L’articolo analizza le innovazioni apportate dalla direttiva 2018/957 alla disciplina del distacco transnazionale di lavoratori tra Stati membri dell’UE, nonché le modalità con cui il legislatore italiano le ha recepite con il d.lgs. n. 122/2020. Si rileva la problematicità nel dare un’efficace attuazione alla direttiva nell’ordinamento italiano, che non conosce né un salario minimo legale né un contratto collettivo di categoria con efficacia generalizzata. Si segnala che in ogni caso neppure gli Stati membri che godono di questi strumenti regolativi sono messi dalla nuova direttiva al riparo dei pericoli di dumping sociale, perché il terreno in cui si cui si gioca questa concorrenza va estendendosi ai regimi di previdenza sociale e al lavoro autonomo, che si collocano entrambi al di fuori dell’ambito di applicazione della direttiva 96/71 anche così come ora emendata. Allo stesso modo ancora molti progressi debbono farsi per realizzare un efficace sistema europeo di cooperazione nel controllo e nell’applicazione di sanzioni dissuasive nei confronti delle aziende che si avvalgono abusivamente del distacco transnazionale dei lavoratori.
The paper analyzes how the directive 2018/957 has reformed the regulation of posting of workers among EU Member States and how the Italian legislator has implemented this reform. The great difficulty in implementing effectively the new directive in the Italian legal order is underlined, because this order have neither a minimum wage stated by law nor collective agreements of general efficacy. It is argued that anyway Member States enjoy these legal devices are exposed to social dumping risks too, because the ground where this competition is played is going to be extended to social security regimes and to self-employment, which are both matters outside the field of applying the directive 96/71 even as now emended. Furthermore many other steps beyond have to be done to build a well-functioning European system for investigating and sanctioning severely firms enjoy abusively posting of workers.
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1. Gli obiettivi della riforma della disciplina del distacco trans-nazionale - 2. La nuova soglia temporale all’applicazione del diritto del Paese di origine - 3. Il principio di parità retributiva - 4. I nuovi abusi del distacco - 5. Il distacco trans-nazionale dei lavoratori interinali - 6. Tutela della disciplina nazionale dello sciopero e della contrattazione collettiva - 7. La disciplina del monitoraggio e delle sanzioni - NOTE
La numerosità di pronunce della Corte di Giustizia e la successione di interventi del legislatore europeo a ristretto intervallo temporale testimoniano che il distacco transnazionale dei lavoratori in seno al mercato unico sia ancor oggi uno dei temi più sensibili della convivenza degli Stati Membri dell’Unione europea. La Commissione UE si ostina, almeno nei suoi atti ufficiali, a minimizzare la rilevanza del problema appellandosi ai dati che si evincono dai modelli A1, secondo cui sarebbe interessato da questo fenomeno appena lo 0,8% della forza lavoro del mercato unico [1]. Molte ricerche, però, confermano che questi dati sono inaffidabili e peccano certamente per difetto perché spesso i datori di lavoro non osservano questo adempimento, soprattutto per le missioni che non si prolungano per più di qualche mese [2]. Ma ciò che è più rilevante, e forse non rappresentabile e misurabile con alcun dato, è la pressione che la disciplina del distacco transnazionale esercita incessantemente sui Paesi membri con più alto costo del lavoro e con un diritto del lavoro più protettivo verso una progressiva compressione dei loro standards di tutela sociale. Questa disciplina infatti li espone alla minaccia, attuale o potenziale, di una possibile emigrazione delle imprese stabilite nel loro territorio [3]. Quest’ultime sono sistemicamente allettate dall’ipotesi di delocalizzare in toto o in parte la loro produzione in altri Stati membri che offrono condizioni regolative di maggior favore, per poi continuare dal territorio di questi a prestare i loro servizi ai consumatori/clienti dei primi distaccandovi i propri lavoratori. Tale soluzione organizzativa non solo è pienamente legittima, ma oserei dire quasi “connaturata” al mercato unico europeo, che si fonda sin dalla sua origine sui pilastri della libertà di circolazione e di stabilimento delle imprese [4]. Sin dal famigerato “Laval quartet” [5] è emersa con evidenza l’inadeguatezza – nel contesto socio-economico dell’Unione allargata ai Paesi post-comunisti dell’est [6] – del compromesso faticosamente raggiunto nell’Europa a 15 con la direttiva 96/71 [7]. Nelle intenzioni, almeno degli Stati membri di più datata adesione dotati del diritto del lavoro più [continua ..]
