Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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L'ultima declinazione flessibile del lavoro dipendente nelle pubbliche amministrazioni (di Caterina Timellini, Ricercatrice di Diritto del lavoro dell’Università degli Studi di Milano)


L’utilizzo dei contratti di lavoro flessibile è, da sempre, uno dei temi più delicati del pubblico impiego, anche in considerazione della naturale stabilità e, quindi, rigidità del rapporto di lavoro. I recenti e ripetuti mutamenti di disciplina, che hanno costantemente ritoccato la materia, hanno ulteriormente contribuito a complicare un quadro già di per sé complesso. Il presente studio si pone, allora, come obiettivo quello di analizzare le varie forme di lavoro flessibile nel settore pubblico alla luce delle più recenti riforme.

The latest flexible version of employee work in public administrations

The use of flexible employment contracts has always been one of the most delicate issues in public employment, also for the natural stability and, therefore, rigidity of the work relationship. The recent and repeated changes of discipline, which have constantly revised the matter at stake, have further helped to complicate a framework of discipline already complex in itself. The study therefore aims at analyzing the various forms of flexible work in the public sector in the light of the most recent reforms.

KEYWORDS:  flexibility – temporary – exceptional – contracts – public employment

SOMMARIO:

1. Introduzione alla flessibilità nel pubblico impiego - 2. Il contratto di lavoro a tempo determinato - 3. Il contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato - 4. I contratti a contenuto formativo - 5. Il contratto di lavoro a tempo parziale - 6. Il telelavoro - 7. Il lavoro agile - 8. Il regime sanzionatorio - 9. Profili di responsabilità e considerazioni finali - NOTE


1. Introduzione alla flessibilità nel pubblico impiego

Quando si parla di flessibilità nel pubblico impiego, il primo pensiero corre a ciò che è «altro» rispetto alle assunzioni con contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato [1]. Solo questi ultimi, infatti, rappresentano la regola per fronteggiare «le esigenze connesse con il proprio fabbisogno ordinario», mentre l’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 – rubricato «Personale a tempo determinato o assunto con forme di lavoro flessibile» [2] e il cui testo è stato oggetto di interventi rapsodici, da ultimo ad opera dell’art. 9 del d.lgs. 25 maggio 2017, n. 75 – nel disciplinare le modalità di utilizzo delle tipologie contrattuali flessibili è ormai da tempo granitico nell’ammettere il ricorso ad esse «soltanto per comprovate esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale», oltre che «nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’articolo 35», ossia tramite procedure selettive volte «all’accertamento della professionalità richiesta». Invero, l’art. 17 comma 1, della legge delega n. 124/2015, rubricato «Riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche», alla lett. o) aveva enucleato, tra i criteri direttivi della quarta riforma del pubblico impiego, la limitazione dell’uso del lavoro flessibile, attraverso l’«individuazione di limitate e tassative fattispecie, caratterizzate dalla compatibilità con la peculiarità del rapporto di lavoro alle dipendenze delle PP.AA. e con le esigenze organizzative e funzionali di queste ultime, anche al fine di prevenire il precariato» [3]. E la ratio che innervava tale previsione era, ovviamente, quella di contingentare l’utilizzo dei contratti di lavoro flessibile al fine di scongiurare quanto più possibile la precarizzazione. Del resto, come è stato evidenziato in dottrina, tra i datori di lavoro che maggiormente utilizzano forme di lavoro flessibile – spesso in modo illegittimo – trincerandosi dietro lo «scudo protettivo che offre loro l’art. 97 Cost.» ci sono proprio le PP.AA. [4]. Senonché, gli interventi di riforma del 2015/2017 sono stati poco incisivi sulle forme flessibili di impiego, limitandosi [continua ..]


