Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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“A cosa stai pensando?”. Libertà di pensiero e diritto del lavoro ai tempi dei social network (di Alessandro Riccobono, Professore associato di Diritto del lavoro dell’Università degli Studi di Palermo Silvio Bologna, Ricercatore di Diritto del lavoro dell’Università degli Studi di Palermo )


Il saggio esamina i limiti all’utilizzo dei social network del lavoratore nel contesto della relazione di lavoro e nella vita privata. Nella prima parte ci si sofferma sulla questione del monitoraggio tecnologico dei dipendenti, alla luce della disciplina in tema di privacy e controllo a distanza dei lavoratori. Nella seconda parte l’attenzione è concentrata sulle condotte extra lavorative e sulla loro possibile incidenza sulla relazione lavorativa. Filo conduttore dell’analisi è la verifica degli spazi di tutela dei diritti della personalità, alla luce dell’ap­pli­cazione giurisprudenziale più recente.

“What are you thinking about?”. Freedom of expression and labour law in times of social network

The current work examines the boundaries to the use of social networks by workers within the contexts of employment relationship and private life. In its first section it deals with the remote control of employees in the light of personal data protection legislation. In its second section the essay analyses the impact of extra-work behaviours on the employment relationship. The fil rouge of the analysis is to verify the extent of protection of workers’personal rights according to most recent law cases.

SOMMARIO:

1. I social network sono strumenti democratici? - 2. Social media e controlli sul lavoratore: la tutela della privacy nella societas virtuale - 3. Social network e condotte extra-lavorative: «tutto ciò che dirai potrà essere usato contro di te» - 4. Il diritto di critica e la controversa rilevanza del contesto comunicativo virtuale - 5. Osservazioni conclusive - NOTE


1. I social network sono strumenti democratici?

Quando sono comparsi per la prima volta sui nostri personal computer, all’incirca quindici anni fa, nessuno avrebbe immaginato l’impatto che i social network avrebbero avuto nella vita sociale, politica e culturale. Le applicazioni tramite le quali condividiamo quotidianamente il nostro pensiero sulla rete, autorizzando lo scambio di informazioni che riguardano le nostre vite e quelle di una platea potenzialmente illimitata di altri utenti, costituiscono oggetto di una retorica che tende a esaltare le capacità emancipatrici delle piattaforme tecnologiche e a presentarle come strumento più avanzato per l’esercizio delle libertà democratiche. La libertà di espressione, già definita dalla Corte Edu come fondamento della società democratica [1], appare oggi pienamente de-territorializzata, al punto che se può discutersi della globalizzazione economica come fenomeno che ha eliminato ogni tipo di collegamento geografico fra il sistema statuale e il mercato, altrettanto legittimamente si può parlare di una globalizzazione del pensiero, ormai slegato da confini fisici e limiti di diffusione. Al fondo delle opportunità che le nuove tecnologie dischiudono per l’auto-realizzazione dell’individuo, tuttavia, aleggia il temibile «inganno della rete»: più il popolo del web conquisterà i dispositivi della conoscenza offerti dalle moderne community virtuali, maggiori saranno le possibilità che gli spazi messi a disposizione da queste ultime gli si rivoltino contro, trascinandolo nella più classica «vendetta della natura». In questa prospettiva, alcuni diritti fondamentali della persona, come appunto quello di manifestare liberamente il proprio pensiero, rischiano di finire vittime di sé stessi, vale a dire ostaggio di una emancipazione falsa. È opinione condivisa che l’ampliamento dei margini di esercizio delle libertà democratiche prodotto dai social network – in termini di partecipazione, relazionalità e interconnessione – abbia colto impreparato il diritto positivo, quale fenomeno storicamente condizionato [2]. Tale disagio è stato avvertito in particolar modo dai giuristi del lavoro, tenuto conto che le trasformazioni della realtà socio-economica dettano i tempi della sincronizzazione fra le tecniche regolative [continua ..]


