Il saggio analizza l’opera di Mario Grandi a partire dalla monografia in tema di modificazioni del rapporto di lavoro. L’A. pone in particolare in luce le ascendenze privatistiche del suo pensiero ed il forte impianto metodologico, che ruota intorno all’idea di un diritto che non può fare a meno di un approccio sistematico. In questo senso il pensiero di Mario Grandi manifesta la necessità di preservare e valorizzare l’apporto dottrinario nell’elaborazione del diritto.
The essay analyses the work of Mario Grandi starting from the monograph about the modifications of the working relationship. The Author shows in particular the privatist derivation of his thought and the strong methodological plant, which turns around the idea of a legal system that cannot do unless a systematic approach. In this sense the thought of Mario Grandi shows the need to preserve and enhance the scholars’ contribution to law development.
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1. Introduzione - 2. Le modificazioni del rapporto: la posizione del lavoratore - 3. La figura del datore di lavoro - 4. Gli studi di diritto sindacale (cenni) - 5. A mo’ di conclusione - NOTE
Se non conoscessimo il forte impegno sociale nell’ambito della Cisl, cui Mario Grandi si dedicherà subito dopo la laurea, a leggere i suoi scritti, dovremmo ritenere che ci troviamo al cospetto di un giusprivatista prestato al diritto del lavoro. Sarà che Grandi si laureò su un argomento di diritto civile con un privatista atipico, come Domenico Barbero, di quelli che quando l’ordinamento positivo non collimava con le sue idee non aveva remore ad indicare nella nota a piè di pagina: “contra vedi il tale o il tal altro articolo del codice civile”. Ed invece G. non solo ha affrontato temi centrali della nostra disciplina, che ruotano intorno alla struttura fondamentale del rapporto, ma ha spaziato affrontando, sempre da privatista, temi a cavallo con il diritto processuale (fondamentali i suoi studi sull’arbitrato irrituale), portando a sintesi le Sue riflessioni sulla struttura intima della relazione giuridica di lavoro subordinato con la voce “Rapporto di lavoro” dell’Enciclopedia del diritto [1], che, in qualche modo, costituisce la summa del suo pensiero e dei suoi studi su aspetti più specifici della disciplina. Inoltre sempre da privatista ha affrontato i temi del diritto sindacale: pensiamo agli studi sulla rappresentanza e la rappresentatività o sul sindacato in azienda o in generale sulla contrattazione collettiva. Direi di più: un privatista con una spiccata propensione a confrontarsi con la teoria generale. Basti pensare alla notissima relazione introduttiva alle Giornate di studio dell’Aidlass del 1981 sul complicato tema dei rapporti fra contratti collettivi di diverso livello [2]. Peraltro, ad onta della laurea conseguita con Domenico Barbero, i Suoi scritti denunciano un’attenzione quasi maniacale ai grandi maestri del diritto civile (a partire da Francesco Santoro Passarelli), così che il Suo pensiero, sempre originale, sembra uno sviluppo rigoroso e controllato delle fondamenta poste da quegli scrittori. In sostanza i Suoi scritti denunciano la propensione a muoversi entro un quadro di riferimento culturale acquisito, così da creare un consenso più ampio intorno alle Sue prospettazioni e ricostruzioni.