2. Il contratto di lavoro a tempo determinato

Nei rapporti di pubblico impiego l’assunzione a tempo determinato ha goduto di mutevoli vicende segnate da un’alternanza tra ostilità e successive rivalutazioni in termini positivi, per poi approdare in tempi recenti ad una «rinnovata considerazione di disvalore» [18]. A norma dell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 le PP.AA. sottoscrivono (rectius hanno l’obbligo di sottoscrivere) contratti a tempo determinato «con i vincitori e gli idonei delle proprie graduatorie vigenti per concorsi pubblici a tempo indeterminato», ossia devono attingere preliminarmente ad esse. Ciò al fine di «prevenire fenomeni di precariato», ma anche per evitare una duplicazione di procedure selettive per mansioni identiche o equivalenti, nel rispetto di un principio monolitico, quale è quello di economicità. Se le ragioni poste a fondamento dell’assunzione a termine devono essere, alternativamente, temporanee o eccezionali [19], non convince certamente il rinvio c.d. «mobile» che l’art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001 effettua agli artt. 19 e ss. del d.lgs. n. 81/2015 [20], ove al contrario l’impianto regolativo della materia è incentrato sulla acausalità, seppur solo nei primi dodici mesi. All’apparenza è pur vero che rispetto alle originarie previsioni del d.lgs. n. 81/2015 la non necessità di una causale è stata ridimensionata dal c.d. Decreto Dignità (ex art. 1, d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2018, n. 96) con riferimento ai contratti di durata superiore ai dodici mesi e, comunque, in occasione dei rinnovi di contratti di durata inferiore, con ciò creando un apparente avvicinamento delle discipline, tuttavia per effetto delle norme di esclusione i nuovi artt. 19, 21 e 28 del d.lgs. n. 81/2015 «non si applicano ai contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni, ai quali continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del presente decreto». Il paradosso è che il legislatore, così operando, mantiene due versioni delle medesime disposizioni di legge, ossia la disciplina previgente del d.lgs. n. 81/2015 per il pubblico impiego e la versione aggiornata e modificata dal Decreto Dignità per il settore privato. Da ciò consegue a cascata [continua ..]


3. Il contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato

L’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001, menziona anche i contratti di somministrazione di lavoro disciplinati dagli artt. 30 e ss. del d.lgs. n. 81/2015. In un’ottica di bilanciamento tra legge e contrattazione collettiva, tuttavia, il richiamo alla legge del 2015 avviene «fatta salva la disciplina ulteriore eventualmente prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro» [27], così che la disciplina collettiva è espressamente legittimata ad integrare la prima ad ampio spettro con riguardo all’oggetto [28]. Peraltro, il richiamo al d.lgs. n. 81/2015 potrebbe indurre a ritenere che, in tema di somministrazione vi sia una comunanza di discipline tra pubblico e privato, ma così come avviene per il contratto a termine tale conclusione viene immediatamente smentita dalla mancata applicazione delle modifiche apportate dal Decreto Dignità al pubblico impiego. Alle PP.AA. è applicabile solo il contratto di somministrazione di lavoro a tempo determinato (art. 31, comma 4, d.lgs. n. 81/2015), inoltre a differenza del privato dove la scelta dell’agenzia è libera, tra amministrazione e agenzia fornitrice si instaura un contratto di appalto di servizi soggetto alle consuete procedure amministrative di aggiudicazione nelle forme del pubblico incanto, della licitazione privata, dell’appalto concorso e della trattativa privata [29]. Il contratto deve essere stipulato in forma scritta e prevedere una serie di elementi individuati dalla legge, quali: gli estremi dell’autorizzazione rilasciata all’agenzia, il numero dei lavoratori da somministrare, le ragioni di carattere temporaneo o eccezionale che giustificano l’assunzione, gli eventuali rischi in materia di sicurezza, l’inizio e la durata del contratto, le mansioni e l’inqua­dramento, il luogo, l’orario e il trattamento economico e normativo. Ove poi la forma scritta manchi oppure ove la somministrazione venga esercitata in modo irregolare, ossia al di fuori dei limiti e delle condizioni previste dalla legge, al lavoratore spetterà il risarcimento del danno, essendogli preclusa la costituzione del rapporto di lavoro alle dipendenze dell’amministrazione [30]. I nuovi contratti collettivi nazionali di lavoro fissano il limite quantitativo di ricorso all’istituto della somministrazione a tempo determinato nella misura del venti per [continua ..]


