L’A. analizza il controverso rapporto tra diritto del lavoro e felicità interrogandosi, in primo luogo, sulla metamorfosi che il concetto di lavoro ha subìto nel corso della storia. Attraverso la lente dei valori costituzionali, l’A. analizza la dimensione eudemonistica nel rapporto e nel mercato alla luce del crescente ridimensionamento dello statuto protettivo del lavoratore e dell’aggravarsi del fenomeno occupazionale che ha ampliato la platea dei destinatari della multiforme famiglia di sussidi contro la disoccupazione.
The A. analyzes the controversial relationship between labour law and happiness questioning, first, the metamorphosis that the concept of work has undergone throughout history. Through the lens of constitutional values, the A. questions the relevance of the eudemonistic dimension in the relationship and in the market in the light of the increasing downsizing of the protective status of the worker and the worsening of the employment phenomenon that has widened the audience of the recipients of the multiform family of unemployment benefits.
Keywords: Happiness – Labour law – Constitution – Poverty – Market.
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1. Premessa - 2. Felicità, lavoro e modernità giuridica - 3. La felicità alla ricerca di una Costituzione - 4. La felicità presa sul serio - 5. (In)felicità e incertezza nel rapporto - 6. Il bisogno di felicità nel mercato - NOTE
Tema insidioso e affascinante, la felicità [1]. Caratteristica intrinseca della natura umana, stato dell’anima [2]. Non può essere descritta [3], almeno compiutamente, né prescritta. Nessun legislatore è in grado di decidere cosa renderà felici i cittadini [4], ma il diritto [5], in particolare il diritto del lavoro, può almeno artificialmente crearla ovvero porre le condizioni per il suo perseguimento? Sul piano del metodo, si avverte l’esigenza di una precisazione preliminare. Nell’àmbito di una relazione qualitativa con il lemma lavoro, in una sorta di ardita metonimia, considererò la (in)felicità allo stesso tempo come oggetto e soggetto, ma soprattutto come causa ed effetto (causa aequat effectum). La (in)felicità si presenta, infatti, quale forza propulsiva di un ordine giuridico che aveva perso ogni fondamento, negato la persona e la libera spontaneità della vita durante gli anni cupi del fascismo, ora quale esito delle previsioni costituzionali, della loro feconda riscoperta del pluralismo e dell’intima socialità del diritto come risposta agli incommoda derivanti dalla rovinosa sciagura bellica. Non si tratta, evidentemente, di un espediente retorico, ma più semplicemente del modo di essere di due momenti della nostra esistenza che si compenetrano nel gioco dialettico della vita alla quale il diritto intende conferire senso e valore. Del resto, il diritto del lavoro, con le sue cien almas [6], è il diritto degli opposti [7], il diritto del conflitto ed è il terreno fertile per seminare e raccogliere i due estremi, eudaimonía e kakodaimonía. Insidiosa e affascinante, s’è detto. Ma anche sfuggente, la felicità. E ciò dovrebbe suggerire di abbandonare ogni pretesa di esaustiva ricostruzione sistematica nel percorso evolutivo che giunge fino ai valori costituzionali [8]. Orbene, tracciate queste rapide coordinate, chi si sofferma su tale tema, misurato attraverso la grandezza giuridica, non può sottrarsi al fascino degli antichi o comunque a una lettura diacronica in grado di evidenziare l’estrema relatività del rapporto tra lavoro e felicità. Com’è noto, il lavoro, almeno quello manuale – prima ancóra di essere regolamentato dalla modernità – ha subìto [continua ..]
La felicità, nello struggente, se non tragico, rapporto con il diritto del lavoro, può essere collocata sub specie temporis, non per tracciarne una infeconda linea temporale, per costruire semplicemente un antefatto, ma proprio per evidenziare una storia di mutamenti che è storia concreta e complessa. Tra Otto e Novecento si squaderna uno scenario privilegiato per misurare la (in)felicità, oltre gli specifici interessi della borghesia, all’interno di trasformazioni sociali che hanno il chiaro scopo di ridisegnare il paesaggio giuridico [24] fino ad allora avvolto da un conservatorismo e un’avversione per i vincoli eteronomi. Prima del fiorire di questa vita nova, la relazione giuridica era – nella tradizione del codice napoleonico – mera cornice dell’affresco disegnato dall’autonomia privata; la società era ramificata nei rapporti di scambio tra cittadini-proprietari in una prospettiva che esaltava ad libitum gli automatismi delle leggi economiche. Il lavoro, pertanto, espressione del diritto di proprietà, si confondeva nelle trame mercificatorie di un individualismo spietato, comunque garantito dal laissez faire statuale. Nell’orizzonte della modernità, l’idea di un diritto in grado di regolamentare un aspetto così importante della vita umana cominciava a germogliare con le prime leggi sociali anche se si presentava come un diritto prettamente paternalistico, con pochissimi vincoli alla libertà contrattuale [25]. Il mero incontro di volontà, la «dittatura contrattuale» [26], non poteva certo descrivere adeguatamente l’implicazione della persona nel rapporto di lavoro. La delega in bianco all’autonomia privata individuale su importanti temi come la costituzione del rapporto, le modalità della prestazione, la sua durata e lo scioglimento (ad nutum) non erano in grado di aprire una breccia eudemonistica. La maestosa uguaglianza (formale) della legge [27] minava di fatto le basi di qualsiasi possibilità di giustizia sostanziale. Per evocare un romanzo di Anatole France, il pane non veniva certo rubato dagli imprenditori. L’idea di felicità era allora un’idea di giustizia sostanziale. Era un motus oltre la rigida divisione tra giuridico e sociale, una risposta alla crescente disuguaglianza benedetta dal diritto [28]. Andare al di là del monismo [continua ..]