La direttiva 2018/957 lascia invariato l’ambito di applicazione – sia oggettivo sia soggettivo – della direttiva 96/71, che è definito da un duplice requisito di temporaneità: a) la “temporaneità” del servizio prestato nel territorio di uno Stato membro ospitante da un’impresa stabilita in un diverso Stato membro, c.d. di origine o home State; b) la “temporaneità” del distacco presso lo Stato ospitante dei dipendenti della stessa impresa che abitualmente lavorano nello Stato di stabilimento di questa. La nozione di “temporaneità” del servizio è da sempre una delle note dolenti del disposto della direttiva 96/71. Il testo della direttiva non offre alcuna espressa e puntuale qualificazione di tale requisito, né questa è dettata da altri fonti del diritto europeo, neppure dal Regolamento n. 593/2008, in cui è stata ora trasposta la Convenzione di Roma del 1980 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. È solo dalla giurisprudenza della Corte di giustizia che si possono evincere i caratteri del requisito di temporaneità del servizio. Tuttavia la nozione enucleata dai giudici di Lussemburgo è quantomai ampia perché vi ricomprende ogni servizio che abbia strutturalmente (e quindi con certezza) una conclusione, anche qualora sia indeterminato il “quando”: ad es. la costruzione di un ponte, di un tratto autostradale, di una scuola, od ancora la creazione di una banca dati informatica ecc. [15]. È invece indifferente la durata temporale per cui la prestazione di questo servizio si protragga; fosse anche per anni ciò non inficia la sua “temporaneità”, perché – come ha più volte chiarito la Corte di giustizia – “temporaneo” non è affatto sinonimo di “breve” [16]. La Corte ha reso ancor più complesso l’individuazione in pratica delle ipotesi di temporanea prestazione di servizi affermando che né la continua reiterazione dei medesimi servizi (i casi più comuni sono quelli degli appalti edili o dei servizi di trasporto), né l’apertura di una sede di rappresentanza nel Paese ospitante, sono circostanze idonee di per sé a far venir meno la “temporaneità” del servizio [17]. È evidente come legare la [continua ..]
La direttiva 2018/957 interviene su un altro punto altamente sensibile della direttiva 96/71, che è stato in genere additato come una delle cause principali del social dumping tra gli Stati membri dell’Unione europea, e cioè la puntuale determinazione del trattamento retributivo minimo da applicarsi ai lavoratori distaccati. Il testo originario dell’art. 3.1 della direttiva 96/71 enumerava le “tariffe minime salariali” tra le materie per cui il lavoratore distaccato è soggetto alla disciplina applicabile nel Paese ospitante. La Corte di giustizia ha interpretato tanto restrittivamente quanto rigorosamente questa materia declinandola in termini sostanzialmente coincidenti con la nozione anglosassone di “minimum wage” [24], che è sensibilmente distante da quella più ampia di “retribuzione minima” comunemente praticata nei Paesi di tradizione romanistica. In conformità alla prima nozione le imprese distaccanti sono obbligate a garantire ai lavoratori distaccati soltanto un trattamento retributivo non inferiore a quello minimo orario praticato nel Paese ospitante per qualsiasi tipologia di attività, professionalità, settore di impiego e lavoro [25]. La Corte ha originariamente professato la sua convinta e ferma adesione a questa lettura “minimalistica”; più di recente la Corte ha però iniziato a fare delle timide concessioni, riconoscendo che anche trattamenti retributivi differenziati per inquadramenti professionali fossero rispondenti alla nozione di “tariffe minime salariali” [26], nonché tutti quegli importi che sono erogati dal datore di lavoro per compensare l’attività lavorativa senza alterare – come si esprime la Corte – “il rapporto tra la prestazione del lavoratore, da un lato, ed il corrispettivo percepito, dall’altro” [27], seppur continuando ad escludere radicalmente che i rimborsi delle spese di trasporto e di pernottamento effettivamente sostenute dal lavoratore distaccato possano esser ricompresi nel computo della sua retribuzione per verificarne l’equivalenza con quella che gli spetterebbe secondo il diritto del Paese ospitante [28]. La direttiva 2018/957 ha significativamente sostituito l’espressione “tariffe minime salariali” con quella più ampia di “retribuzione”, [continua ..]