4. I contratti a contenuto formativo

A differenza di quanto avviene per il settore privato nel quale non può più farsi ricorso a tale tipologia contrattuale, le PP.AA. possono stipulare contratti di formazione e lavoro con giovani di età compresa tra i sedici e i trentadue anni [31] (art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001), con la precisazione che il requisito anagrafico deve essere posseduto non solo al momento della partecipazione al concorso e alla selezione, ma anche al momento dell’assunzione [32]. Rispetto alle condizioni legittimanti il ricorso agli altri contratti flessibili, se è ben vero che alla scadenza prefissata il contratto di formazione e lavoro si risolve automaticamente, non potendo essere prorogato o rinnovato, tuttavia esso può essere trasformato in contratto a tempo indeterminato e il periodo di formazione e lavoro viene computato a tutti gli effetti nell’anzianità di servizio (art. 3, comma 11, del d.l. n. 726/1984, convertito in legge n. 863/1984). Pertanto, essendo tale tipologia contrattuale finalizzata all’assunzione definitiva del personale nulla parrebbe escludere che possa essere utilizzata anche per finalità ordinarie [33]. In questo senso, il contratto di formazione lavoro potrebbe allora costituire un valido strumento di selezione del personale da inserire stabilmente nell’organizzazione, in quanto il periodo di formazione si tradurrebbe in una sorta di periodo di sperimentazione delle capacità professionali del dipendente, senza dover ricorrere al diverso strumento rappresentato dal patto di prova, nonché consentirebbe l’acquisizione di una professionalità al dipendente che si rivelerebbe utile per le PP.AA.. In quest’ottica, allora, queste ultime sono chiamate a tenere adeguatamente conto anche delle assunzioni con contratto di formazione lavoro già nella fase di realizzazione della programmazione dei fabbisogni [34]. I contratti di formazione e lavoro possono essere di due tipologie negoziali di durata non superiore ai ventiquattro mesi, ossia di tipo A e di tipo B, rispettivamente diretti l’uno all’acquisizione di professionalità intermedie con formazione di durata di ameno ottanta ore e l’altro di professionalità elevate con formazione di almeno centotrenta ore. A questi due tipi di contratto, poi, si aggiunge il contratto di formazione e lavoro volto all’inserimento [continua ..]


5. Il contratto di lavoro a tempo parziale

Come ricordato in premessa, benché non espressamente menzionato dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 e quindi utilizzabile per esigenze connesse con il fabbisogno ordinario, le PP.AA. godono di una flessibilità di tipo organizzativo che consente loro di ricorrere al part-time [38], nel rispetto del generalizzato obbligo, che trova fonte nella contrattazione collettiva di comparto, di stipulare per iscritto il contratto individuale di lavoro, con espressa indicazione, quindi, della «tipologia del rapporto di lavoro» e dell’«articolazione dell’orario di lavoro assegnata» al lavoratore. Ferma restando la finalità di conciliazione tra tempi di vita e di lavoro, la ratio posta alla base dell’introduzione del part-time nel settore pubblico è diversa da quella del settore privato. Se in quest’ultimo, infatti, il lavoro a tempo parziale è volto ad aumentare l’occupazione, nel settore pubblico invece esso serve a contenere i costi di spesa del personale [39] e a consentire una deroga al tradizionale regime delle incompatibilità dei dipendenti pubblici [40]. Il part-time nel pubblico impiego, inoltre, appare coerente con la ratio e le finalità dell’art 1, comma 7, della legge delega n. 183 del 2014 e, in particolare, con la lett. a), recante il criterio di delega volto a individuare e analizzare tutte le forme contrattuali esistenti, ai fini di poterne valutare l’effettiva coerenza con il tessuto occupazionale e con il contesto produttivo nazionale e internazionale, in funzione di interventi di semplificazione, modifica o superamento delle medesime tipologie contrattuali [41], nonché con la lett. i), l’abro­gazione di tutte le disposizioni che disciplinano le singole forme contrattuali incompatibili con le disposizioni del testo organico semplificato, al fine di eliminare duplicazioni normative e difficoltà interpretative e applicative [42]. Anche il lavoro a tempo parziale è stato recentemente modificato dal d.lgs. n. 81/2015, ma in questo caso le nuove disposizioni, così come precisato dall’art. 12, trovano applicazione anche nel pubblico impiego, con una disciplina unificata tra privato e pubblico che determina l’abbandono di quella «duplicità di regimi ereditata dal [continua ..]


