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Contribuzione e contratto di categoria
Gian Piero Marcellini, Dottorando di ricerca in diritto del lavoro nell’Università di Macerata
Il saggio analizza il nesso intercorrente tra contratto collettivo nazionale di categoria e contribuzione previdenziale e, dunque, la questione del c.d. minimale contributivo di cui all’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989, ossia dei criteri per determinare la retribuzione minima da assumere come base per il computo dei contributi previdenziali e assicurativi che il datore di lavoro è tenuto a versare all’ente previdenziale per il proprio dipendente. Dopo aver definito la distinta, ma logicamente connessa, nozione di retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale, l’autore esamina il contrasto giurisprudenziale sulla portata dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989 e le molteplici questioni inerenti al minimale contributivo, per chiedersi infine quale sia la specifica ratio sottesa a quest’ultimo. Contrariamente a quanto “pubblicizzato” dalla Corte di Cassazione, infatti, nel minimale contributivo potrebbe in realtà scorgersi una finalità tutt’altro che solidaristica, ma, piuttosto, meramente economica, da un lato, e politica, dall’altro.
The essay analyses the link between national collective bargaining agreement and social security contributions and, therefore, the question of the so-called contributory minimum referred to in Article 1, first paragraph, of Decree-Law No 338/1989, i.e. the criteria for determining the minimum wage to be taken as a basis for calculating the social security and insurance contributions that the employer is required to pay to the social security institution for his employee. After defining the distinct, but logically connected, notion of pension-relevant wage, the author examines the jurisprudential conflict on the scope of Article 1, first paragraph, of Decree-Law No 338/1989 and the many issues inherent to the contributory minimum, to finally wonder what the specific rationale for the latter is. In fact, contrary to what "advertised" by Corte di Cassazione, the contributory minimum could actually have a purpose that is anything but solidarity, but, rather, merely economic, on the one hand, and political, on the other.
Keywords: contribution – national collective bargaining agreement – social security contribution – minimum basis
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Sommario:
1. Introduzione - 2. La retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale: l’evoluzione legislativa - 3. … e il punto di vista di dottrina e giurisprudenza - 4. La retribuzione dovuta come base di calcolo dei contributi previdenziali e la regola del minimale contributivo - 5. Il contrasto giurisprudenziale sulla portata dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989 - 6. Le questioni inerenti al minimale contributivo - 7. Brevi considerazioni conclusive: la ratio del minimale contributivo - NOTE
1. Introduzione
L’indagine del nesso intercorrente tra contratto collettivo nazionale di categoria e contribuzione previdenziale e, dunque, della funzione che il primo svolge rispetto alla seconda evoca automaticamente ed immediatamente la questione del c.d. minimale contributivo, ossia dei criteri per determinare la retribuzione minima da assumere come base per il computo dei contributi previdenziali e assicurativi che il datore di lavoro è tenuto a versare all’ente previdenziale per il proprio dipendente. Tale diretta connessione concettuale discende dal fatto che il parametro di riferimento di regola adoperato ai fini dell’individuazione del minimale contributivo è, appunto, il contratto collettivo nazionale di lavoro. L’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989, conv., con modif., in legge n. 389/1989, stabilisce, infatti, che “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. Minimale ex art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989 che non va confuso – è bene [continua ..]
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2. La retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale: l’evoluzione legislativa
La nozione di retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale ha nel tempo subìto una profonda evoluzione, frutto sia dei molteplici interventi legislativi, sia delle varie pronunce della giurisprudenza, originariamente orientata ad interpretare in senso estensivo la nozione legale dell’istituto. Come è stato posto in luce [6], il legislatore, nel determinare la retribuzione imponibile ai fini contributivi – compito che la Costituzione, all’art. 23, gli affida in via esclusiva –, ha tradizionalmente fatto ricorso ad una definizione della stessa tramite un concetto generale, riservando invece la tecnica dell’elencazione tassativa all’individuazione delle voci retributive escluse dal prelievo contributivo. In origine il legislatore aveva dettato dei criteri diversi per la determinazione della retribuzione assoggettabile a contribuzione previdenziale. Da un lato, infatti, l’art. 27, comma 2, d.P.R. n. 797/1955, c.d. Testo unico in materia di assegni familiari, statuiva che, ai fini contributivi, “per retribuzione si intende tutto ciò che il lavoratore riceve, in denaro o in natura, direttamente dal datore di lavoro per compenso dell’opera prestata, al lordo di qualsiasi ritenuta”. Tale disposizione intendeva pertanto la retribuzione imponibile soltanto come corrispettivo in senso oggettivo dell’attività lavorativa effettiva e specifica svolta dal [continua ..]
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3. … e il punto di vista di dottrina e giurisprudenza
Rispetto alla valenza innovatrice del d.lgs. n. 314/1997 si segnalano due orientamenti dottrinali antitetici. Secondo un primo indirizzo [17], la riforma del 1997 avrebbe apportato modifiche “sostanziali” al sistema previdenziale; tramite il rinvio all’art. 51 Tuir, il legislatore avrebbe difatti recepito in ambito previdenziale, facendone regola generale, il principio di onnicomprensività del reddito. Secondo la tesi, pertanto, “la nuova definizione di imponibile previdenziale è più ampia di quella che in precedenza scaturiva dalla vecchia disposizione dell’art. 12 della legge n. 153/1969” [18], dal momento che viene meno qualsiasi riferimento alla corrispettività e alla sinallagmaticità dell’erogazione in senso soggettivo. Di ciò si avrebbe conferma sia dall’assoggettabilità a contribuzione previdenziale, salve le ipotesi espressamente previste, delle erogazioni liberali, sia dal confronto tra la formulazione originaria dell’art. 12, legge n. 153/1969 – il quale, è bene ricordarlo, considerava retribuzione imponibile ai fini contributivi “tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro in danaro o in natura, al lordo di qualsiasi ritenuta, in dipendenza del rapporto di lavoro” – e il testo novellato dall’art. 6, d.lgs. n. 314/1997. Da tale comparazione si evince, infatti, che, da un lato, è [continua ..]