Quel percorso di prima apertura verso le politiche eudemonistiche [42] imboccò altri sentieri con l’avvento del periodo dittatoriale [43], la grande depressione e il secondo conflitto mondiale che di lì a qualche anno avrebbe coinvolto sciaguratamente anche il nostro Paese. La dimensione della socialità del diritto e quel corporativismo pluralista richiamati nella prolusione di Mossa del 1922 [44] verranno giustiziati [45]; era rimasto ben poco di quegli ideali dopo l’emanazione delle “leggi fascistissime” [46]. Un’oscillazione dopo l’altra, il grafico disegnato dal pennino del sismografo, che registra i movimenti sismici sulla carta del paesaggio giuridico, evidenziava continue scosse e un consolidato mutamento dopo le onde telluriche del regime fascista. Un Paese distrutto e lacerato individuava proprio nel lavoro l’elemento unificante di solidarietà [47] e di stabilizzazione, post-positivistica, anche da un punto di vista morale [48]. Ancóra una volta, seppur in termini differenti rispetto alla modernità giuridica, fu la (in)felicità a fornire la forza per affermare le peculiarità, le esigenze, i desideri di una società che necessitava di un’idea regolativa, di solida speranza pratica, di riforme in tutte le sfere della vita, di un diritto dopo la catastrofe. E «la indicazione che la catastrofe dà, è di una semplicità assoluta. Non c’è altro che da reintegrare nell’ordine giuridico la vita umana in tutto il suo effettivo contenuto, nel pieno sistema dei suoi fini e interessi vitali, in tutta la ricchezza della sua libertà» [49]. I valori valgono, appunto, nella misura in cui si incarnano nel diritto positivo. Sono come l’aria e la luce. Sono beni di cui ci si accorge solo in caso di privazione. E la privazione, l’infelicità, esercita una provvidenziale funzione: riscoprire le radici della vita, id est le ragioni in grado di restituire l’agognata felicità dopo la negazione della persona. Una felicità che nasce sì da una crisi, da profonde incertezze, ma anche dal desiderio, da una coscienza esatta dei veri fini e doveri, dalla pienezza di tutte le esigenze della natura umana [50]. Come si estrinseca la felicità nel disegno costituzionale? Il nostro ordinamento non contempla [continua ..]
Il lavoro rappresentava l’ideale germinale da cui nasceva la Costituzione, il fluire di una narrazione in grado di disegnare mappe in cui la complessità diventava intelligibile. Una mappa ben distesa agli occhi degli interpreti e dei destinatari. Non che il periodo post-costituzionale avesse realizzato immediatamente il trionfo del reale sulle intenzioni. Tra la realtà e le parole vi è sempre stato uno iato [82]. È nello scarto tra il desiderio nutrito e le possibilità di realizzarlo che si staglia lo spazio dell’infelicità. Orbene, la Costituzione s’inscrive in un’orbita di «assoluta coincidenza del diritto con la vita» [83]. I Costituenti hanno proiettato il valore normativo dei loro ideali antropologici indicandoli come mete strategiche universalmente riconosciute, utilizzando anche un diverso linguaggio giuridico rispetto al passato. Un linguaggio descrittivo con funzione prescrittiva. Ora, tra il significante e il significato c’è un rapporto convenzionale che dipende dalla soggettività di chi esprime la comparazione. La Costituzione nella sua circolarità è insieme un segno, un indice e un simbolo, in generale qualcosa che rinvia a qualcos’altro. Come il significato di una parola rinvia ad altri lemmi. Com’è noto, «un testo vuole che qualcuno lo aiuti a funzionare» [84] anche se si è condizionati da un orizzonte linguistico che ci precede, da una posizione inautentica di precomprensione [85]. Senonché, tra i vastissimi significati che può assumere un testo, accolta l’esistenza di una cooperazione interpretativa, possiamo scorgerne i confini, i poli opposti. Da una parte chi, in una prospettiva storica nietzschiana, guarda e crede all’indietro [86], privilegiando quei significanti tradizionali che vedono nel lavoro (a tempo indeterminato e pieno) un prius rispetto al capitale. Da un’altra, chi ri-legge il testo costituzionale in relazione con la nuova realtà fattuale considerando, così, la Costituzione come un testo aperto in grado di rispondere, diversamente dal passato, agli attuali problemi regolativi. Quale strada privilegiare? Quella «larga e spaziosa» o quella «stretta e angusta» [87]? Un dato appare difficilmente incontestabile. Chi scrutava il futuro, immaginando il principio lavoristico, mai [continua ..]