6. Il telelavoro

Si ricorda inoltre brevemente il telelavoro, sulla cui applicazione nelle PP.AA. in tanti hanno già scritto e ai cui commenti si rinvia [53], richiamando la disciplina dell’art. 4, comma 1, della legge 16 giugno 1998, n. 191, attuato dal d.P.R. 8 marzo 1999, n. 70. Tale regolamentazione pare volta a costituire un criterio certo «di priorità nell’impiego flessibile del personale, purché compatibile con l’organizzazione degli uffici e del lavoro, a favore dei dipendenti in situazioni di svantaggio personale, sociale e familiare» [54] e, alla luce del successivo art. 14 della legge delega n. 124/2015, assicura la «conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle pubbliche amministrazioni». Per la realizzazione di quest’ultima – e, più in particolare, per la definizione di indirizzi e linee guida sull’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere proprio la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti – l’art. 14, comma 3, rinvia ad apposite direttive del Presidente del Consiglio dei Ministri, tra le quali si può ricordare la direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 1° giugno 2017, n. 3. Inoltre, ai sensi dell’art. 14, comma 1, l’adozione delle misure di conciliazione vita – lavoro viene valutata nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale. L’art. 4, comma 3, della legge n. 191/1998, rinvia alla contrattazione collettiva per adeguare la disciplina economica e normativa del rapporto di lavoro dei lavoratori interessati «alle specifiche modalità della prestazione». In proposito si ricorda, allora, l’accordo quadro sul telelavoro del 23 marzo 2000, che ha rappresentato il trampolino di lancio per la regolamentazione dettagliata della materia a partire dalla tornata 1998-2001. Diversamente, invece, la contrattazione collettiva del triennio 2016-2018 contiene solo un riferimento al telelavoro, il ché porta a ritenere che la regolamentazione contenuta nei precedenti contratti collettivi nazionali di comparto sia ancora vigente [55]. In generale, comunque, la contrattazione collettiva deve garantire ai telelavoratori «un trattamento equivalente a quello dei dipendenti impiegati nella sede di lavoro e, in particolare, una adeguata tutela della salute e della [continua ..]


7. Il lavoro agile

La legge 22 maggio 2017, n. 81 recante «Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato» all’art. 18, comma 3, sancisce l’applicabilità del lavoro agile alle PP.AA., ove compatibile [58]. Tale previsione, letta in combinato disposto sia con l’art. 14 del d.lgs. 7 agosto 2015, n. 124 (legge Madia) [59], che promuove la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle PP.AA. [60], sia con la direttiva n. 3 dell’1 giugno 2017 del Dipartimento della funzione pubblica, delinea quindi la disciplina generale di tale istituto. Il lavoro agile, costituisce «una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato» che, nelle intenzioni del legislatore, rappresenta una «alternativa friendly» al telelavoro, «visto come uno strumento datato, costoso e rischioso per l’impresa» (art. 18, comma 1, legge n. 81/2017)  [61]. Di preliminare interesse, quindi, è tentare di delineare una linea di confine tra le due figure. Tale operazione, dal punto di vista teorico, consente di affermare che nel telelavoro è presente una postazione fissa seppur estranea ai locali dell’amministrazione, mentre il lavoro agile si svolge «senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro» «in parte all’interno dei locali dei datori di lavoro e in parte all’esterno senza una postazione fissa». Inoltre, l’utilizzo degli strumenti tecnologici assume carattere «necessario» nel telelavoro ed eventuale – o meglio di «possibile utilizzo» – nel lavoro agile. Sotto quest’ul­timo profilo, quindi, in certi casi non può negarsi che le due figure coincidano [62], tanto che taluna dottrina ha dubitato dell’utilità pratica dello stesso intervento legislativo [63]. È il caso, ad esempio, del lavoro agile reso in connessione telematica con il datore di lavoro, ossia mediante utilizzo di ICT (Information and Communication Technologies). Piuttosto, la differenza risiede in quanto evidenziato chiaramente dalla direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri 1 giugno 2017, n. 3, ossia nel fatto che il lavoro agile, a differenza del telelavoro, si svolge per «fasi, cicli e [continua ..]