Mi occuperò prevalentemente della monografia dedicata alle modificazioni del rapporto di lavoro [3], per una ragione per così dire biografica (anche se non mancherò di fare qualche incursione sul terreno degli studi di diritto sindacale). Quel libro ha fatto parte della mia formazione giuridica sia ai fini della stesura del mio saggio sul rapporto di lavoro in società collegate del 1973 sia soprattutto del mio lavoro monografico sulla interposizione del 1979. La riflessione di Grandi ruota intorno a tre pilastri fondamentali di studio: il soggetto-lavoratore, il soggetto-datore e il concetto di vicenda evolutiva, che può interessare la posizione delle due parti del rapporto. La parte di maggiore spessore culturale riguarda ovviamente lo studio dei soggetti del rapporto. Non si può però dimenticare l’importante distinzione, nella trattazione delle vicende, fra veri e propri fenomeni successori e «fenomeni di sostituzione (impropria) del soggetto o, più in generale, di interferenza soggettiva, la cui varietà può ricondursi all’unitaria tematica degli eventi incidenti sull’elemento soggettivo della situazione giuridica» [4], esempi dei quali sono la cessione di contratto, la surrogazione, il subcontratto, l’interposizione, etc. Il punto di partenza dell’indagine muove da una considerazione ad un tempo di sapore giuridico e di consapevolezza sociale: l’implicazione della persona del lavoratore nel rapporto. È proprio l’immanenza della persona nel rapporto che rende complesso il tema delle modificazioni soggettive, perché occorre dar conto della sostituzione di un soggetto permanendo inalterato il rapporto nella sua consistenza oggettiva. Si avverte qui nel pensiero di Grandi la centralità dell’attenzione alla persona che riceverà negli studi sulla rappresentanza sindacale il massimo sviluppo e la sua massima esaltazione. Anche nella dimensione della rappresentanza è sempre la persona che liberamente sceglie «la sua collocazione in un divenire collettivo … o la sua partecipazione razionale e libera alla definizione del suo destino», come ha scritto giustamente nel suo intervento Enrico Gragnoli. Naturalmente Grandi avverte subito che il compito principale dell’interprete è quello di dar conto [continua ..]
L’individuazione della figura del “datore di lavoro” implica una problematica che è, all’un tempo, terminologica e storica. Essa nasce – spiega Mario Grandi dando un contributo fondamentale alla ricerca – dall’evoluzione della figura del “conduttore di opere” ed «il passaggio dal termine conductor operarum a quello di datore di lavoro coincide, così, con il travaglio storico che ha preceduto e accompagnato lo sviluppo della moderna figura del contratto di lavoro, distaccatosi dal ceppo originario della locazione romanistica» [15]. Agli albori dell’industrialismo «le relazioni tra padroni ed operai sono riguardate come un affaire de police, estranee al mondo delle relazioni contrattuali e, quindi, non comprese nello studio del diritto civile» [16]. Non a caso, annota G., la mancata regolamentazione del rapporto di lavoro nel Codice napoleonico si giustificava in ragione del fatto che «in un’epoca appena agli albori dell’industrialismo, dominata dalla preoccupazione di non alterare gli equilibri sociali ed economici esistenti» si temeva che tale alterazione si sarebbe verificata «se all’incipiente diffondersi delle relazioni tra padroni ed operai si fosse conferita la dignità di una autonoma figura contrattuale» [17]. Toccò allora alla dottrina coniare l’espressione oggi corrente di datore di lavoro, in un contesto nel quale la legislazione non era di alcun ausilio, operando riferimenti generici alle figure dell’“esercente” o del “gerente” o, ancora, dell’“industriale”. Fu la dottrina tedesca (l’immancabile Lotmar) ad introdurre l’espressione Arbeitgeber, espressione importata dal nostro Barassi e tradotta in “datore di lavoro”. Il legislatore la fece propria a partire dalla storica legge sull’impiego privato del 1924, che da allora in avanti designò «dei due soggetti del contratto di lavoro, colui che assume la posizione giuridica di creditore della prestazione di opere» [18]. Con il codice civile la prospettiva, almeno all’apparenza, cambia. Il codice mette al centro del libro V (che ne costituisce, in qualche modo, la “costituzione economica”) l’impresa ed il datore viene a coincidere con l’imprenditore, che [continua ..]
