Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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L'inclusione sociale dei lavoratori disabili fra diritto dell'Unione europea e orientamenti della Corte di giustizia (di William Chiaromonte, Ricercatore di Diritto del lavoro, Università di Firenze)


Dopo una ricognizione del diritto primario e derivato dell’Unione europea in tema di inclusione sociale dei lavoratori disabili, il saggio esamina gli orientamenti della giurisprudenza della Corte di giustizia concernenti le principali questioni interpretative che si sono sinora poste in relazione alla direttiva 2000/78 in materia di parità di trattamento sul lavoro, con specifico riferimento al fattore della disabilità. In particolare, allo scopo di saggiare la rispondenza dell’apparato normativo all’obiettivo dell’inclusione sociale, si prendono in esa­me – principalmente in relazione ai divieti di discriminazione contenuti nella direttiva – due questioni: la nozione di disabilità e il perimetro delle «soluzioni ragionevoli» che è necessario approntare a beneficio dei lavoratori disabili.

Social Inclusion of Disabled Workers Between EU Law and EUCJ Case Law

After having framed the primary and secondary law of the European Union on social inclusion of disabled workers, the essay analyses the approaches adopted by the European Court of Justice concerning the main interpretative issues raised, so far, with regard to directive 2000/78 on equal treatment at work, with a focus on the disability factor. In particular, in order to test the normative framework against the aim of social inclusion, the Author assesses – mostly in relation to the bans of discrimination provided for by the directive – two aspects: the notion of disability and the perimeter of “reasonable accommodations” which must be developed in order to bring benefits to disabled workers.

SOMMARIO:

1. Introduzione - 2. Disabilità e lavoro nell’Unione europea: il quadro normativo di riferimento - 3. La giurisprudenza della Corte di giustizia sulla nozione di disabilità e sui divieti di discriminazione nel lavoro contenuti nella direttiva 2000/78 - 4. Le «soluzioni ragionevoli» per i lavoratori disabili - 5. Brevi considerazioni conclusive - NOTE


1. Introduzione

La genesi dell’attuale disciplina – nazionale e, per quanto qui maggiormente rileva, europea – in materia di disabilità, e in particolare delle disposizioni che regolano i rapporti fra disabilità e lavoro, è multiforme [1]. Le questioni riguardanti le persone con disabilità hanno progressivamente iniziato ad assumere rilevanza, giuridica e sociale, all’interno dell’allora Comunità economica europea solo a partire dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso [2]. I primi interventi normativi in materia si sono concretizzati in strumenti di tipo assistenziale e protettivo, principalmente finalizzati all’inserimento del disabile nel mercato del lavoro. Gradualmente il contesto di riferimento è mutato: da una prospettiva assistenzialistica, e quindi di tipo passivo, si è andati verso una di tipo attivo. La parificazione e l’inclusione delle persone con disabilità e la garanzia dell’inte­grazione delle stesse nella vita quotidiana e, in particolare, nella dimensione lavorativa sono, quindi, divenuti – anche a livello dell’Unione europea – i nuovi assi portanti dell’azione normativa in materia [3]. Ciò è accaduto, in particolare, grazie alla progressiva introduzione di normative antidiscriminatorie che, muovendo dalla consapevolezza del valore della dignità umana rispetto al fenomeno della disabilità [4], hanno riconosciuto i diritti dei soggetti discriminati, promosso l’eradicazione delle disparità di trattamento e dato luogo – con il fondamentale contributo della giurisprudenza, a iniziare da quella della Corte di giustizia, alla quale in questo contributo si dedicherà particolare attenzione – a un sistema di norme composito e strutturato, per quanto ancora frazionato [5]. Il principio di non discriminazione e la tutela della dignità e della libertà possono, quindi, oggi essere a ragione considerati, all’interno del frastagliato quadro legislativo europeo, e nonostante i limiti – culturali ed economici – che ancora incidono sul raggiungimento dell’obiettivo della piena inclusione sociale, i cardini della tutela delle persone con disabilità [6]. Peraltro, è quasi superfluo rilevare che quando si tratta della tutela delle persone con disabilità ci si colloca [continua ..]