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4. La retribuzione dovuta come base di calcolo dei contributi previdenziali e la regola del minimale contributivo
Tramite l’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989 il legislatore, tra l’altro, ha provveduto a formalizzare e a generalizzare un principio già da tempo elaborato e applicato dalla giurisprudenza. A prescindere dalle problematiche relative al minimale contributivo, difatti, si pone anzitutto una questione preliminare, la quale ha animato il dibattito tra gli studiosi verso la seconda metà dello scorso secolo: l’obbligazione contributiva deve essere adempiuta dal datore di lavoro in base alla retribuzione dovuta, per legge o per contratto collettivo, e, dunque, spettante al lavoratore, ovvero in base alla retribuzione effettivamente corrisposta e, dunque, percepita dal lavoratore? [23] L’interrogativo si pone dal momento che, come noto, il rapporto contributivo è cosa ben diversa dal rapporto di lavoro [24]: mentre il primo intercorre tra l’ente previdenziale e il soggetto obbligato al versamento dei contributi previdenziali, il secondo si instaura tra datore di lavoro e lavoratore. Nonostante tale netta distinzione e reciproca autonomia tra i due rapporti, nel lavoro subordinato il soggetto obbligato al versamento dei contributi previdenziali è il datore di lavoro e, anche per la quota a carico del lavoratore, ex art. 2115, comma 2, c.c. unico responsabile dell’adempimento dell’obbligazione contributiva rimane pur sempre il datore di lavoro, che può rivalersi sul [continua ..]
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5. Il contrasto giurisprudenziale sulla portata dell’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989
Nella sentenza n. 12122/1999 la Corte di Cassazione ha affrontato la questione della rilevanza del contratto collettivo ai fini contributivi, chiarendo che “la retribuzione contributiva non è sempre ed in ogni caso quella spettante al lavoratore”. Difatti, anche nell’eventualità che in forza del contratto collettivo aziendale al lavoratore spetti una retribuzione inferiore a quella prevista dal contratto collettivo nazionale [32], ex art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989 la retribuzione imponibile ai fini contributivi sarà in ogni caso quella prevista dal contratto di categoria [33]. Tale è il motivo per cui la Corte ricorre all’espressione retribuzione “virtuale” [34] per designare la retribuzione contributiva. Tra gli argomenti addotti dalla Cassazione a sostegno della propria tesi si segnala il riferimento alla sentenza n. 342/1992 della Corte Costituzionale, in cui è stata giudicata conforme al dettato costituzionale la possibile divergenza tra retribuzione concretamente rilevante nel rapporto di lavoro e retribuzione virtualmente rilevante ai fini contributivi. Nello specifico, la Consulta ha ritenuto che il sistema delineato dall’art. 28, d.P.R. n. 488/1968 – il quale, per il settore dell’agricoltura, determinava la retribuzione imponibile ai fini contributivi sulla base delle retribuzioni previste dai contratti collettivi annualmente in vigore [continua ..]
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6. Le questioni inerenti al minimale contributivo
Rispetto all’operatività del principio del minimale contributivo la giurisprudenza ha chiarito che, da un lato, il datore di lavoro non ha la possibilità di scegliere il contratto collettivo di riferimento, essendo comunque tenuto ad applicare i contratti del settore di appartenenza, anche se non vincolanti nei suoi confronti [40], e che, dall’altro, per i settori produttivi privi di contrattazione collettiva il contratto di riferimento è quello applicabile per i dipendenti di imprese similari [41]. La formula “contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale” contenuta nell’art. 1, comma 1, d.l. n. 338/1989 fa sorgere un interrogativo: nel caso in cui coesistano più contratti collettivi di pari livello applicabili alla medesima categoria, quale tra essi deve essere preso in considerazione per individuare la retribuzione su cui calcolare i contributi previdenziali? Sulla questione è intervenuto direttamente il legislatore tramite una norma di interpretazione autentica del medesimo art. 1: come anticipato, l’art. 2, comma 25, legge n. 549/1995 statuisce infatti che “l’articolo 1 del decreto-legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389, si interpreta nel senso che, in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima [continua ..]
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7. Brevi considerazioni conclusive: la ratio del minimale contributivo
In conclusione, non rimane che domandarsi quale sia la specifica ratio o funzione del minimale contributivo; in altri termini, è lecito chiedersi perché, nell’esercizio della sua discrezionalità ex art. 23, Cost., il legislatore abbia deciso di assumere come parametro unitario su cui commisurare i contributi previdenziali la retribuzione prevista dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative su base nazionale. A testimonianza del punto di vista della giurisprudenza in merito alla finalità del minimale contributivo è opportuno richiamare ancora una volta la sentenza n. 11199/2002 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Nel respingere l’obiezione incentrata sul maggior sacrificio patrimoniale – derivante dalla divergenza tra retribuzione concretamente rilevante nel rapporto di lavoro e retribuzione virtualmente rilevante ai fini contributivi – imposto al lavoratore che percepisca una retribuzione inferiore a quella contrattuale, con la conseguente presunta violazione del principio di parità di trattamento, le Sezioni Unite hanno chiarito che “la possibile divaricazione a vantaggio del rapporto previdenziale consente il tendenziale conseguimento di una migliore tutela assicurativa dei lavoratori, di un equilibrio finanziario della gestione previdenziale e della parità delle condizioni tra le imprese, a prescindere dalla [continua ..]
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