Anche i Paesi membri che hanno preso efficaci misure per fronteggiare questi problemi nell’individuazione della “retribuzione” che le imprese distaccanti devono osservare, come appunto la Germania con l’introduzione della retribuzione minima oraria prevista per legge, non possono comunque dirsi al sicuro rispetto ai pericoli di social dumping. Come detto, la nuova direttiva si è astenuta dall’intervenire a delimitare o quantomeno a definire più precisamente il requisito della “temporaneità” del servizio; per reazione il terreno di concorrenza tra i regimi giuridici dei Paesi ospitanti e di quelli di origine delle imprese distaccanti sta progressivamente spostando il suo baricentro dalla disciplina del lavoro subordinato a quella del lavoro autonomo [42]. Né la direttiva 96/71, né ora la direttiva 2018/957 trovano applicazione alle condizioni di lavoro dei lavoratori autonomi. Quest’ultimi, quando accedono al territorio di un Paese membro diverso da quello di stabilimento per prestare un servizio “temporaneo”, sia di loro iniziativa sia se inviati da un committente, hanno diritto – in virtù del “principio di mutuo riconoscimento” – di esplicare la loro attività alle condizioni, anche relative al compenso minimo, previste dal proprio Paese di origine. Questo principio è stato in origine partorito dalla giurisprudenza della Corte di giustizia [43], ma è ora positivizzato nell’art. 16 della direttiva 2006/123 (c.d. direttiva servizi) [44]. Teoricamente è pur sempre possibile per lo Stato ospitante imporre l’applicazione del proprio diritto nazionale ai sensi dello stesso art. 16 della direttiva 2006/123, ma quest’estensione ai lavoratori autonomi/prestatori di servizi provenienti da altri Paesi membri deve essere giustificata da “… ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica o di tutela dell’ambiente”, ed ho già sottolineato quanto sia ristretta e rigorosa l’accezione di ragioni di “ordine pubblico” fatta propria dai Giudici di Lussemburgo. Poiché, come noto, non è affatto agevole la distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, e ciò comporta estrema incertezza nel discernere in concreto se un lavoratore proveniente da un diverso Stato membro sia [continua ..]
La direttiva 2018/957 sgombra il campo da un altro problema di sistema assai spinoso: chiarisce che la disciplina del distacco non deroga in alcun modo al principio di parità di trattamento tra lavoratori impiegati tramite agenzie interinali e lavoratori alle dipendenze dell’utilizzatore dettato dalla direttiva 2008/104. Anche qualora il lavoratore interinale venga distaccato presso un utilizzatore ubicato in un Paese membro diverso da quello di stabilimento dell’agenzia, egli, sin dal primo giorno del distacco e non dal dodicesimo mese, gode della piena parità di trattamento con i lavoratori alle dipendenze dell’utilizzatore per tutte le materie, e non solo per quelle enumerate dall’art. 3.1. Anche in questo caso il legislatore europeo ha voluto togliere ogni appiglio normativo a una strumentale interpretazione della direttiva 96/71 che, valorizzando l’espressione letterale utilizzata alla lett. d) dell’art. 3.1 [51], giungeva a ritenere che le disposizioni dello Stato ospitante che trovassero applicazione sin dall’inizio del distacco ai lavoratori interinali fossero soltanto quelle “causali”, che legittimano il ricorso a questo istituto in conformità al diritto nazionale, e non anche ai trattamenti da applicarsi al rapporto contrattuale di lavoro degli stessi lavoratori, cui troverebbe invece applicazione il diritto del lavoro dello Stato ospitante soltanto per le materie di cui all’art. 3.1., rimanendo per le altre applicabile il diritto del Paese di stabilimento dell’agenzia interinale. Per questa via si è cercato di legittimare la possibilità delle imprese utilizzatrici di avvalersi di lavoratori al costo retributivo praticato nel Paese dell’agenzia distaccante. Una tale deroga esercitata dalla direttiva 96/71 al principio di parità di trattamento dettato dalla direttiva 2004/108 non aveva in realtà alcun fondamento sistematico già prima delle integrazioni apportate dalla direttiva del 2018; l’intervento del legislatore europeo ha comunque il merito di aver fatto definitivamente chiarezza visto che una pronuncia della Corte di giustizia al riguardo tardava ad arrivare. Il nuovo comma aggiunto alla lett. c) dell’art. 3.1 della direttiva 96/71 inoltre precisa che – di principio – nell’ipotesi di triangolazione, in cui un’agenzia interinali stabilita in un Pese [continua ..]