Prima di chiudere questo mio intervento sulle ascendenze civilistiche del pensiero di Mario Grandi vorrei fare un breve cenno ad alcuni studi di diritto sindacale, studi dei quali parleranno più diffusamente altri, che, a mio avviso, illustrano non solo la solidità della Sua formazione culturale ma anche la capacità di andare controcorrente, contrapponendosi al comune sentire diffuso fra i cultori della materia. Ho già ricordato lo studio sui rapporti fra contratti collettivi di diverso livello che è una sorta di trattatello di teoria generale che muove dalla identificazione della nozione “norma” e la declina rispetto all’autonomia collettiva ed ai suoi atti [26]. Altrettanto ricco è l’apparato concettuale a sostegno degli studi sulla rappresentanza sindacale, nei quali attribuisce al giurista il ruolo, che è etico prima che tecnico, di fornire indicazioni prescrittive che valgano a dipanare la complessità dell’ordinamento, contrapponendosi – se si passa la semplificazione – al descrittivismo della posizione di Giugni [27]. Ancora. Nello studio sull’attività sindacale nell’impresa è particolarmente evidente il suo atteggiamento critico nei confronti del legislatore e dei suoi interpreti ossequienti. Grandi non ha paura infatti di andare contro la vulgata diffusa fra i giuslavoristi, pressoché senza differenze, che salutava positivamente la scelta di attribuire la legittimazione a costituire le r.s.a. ai singoli lavoratori, per introdurre un pizzico di spontaneismo nel procedimento di formazione della rappresentanza dentro l’impresa. Si tratta per Lui di una posizione sostanzialmente ambigua e forse opportunistica, laddove più coerente con la promozione dell’attività del sindacato dentro l’impresa sarebbe stato attribuirla ai sindacati: «l’idea, largamente utopistica, di un’organizzazione spontanea dal basso della rappresentanza è destinata a vanificarsi di fronte ad una insopprimibile esigenza di funzionalità, che porta il legislatore a collegare l’organizzazione stessa ed i suoi processi formativi a parametri di efficienza e serietà rappresentativa, attribuibili soltanto agli autentici gruppi sindacali organizzati all’esterno dei luoghi di lavoro» [28]. Altrettanto illuminanti e contro-corrente sono infine le [continua ..]
Il nostro incontro di studi si interroga e ci invita ad interrogarci sulla attualità del pensiero di Mario Grandi. Ora l’attualità può essere intesa come capacità di antivedere problemi e questioni che si sarebbero posti in un futuro prossimo o remoto. Ed in qualche caso ciò si è verificato, come abbiamo visto, ad esempio, a proposito della crisi della rappresentatività. Ma l’attualità di un insegnamento non è solo questo; è l’indicazione di una via utile per le future generazioni di giuristi; è l’attualità di un metodo. Ed allora qual è il metodo di Mario Grandi? è certamente un giuspositivista, ma non un piatto esegeta della norma avulsa dal contesto, è invece un interprete molto attento al sistema complessivo. Del resto, come ha scritto Giuseppe Pera, «il giurista, tutto concedendo alla massima apertura sociale possibile, non può, per definizione, rinunciare al tentativo di costruire un sistema e a ritenerne, coerentemente, l’impegnatività, così come il pesce ha bisogno dell’acqua … C’è, in questo, un pizzico irriducibile di conservatorismo, ma questo pizzico (anche questa è una vecchia verità) non può non esservi»[32]. È però un positivista critico che non rinuncia a denunciare gli abusi interpretativi che si risolvono nell’impiego di terminologie prive di significati vincolanti; gli esempi non mancano nella sua vasta produzione: lo abbiamo ricordato a proposito della critica alla sentenza della Corte costituzionale sull’art. 19 Stat. lav. e sull’abuso della categoria concettuale dell’“effettività” o a proposito della legittimazione dei lavoratori a promuovere le r.s.a. Grandi in sostanza non esita a porsi in conflitto anche con la dottrina maggioritaria per affermare una sua visione della realtà giuridica. Certo in alcuni passaggi il Suo discorso rischia di essere autoreferenziale piegato com’è a discutere all’interno dell’orizzonte dogmatico, talvolta con scarsa attenzione alla giurisprudenza. Questo limite, però, sempre ammesso che lo sia, può forse derivare sia dalla circostanza che Grandi si è sempre confrontato con temi di frontiera, sia dalla sua propensione alla ricostruzione sistematica degli [continua ..]