Se vi è un rapporto simmetrico tra felicità e lavoro (decente) è possibile affermare altresì che tra non lavoro, lavoro precario tout court e infelicità vi sia il medesimo intimo legame. Senza addentrarsi in inutili e faticose cavalcate storiche, né sconfinando nei territori percorsi da altri autori del presente volume, appaiono comunque opportune alcune riflessioni funzionali rispetto all’oggetto della presenta indagine. Orbene, la felicità lavoristica è calata all’interno dei correttivi posti dalla norma inderogabile per fini protettivi rispetto a situazioni di squilibrio che nascono dalla natura imperfetta del mercato [121]. Senonché, com’è noto, «il diritto del lavoro […] non ha potuto godersi a lungo e in pace la maturità faticosamente raggiunta» [122]. Il diritto del lavoro s’è sviluppato secondo una natura personale del rapporto tendente al potenziamento delle garanzie giuridiche contro l’imprenditore [123]. La trasformazione del sistema produttivo e l’evoluzione del mercato del lavoro, già a partire dalla fine degli anni Settanta, mutarono profondamente gli aspetti peculiari che avevano caratterizzato la precedente fase storica [124]: non più solo disciplina di tutela del lavoratore, ma strumento di politica economica per arginare gli effetti distorsivi derivanti dal nuovo assetto del mercato [125]. La felicità del garantismo incontrava altri compagni di viaggio, l’inflazione e la stagflazione, effetti della crisi dell’epoca, che avevano un’origine interna a un sistema troppo ottimistico nelle sue valutazioni analitiche in quanto influenzato dal periodo di crescita post-bellica. La «ineguale distribuzione delle tutele dei rapporti di lavoro» e il fenomeno «di applicazione distorta del garantismo flessibile» [126] crearono un conflitto tra coloro che erano più che garantiti da una normativa alluvionale, i lavoratori già occupati, e il «proletariato esterno» della società industriale [127], cioè gruppi che si facevano portatori di bisogni sociali nuovi. Al tradizionale dualismo tra settore forte e protetto, l’impresa medio-grande, e settore debole e sotto protetto, la piccola impresa, si sovrappose un dualismo endogeno all’azienda, dividendo i [continua ..]
Il lavoro appartiene all’uomo sin dalla notte dei tempi, così come la felicità rappresenta un’ambizione umana che scorre, dal medesimo istante, lungo i sentieri della storia. Il diritto del lavoro si è sviluppato all’interno della dimensione eudemonistica sia come affermazione (della persona), sia come negazione (della povertà), come «situazione alternativa» all’indigenza [148]. Invero, nell’accezione contemporanea è venuta meno la duplice equazione novecentesca, id est lavoro uguale felicità, non lavoro uguale infelicità o, almeno, pare che quest’ultima possa in alcuni casi essere intimamente legata proprio all’esistenza di un rapporto di lavoro, così come concepito negli ultimi anni, generatore di quelli che ossimoricamente vengono definiti working poors [149]. Quando vivere del proprio lavoro, a proposito di metonimia, non è più sufficiente per garantirsi un’esistenza libera e dignitosa, «non basta» [150] per offrire un miglioramento delle condizioni di vita. È l’infelicità nonostante il lavoro [151] che amplifica la condizione soggettiva di debolezza [152] e aumenta «le dimensioni della povertà» [153], ora concepita «come dato reale persistente» [154]. In tal senso, le disposizioni costituzionali devono confrontarsi con le trasformazioni politiche, economiche e sociali [155] e i sogni, le aspirazioni e i desideri dei padri costituenti devono, altresì, sfidare una realtà che ne ha drammaticamente ridimensionato la portata o, se si vuole, ha aggiornato in chiave moderna i propositi [156]. Ed è qui che «il diritto al lavoro chiede al diritto del lavoro di interessarsi della prospettiva di chi non ha occupazione» [157]. Ridurre, appunto, in questi «anni difficili» [158], quella quota d’infelicità attraverso il sistema di sicurezza sociale che esprime un interesse di tutta la collettività a essere, comunque, salvaguardata da possibili comportamenti opportunistici [159], anche per non precipitare in una «trappola senza uscita» [160]. La felicità è anche liberazione dal bisogno. È assicurare al lavoratore un’esistenza libera e dignitosa, riequilibrare l’asimmetria di potere economico insita nel [continua ..]