Il nuovo art. 1-bis della direttiva 96/71, aggiunto dalla direttiva del 2018, affronta coraggiosamente anche l’annoso problema dei limiti entro cui le organizzazioni sindacali possono tutelare gli interessi dei lavoratori perseguendo accordi collettivi con la parte datoriale e ricorrendo anche ad azioni di sciopero quale strumento di pressione sulla controparte anche a costo di comprimere le libertà dell’impresa garantite dal TFUE. Questo è l’oggetto di tutta la saga giurisprudenziale della Corte di giustizia che parte dal “Laval quartet” ed è giunta sino al caso Iraklis [53], rimanendo fedele all’orientamento che attribuisce prevalenza alle libertà economiche nel bilanciamento con i diritti di contrattazione collettiva e di sciopero. Sinora non paiono aver significativamente spostato i Giudici di Lussemburgo dalle loro convinzioni le innovazioni apportate dal Trattato di Lisbona che in realtà parrebbero (ingenuamente) assai rilevanti: l’attribuzione del medesimo valore delle altre previsioni dei Trattati alla Carta di Nizza, che riconosce il rango di diritti fondamentali dell’Unione europea sia al diritto di contrattazione collettiva sia a quello di sciopero (art. 28); ed inoltre l’introduzione nel TFEU dell’art. 9 (c.d. clausola passerella), che dispone che nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana [54]. La previsione inserita nel testo della direttiva 96/71 afferma a chiare lettere che la disciplina del distacco non deve pregiudicare in alcun modo l’esercizio dei diritti fondamentali riconosciuti dagli Stati membri e a livello di Unione, “compresi il diritto o la libertà di sciopero o il diritto o la libertà di intraprendere altre azioni contemplate dalla disciplina delle relazioni industriali negli Stati membri, in conformità della normativa e/o delle prassi nazionali” e “il diritto di negoziare, concludere ed eseguire accordi collettivi, o di intraprendere azioni collettive in conformità della normativa e/o delle prassi nazionali”. È pur vero che la proposta del [continua ..]
La nuova direttiva, in continuità con la direttiva 2014/67, continua a scommettere sulla cooperazione tra le autorità competenti degli Stati membri sia per monitorare il fenomeno sia per reprimerne gli abusi. L’autorità del Paese ospitante ha il diritto di ottenere da quella del Paese di origine dell’impresa distaccante le informazioni necessarie. In caso di mancata collaborazione o di ritardi occorre informarne la Commissione, che può adottare imprecisate “misure adeguate” nei confronti del paese inadempiente. Questo è un aspetto molto delicato perché come già emerso per l’attuazione della direttiva enforcement del 2014 spesso i Paesi ospitanti e quelli di origine delle imprese distaccanti hanno interessi politici ed economici difficilmente componibili: i primi volti a comprimere, i secondi a promuovere la competitività di queste imprese. Solo un’attenta supervisione da parte della Commissione potrà assicurare un buon funzionamento di tale sistema di trasmissione delle informazioni tra Amministrazioni di diversi Paesi membri. Allo stesso modo della direttiva del 2014 la nuova direttiva si astiene dall’indicare le sanzioni che devono essere adottate nei confronti delle imprese che non osservano le disposizioni della stessa seppur precisando che le stesse “… devono essere effettive, proporzionate e dissuasive” in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia [58], nonché che, laddove si accerti la simulazione del distacco, il lavoratore deve godere di tutti i diritti di maggior favore garantiti dal diritto dello Stato ospitante. Anche questo è un altro problema lasciato irrisolto, perché le misure sanzionatorie previste dagli ordinamenti nazionali sono sideralmente diverse per severità nei confronti delle imprese; inoltre è assai complesso ottenere l’effettiva applicazione delle sanzioni comminate da uno Stato ospitante ad imprese distaccanti che sono stabilite in un altro. In merito il d.lgs. n. 122/2020 non innova il d.lgs. n. 136/2006, lasciando invariata la scelta del legislatore nazionale di rinunciare sostanzialmente a sanzionare le imprese distaccanti e di responsabilizzare quelle che fruiscono nel territorio italiano dei servizi delle prime. Seppur iniqua appare una soluzione funzionale perché è indubbiamente [continua ..]