8. Il regime sanzionatorio

Oltre ai tratti differenziali tra settore pubblico e settore privato già in precedenza sottolineati è, però, soprattutto la diversa strada percorsa sotto il profilo delle sanzioni applicabili in caso di violazione di disposizioni imperative che riguardano l’assunzione o l’impiego di lavoratori con tipologie di lavoro flessibili, che richiede qualche osservazione aggiuntiva. Ai sensi dell’art. 36, comma 5, d.lgs. n. 165/2001, lasciato immutato dalla riforma Madia, a differenza di quanto avviene nel privato un utilizzo distorto delle tipologie di lavoro flessibile in generale (e non solo del contratto a termine) non comporta mai, come sanzione, la trasformazione in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. E ciò in quanto l’art. 97 Cost., che è espressione di un principio generale in forza del quale l’accesso al lavoro nelle PP.AA. può avvenire solo per concorso pubblico, costituisce per la Corte costituzionale uno scudo inespugnabile contro la stabilizzazione ex lege [69]. Sul punto, tuttavia, non può non darsi atto anche della tesi – secondo alcuni più appropriata rispetto all’art. 97 Cost. – che ha valorizzato come norma di fondamento costituzionale della mancata conversione l’art. 81 Cost. in tema di equilibrio necessario tra entrate e spese del bilancio a carico dello Stato e, quindi, di necessario controllo del costo del lavoro pubblico [70]. Ricostruzione, peraltro, che appare molto più in linea con la ratio della riforma 2015/2017 secondo cui le assunzioni con contratti di lavoro flessibile avvengono «nel rispetto delle condizioni e modalità di reclutamento stabilite dall’articolo 35» (art. 36, comma 2, d.lgs. n. 165/2001). Al lavoratore, quindi, al quale è precluso un incardinamento coattivo nell’organico delle amministrazioni, resta soltanto il rimedio minimale del «risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative» [71]. La Suprema Corte aveva però ritenuto che non fosse possibile far coincidere il danno con la mancata conversione, gravando allora il lavoratore della prova di esso in conformità all’art. 1223 c.c., mediante allegazione di specifiche circostanze di fatto [72]. Dopo alterne vicende, secondo un’interpretazione orientata al canone [continua ..]


9. Profili di responsabilità e considerazioni finali

In conclusione, un dato che balza immediatamente agli occhi è la scelta della quarta riforma di non introdurre significative novità, quanto piuttosto di intervenire con piccoli ritocchi su leggi esistenti, conclusione certamente enfatizzata con riferimento alle tipologie flessibili. Ma non è tutto, in quanto la riforma lascia ancora fluttuare nell’aria tutti quei dubbi che già in precedenza si erano profilati e che scaturiscono dall’accentuata diversità di regimi tra pubblico e privato, acuiti dalla quarta riforma a scapito di un maggior coordinamento con le regole vigenti nel settore privato [85]. Ora, che il settore pubblico si connoti per una specialità di disciplina [86] funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico e al rispetto di alcune disposizioni costituzionali, quali gli artt. 28, 54, 97 e 98 Cost., è stato ampiamente indagato e ormai appurato [87]. Quello che non si capisce, tuttavia, anche tentando di leggerlo attraverso la lente della tutela dell’interesse pubblico, è il cambio di marcia ulteriore, che appare immotivato, ossia la duplicazione di regimi mutuati dal settore privato, con riferimento al quale si registra il mantenimento delle due regolamentazioni del d.lgs. n. 81/2015 ante e post Decreto Dignità. Non prendendo invece posizione né in un senso né nell’altro, il legislatore si è per contro concentrato sulla stabilizzazione del personale, con una impostazione che la Corte costituzionale ha definito «più lungimirante rispetto a quella del risarcimento» [88], la Suprema Corte ha ritenuto essere «una misura ben più satisfattiva di quella per equivalente» [89]. A ciò si aggiunge che, con l’art. 36, comma 5-quater, il legislatore colpisce con la nullità tutti i contratti di lavoro flessibili (cioè, non più soltanto quello a tempo determinato) posti in essere in violazione dell’art. 36, nonché prevede una responsabilità erariale di tutti i dipendenti che abbiano concorso, con il loro comportamento, a determinare un illegittimo reclutamento del personale. Tale responsabilità, di tipo amministrativo-contabile, si viene a concretizzare nell’obbligo dell’amministrazione di recuperare le somme pagate a titolo di risarcimento erogato ai lavoratori assunti in violazione delle [continua ..]


NOTE