sugli ostacoli frapposti al riguardo dal diritto euro-unitario della concorrenza.
L’elemento più rilevante per ridurre l’IWP è, tuttavia, la crescita dell’intensità lavorativa del nucleo familiare. Nel nostro Paese le famiglie in cui entrambi i coniugi lavorano sono ben lontane dall’essere la regola, rappresentata dal male breadwinner family model. Di questo profilo si occupa, in una prospettiva giuslavoristica, Giulia Marchi, il cui contributo è dedicato alle politiche dirette a garantire un’effettiva parità tra donne e uomini e a quelle finalizzate alla conciliazione dell’attività lavorativa con le esigenze di cura, nell’ottica di favorire una maggiore redistribuzione di tali responsabilità nella famiglia. Nicola De Luigi e Giovanni Amerigo Giuliani si soffermano, invece, in una prospettiva sociologica, su tre specifici programmi concernenti il nucleo familiare: i trasferimenti monetari, con particolare attenzione agli assegni familiari e al recente Assegno Unico Universale (AUU), il sistema dei congedi e quello integrato dei servizi per l’infanzia. Le politiche per le famiglie possono essere infatti strumenti utili per contrastare il lavoro povero, sia direttamente che indirettamente. Da un lato, possono fornire un sostegno diretto al reddito delle famiglie più svantaggiate; dall’altro, possono promuovere l’occupazione femminile, incentivando il passaggio ad un modello di famiglia dual-earner.
Infine, nel saggio di Andrea Lassandari per un verso è indagato il profilo della adeguatezza delle retribuzioni, con approfondimento della prospettiva, in Italia oggetto di dibattito, della introduzione del salario minimo legale; per l’altro è analizzato, anche criticamente, l’istituto del reddito di cittadinanza, invece già presente da alcuni anni, in tal modo affrontando il tema, alla luce della disciplina esistente, delle risorse a disposizione dei nuclei familiari. L’autore conclude per la necessaria coesistenza, al fine di contrastare il lavoro povero, sia di eque retribuzioni che di strumenti in grado di intervenire, quando il reddito dei nuclei familiari sia comunque insufficiente.
L’impronta fortemente multidisciplinare della tematica della povertà lavorativa ha imposto ed impone un confronto serrato fra studiosi di formazione diversa, non soltanto giuridica: il presente volume costituisce una prova tangibile dell’adozione di un tale metodo di lavoro da parte del gruppo di ricerca dell’Università di Bologna.
NOTE
[1] Grant Agreement No 870619. Sul punto si veda https://workingyetpoor.eu/. Al progetto partecipano, quali partners, otto università europee (oltre all’Università di Bologna, l’Università di Lussemburgo, l’Università di Tilburg, l’Università di Rotterdam, l’Università di Francoforte, l’Università di Leuven, l’Università di Lundt e l’Università di Danzica) e tre istituzioni per i diritti sociali (la Fondazione Brodolini, l’Osservatorio sociale europeo e lo European Anti-Poverty Network).
[2] Eurostat, EU statistics on income and living conditions (EU-SILC) methodology – in-work poverty, in https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/EU_statistics_on
_income_and_living_conditions_(EUSILC)_methodology_-_in work_poverty.
[3] Sul punto si veda L. RATTI (ed.), In-work poverty in Europe. Vulnerable and Under-represented Persons in a Comparative perspective, Wolters Kluwer, The Netherlands, 2022. Nel presente numero v. i saggi di C. ZOLI e L. RATTI.
[4] EUROFOUND, Working poor in Europe, in www.eurofound.europa.eu, 2010.