2. Disabilità e lavoro nell’Unione europea: il quadro normativo di riferimento

In relazione alle fonti sovranazionali, oltre alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo – che all’art. 14 sancisce un generale divieto di discriminazioni fondato, oltre che sui fattori espressamente elencati, anche su «ogni altra condizione», ivi compresa, secondo i giudici di Strasburgo, la disabilità [9] – rileva anzitutto la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006 ed entrata in vigore il 3 maggio 2008. L’art. 27 della Convenzione, in particolare, riconosce il diritto delle persone con disabilità al lavoro, su base di parità con gli altri, imponendo agli Stati membri di garantire e favorire l’esercizio di tale diritto, in primis attraverso la proibizione di ogni discriminazione fondata sulla disabilità con riguardo a tutte le questioni concernenti ogni forma di occupazione, incluse le condizioni di reclutamento, assunzione e impiego, il mantenimento dell’impiego, l’avanzamento di carriera e le condizioni di sicurezza e di igiene sul lavoro (lett. a). Qualche cenno a tale fonte di diritto internazionale, che invero rappresenta il testo normativo di riferimento per la tutela delle persone con disabilità, si giustifica – all’interno di questo contributo dedicato, invece, alla dimensione eurounitaria – giacché, nel 2009, l’Unione europea, dopo aver attivamente partecipato alla fase di negoziazione, ha aderito alla Convenzione [10]. Come è noto, l’Unione può negoziare e concludere per proprio conto con Paesi terzi o con organizzazioni internazionali accordi che, fondandosi sul diritto internazionale pubblico, producono diritti e doveri per le parti contraenti. In particolare, la Convenzione rientra nel novero dei c.d. «accordi misti» [11], vale a dire quegli accordi che l’Unione negozia con parti terze e il cui oggetto non rientra nella sua competenza esclusiva, bensì in quella condivisa con i Paesi membri ex art. 4 TFUE, rendendosi quindi necessaria una sottoscrizione anche da parte di questi ultimi. Con la ratifica da parte dell’Unione – si tratta, peraltro, del primo trattato internazionale di cui essa è stata parte contraente – «le disposizioni di tale Convenzione formano parte integrante, a partire dalla [continua ..]


3. La giurisprudenza della Corte di giustizia sulla nozione di disabilità e sui divieti di discriminazione nel lavoro contenuti nella direttiva 2000/78

La nozione di «disabilità» non è fornita da alcuna fonte di diritto primario o derivato dell’Unione (diversamente, ad esempio, da quella di «soluzioni ragionevoli», che devono essere adottate affinché il disabile possa godere effettivamente dei diritti all’inclusione e alla non discriminazione che pure gli sono riconosciuti: art. 5, direttiva 2000/78, in relazione all’inserimento professionale; cfr. infra, § 4). La direttiva 2000/78, difatti, con una scelta che non è semanticamente neutra [34], sin dal suo art. 1 non parla di disabilità bensì di handicap; in relazione a tale nozione, si è resa necessaria un’opera interpretatrice di primaria importan­za della Corte di giustizia allo scopo di delimitarne l’ambito applicativo, individuando in tal modo i soggetti che possono beneficiare delle tutele approntate dalla direttiva. Vale, quindi, la pena ripercorrere i principali approdi del percorso interpretativo compiuto nell’ultimo quindicennio dai giudici di Lussemburgo in relazione alla nozione di handicap/disabilità e, più in generale, alle discriminazioni per disabilità, chiarendo fin da subito che sul tema si contano solo un numero alquanto limitato di pronunce. Come è noto, in Chacón Navas la Corte, investita per la prima volta della questione, e pronunciandosi a proposito del licenziamento di una lavoratrice spagnola irrogato in conseguenza della malattia che l’aveva colpita, ha interpretato la nozione di handicap esclusivamente «come un limite che deriva, in particolare, da minorazioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacola la partecipazione della persona considerata alla vita professionale», dovendo peraltro essere probabile che detta limitazione sia di lunga durata [35]. Tale lettura restrittiva della Corte si fondava su un modello biomedico di disabilità; si dava, in altre parole, rilievo come ostacolo alla partecipazione alla vita professionale solo alla menomazione del soggetto, alle sue limitazioni fisiche e/o mentali, e non anche al mancato adattamento dell’ambiente esterno alle sue esigenze. Secondo la Corte, inoltre, andava «esclusa un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni» di handicap e malattia [36], con la conseguente (criticata) esclusione dalla protezione offerta [continua ..]