2. Social media e controlli sul lavoratore: la tutela della privacy nella societas virtuale

Nella societas virtuale, in cui dati e ricchezza circolano in forma dematerializzata, i social network si ergono a strumenti potenzialmente lesivi della riservatezza del lavoratore, esposto al rischio di controlli da parte del datore di lavoro non soltanto in forma occulta (si pensi alla creazione di un falso account per monitorare l’esatto adempimento della prestazione), ma anche quando il social sia uno strumento di esecuzione del contratto (il caso del lavoratore che svolge le mansioni di social media manager). In particolare, si tratta di verificare se e come l’imprenditore possa esercitare il potere di controllo non più attraverso le strumentazioni di novecentesca memoria quali telecamere e impianti di videosorveglianza, ma tramite tecnologie dematerializzate operanti nel web 2.0 e sempre che la prestazione venga resa in modalità digitale. La valutazione verrà condotta in chiave multilivello, alla luce delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali del lavoratore e di effettuazione dei controlli. Nell’ordinamento nazionale il punto di partenza è rappresentato dall’art. 4 dello Statuto dei lavoratori, norma approvata nel 1970 all’epoca della fabbrica fordista-taylorista in cui il controllo aveva una fisicità intrinseca – la telecamera – e non certo l’immaterialità odierna data non solo dai social ma anche dagli algoritmi e dalla profilazione dei dati contenuti nelle mail o nella navigazione [9]. Lo Statuto vietava il mero controllo a distanza dei lavoratori, per ammetterlo in forma indiretta quando fosse richiesto da ragioni organizzativo-produttive e dalla tutela della sicurezza. Il potere datoriale era circoscritto non soltanto a livello finalistico, ma anche nelle modalità di esercizio: era infatti necessaria la stipula di un accordo collettivo con le rappresentanze sindacali in azienda o, in difetto, un’autorizzazione della competente autorità amministrativa. In progresso di tempo la giurisprudenza ammetteva la possibilità dei cosiddetti controlli “difensivi”, finalizzati alla verifica di eventuali illeciti commessi dal lavoratore, considerati legittimi anche se non contemplati dall’art. 4, in quanto espressione del potere disciplinare dell’imprenditore [10]. A prescindere dalla loro opportunità tali controlli erano [continua ..]


3. Social network e condotte extra-lavorative: «tutto ciò che dirai potrà essere usato contro di te»

La dialettica social media-libertà di manifestazione del pensiero produce ricadute inevitabili anche sui comportamenti posti in essere al di fuori del­l’orario di lavoro, sebbene ciò che accade nella vita privata del lavoratore sia oggetto di considerazione assai variabile tra i diversi sistemi giuridici europei e d’oltreoceano [44]. In questa sede sarà esaminata la casistica giurisprudenziale italiana, che ha coinvolto in eguale misura il settore pubblico e quello privato, giungendo a risultati non ancora pienamente assestati su un indirizzo univoco [45]. Al di fuori dei casi in cui alcune condotte extra-lavorative siano oggettivamente incompatibili con le condizioni di salute del dipendente che si trovi in malattia [46], la questione della legittimità dei provvedimenti disciplinari irrogati per un utilizzo delle piattaforme digitali ritenuto inappropriato dal datore di lavoro ha riguardato innanzitutto comportamenti e stili di vita desumibili da foto, post, tweet e perfino like condivisi via social dal lavoratore [47]. La reazione datoriale a fatti che riguardano la sfera privata del dipendente chiama in causa il rispetto dell’obbligo di fedeltà (art. 2105 c.c.), la cui portata ha progressivamente travalicato i confini della relazione negoziale, divenendo un parametro per valutare non solo il rispetto dei doveri accessori di non concorrenza e riservatezza, ma anche l’attitudine professionale del prestatore rispetto alla missione di impresa [48]. Si afferma pertanto che il lavoratore (pubblico o privato) è tenuto ad astenersi dal porre in essere comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro, ovvero dal creare situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi dell’impresa, pena la lesione del vincolo fiduciario che sussiste fra le parti [49]. Sotto questo profilo, il problema tradizionale con cui si è confrontata la riflessione giuslavoristica riguarda la delimitazione dell’area del debito lavorativo, affinché la capacità auto-espansiva dell’obbligo di fedeltà non conduca ad abbracciare una concezione fiduciaria che preveda l’adesione etico-morale del lavoratore al sistema di preferenze soggettivo del datore di lavoro, convertendo il dovere di lealtà professionale in viatico per la servitù [continua ..]


4. Il diritto di critica e la controversa rilevanza del contesto comunicativo virtuale

Una seconda area di interesse per il tema che si sta trattando riguarda l’ipotesi in cui il lavoratore condivida sulla propria pagina Facebook o su altro spazio virtuale opinioni personali – ovvero anche di terzi, tramite il meccanismo del repost – che presentino contenuti offensivi per il datore di lavoro [60]. In questo caso, si pone il problema del contemperamento tra il diritto critica del lavoratore e quello all’onore dell’impresa e del suo titolare, da intendersi anche qui nei due aspetti del decoro professionale e della stima acquisita nella comunità economico-sociale di riferimento. Nel condurre l’operazione di bilanciamento, la giurisprudenza civile fa largo utilizzo dei criteri adoperati in ambito penalistico per la configurazione del reato di diffamazione, ancorché la rilevanza disciplinare delle espressioni denigratorie rivolte al datore di lavoro possa sussistere a prescindere dalla loro eventuale rilevanza penale [61]. La comparazione con il territorio penalistico è tuttavia interessante, atteso che i casi di diffamazione a mezzo Facebook dominano tutti i più recenti repertori della giurisprudenza penale, soprattutto a causa dell’utilizzo sempre più scomposto dei social media nella scena politica e della preoccupante tendenza di molti personaggi pubblici a invocare in modo strumentale le patologie della comunicazione telematica per conseguire lauti ristori per i danni non patrimoniali sofferti [62]. Nella giurisprudenza penale, i criteri per individuare il punto di equilibrio tra il diritto di critica e quello all’onore della persona offesa sono del tutto consolidati. Nelle pronunce più recenti si afferma che «valutare e commisurare il diritto di un cittadino di manifestare liberamente il proprio pensiero tramite critica comporta non soltanto l’onere di accertare la capacità lesiva delle espressioni utilizzate, ma anche la loro intensità» [63]. In sostanza, la Cassazione ritiene che se si escludesse il diritto di critica ogniqualvolta sia lesa sia pur in modo minimo la reputazione di taluno, si finirebbe col negare il diritto alla formazione di opinioni dissenzienti o anticonformiste, con la conseguenza di svuotare i principi su cui si regge una moderna società democratica. Trattandosi di diritti contrapposti, la ricomposizione degli interessi in gioco [continua ..]


5. Osservazioni conclusive

Nel contesto liquido della comunicazione virtuale, la libertà di espressione è chiamata a fare i conti con la perdita di senso critico scaturente dalla normalizzazione di forme di socialità spersonalizzate e cieche, quale prodotto inevitabile di relazioni intrattenute con interlocutori che il più delle volte sono perfetti sconosciuti. Ciò ingenera l’aspettativa che nella rete si possa fare e dire di tutto, senza avere consapevolezza del fatto che la rete è divenuta essa stessa un sistema giuridico da cui scaturiscono diritti, obblighi e responsabilità. Il cambiamento del modello comunicativo sul quale poggiano i tradizionali valori del vivere civile rende più incerta l’operazione di contemperamento degli interessi da parte della giurisprudenza, la quale opera all’insegna di un bilanciamento libero, cioè sostanzialmente affidato al test di proporzionalità. Né potrebbe essere diversamente, considerato che la contrapposizione tra la libertà di manifestazione del pensiero da un lato, e la tutela dell’onore dall’altro, evoca lo scontro fra diritti egualmente fondamentali e inviolabili, per i quali sarebbe illusorio aggrapparsi al consueto argomento della gerarchia dei valori costituzionali. È vero che l’approccio funzionale della giurisprudenza ha assicurato risultati condivisibili allorquando i social network sono stati utilizzati in modo clamorosamente scomposto o penalmente rilevante, ma nella zona grigia delle opinioni personali racchiuse in un like, in una emoticon o in un retweet, un simile incedere pragmatico sconta inevitabili margini di soggettivismo. Basti pensare alla difficoltà di accertare l’intenzionalità della condotta offensiva in caso di gesti estemporanei e impulsivi come la semplice pressione di un tasto o l’invio di un link, specialmente quando si discuta dell’inte­gra­zione di illeciti che presuppongono l’elemento del dolo, come la diffamazione. Per altro verso, il pensiero contemporaneo viene veicolato con un registro linguistico che risponde sempre meno ai classici canoni di sobrietà e moderazione, ma che risulta interiorizzato e convenzionalmente accettato da quel­l’am­plissimo gruppo sociale popolato dai cosiddetti “leoni da tastiera”, al punto che perfino un giudice si è spinto ad [continua ..]


NOTE