4. Le «soluzioni ragionevoli» per i lavoratori disabili

L’art. 5 della direttiva 2000/78 – che riguarda i soli lavoratori disabili e non anche le altre categorie protette in relazione ai fattori da essa individuati al­l’art. 1 – disciplina le «soluzioni ragionevoli per i disabili», funzionali a garantire il rispetto del principio della parità di trattamento e giustamente considerate come il vero e proprio baricentro della protezione antidiscriminatoria approntata dal legislatore europeo a beneficio delle persone con disabilità [57]. Il datore di lavoro (pubblico o privato) è, difatti, tenuto a prendere «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili». Anche in questo caso, posto che nel testo della direttiva la reale portata del­l’obbligo rimane tutto sommato indefinita, suscitando così ampie incertezze interpretative [58], si è rapidamente manifestata l’esigenza di chiarire cosa dovesse intendersi per «soluzioni ragionevoli» e in cosa dovessero in concreto consistere le misure che il datore di lavoro è tenuto ad adottare, venendo in aiuto a tal fine l’esemplificazione contenuta nel considerando 20 della direttiva, che si riferisce tanto ad adattamenti tecnico-materiali, quanto – e più in generale – all’organizzazione del lavoro e alla formazione del lavoratore [59]. É ancora una volta la sentenza HK Danmark che ha rappresentato l’occa­sione affinché la Corte di giustizia potesse soffermarsi sulla nozione di «soluzioni ragionevoli». Muovendo dall’ampia definizione di «accomodamento ragionevole» contenuta nell’art. 2 della Convenzione ONU [60], i giudici di Lussemburgo hanno chiarito che essa «si riferisce all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con [continua ..]


5. Brevi considerazioni conclusive

Nonostante sia passato quasi un quindicennio da quando sono state scritte, restano ancora fortemente attuali le pagine in cui la filosofa nordamericana Martha Nussbaum individuava, fra i problemi di giustizia sociale allora irrisolti, quello della disabilità [75]. Si è posto in luce come, anche a livello dell’Unione europea, a lungo ai disabili siano state riservate solo forme specifiche di protezione sociale, «all’in­segna di un paternalismo di fondo che presupponeva una condizione di diversità e separatezza insuperabile» [76]. Grazie, in particolare, al nuovo diritto antidiscriminatorio disegnato dalla direttiva 2000/78, e alla lettura datane dai giudici di Lussemburgo, che nelle pagine precedenti si è ripercorso, tale approccio è stato capovolto e «declinato in una nuova chiave anti-paternalistica, i cui capisaldi sono, da un lato il divieto di discriminazioni dirette e indirette, dal­l’altro l’obbligo di attuare “soluzioni ragionevoli”», ponendo così al centro dell’intervento normativo la tutela dell’eguale dignità di tutti gli esseri umani [77]. La verifica dell’efficacia dell’attuale assetto normativo dell’Unione rispetto al raggiungimento dell’obiettivo della parità di trattamento e dell’inclusione sociale delle persone disabili passa, come si è visto, inevitabilmente attraverso il problema delle discriminazioni nei rapporti di lavoro, con il quale la Corte di giustizia è stata chiamata a più riprese a pronunciarsi [78]. Gli interventi normativi dell’Unione, letti attraverso la lente delle pronunce della Corte di giustizia, mostrano complessivamente una maggiore attenzione dedicata alla persona, accreditando in tal modo un modello che mira al cambiamento della percezione sociale della disabilità e, al contempo, che offre una lettura del fenomeno in termini di tutela dei diritti umani [79]. Tuttavia, la Corte di giustizia non sembra, fino a oggi, aver fatto totalmente proprio il modello sociale di disabilità sotteso alla Convenzione ONU – nonostante il considerevole impatto che quest’ultima ha avuto, come si è visto, sul diritto antidiscriminatorio dell’Unione in tema di disabilità –, per il quale la disabilità è una condizione che comprende le difficoltà [continua ..]


NOTE