Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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La dignità sociale nel discorso giuslavoristico (di Stella Laforgia, Ricercatrice di Diritto del lavoro dell’Università di Bari)


Per quanto l’argomento della dignità sia immanente al diritto del lavoro, esso appare impalpabile e di difficile definizione. L’Autrice, pertanto, attraverso un percorso storico-rico­strut­tivo incentrato soprattutto sul reticolato costituzionale, offre una possibile definizione del­la dignità o meglio una più precipua declinazione di questa provando a darne una collocazione sistematica onde renderne efficace ed effettivo l’utilizzo a livello interpretativo.

Social dignity in labour law discourse

Although the argument of dignity is immanent to labour law, it appears impalpable and difficult to define. The Author, therefore, offers a possible definition of dignity or rather a more relevant declination of the notion, through a historical and reconstructive path which focuses mainly on the constitutional framework; the aim is to provide for a systematic assessment in order to make its use effective for the interpretation of the law.

SOMMARIO:

1. La consustanzialità della dignità nel discorso giuslavoristico - 2. L’actio finium regundorum del concetto di dignità: un percorso storico - 3. La declinazione “sociale” della dignità nel reticolato costituzionale - 4. Segue: l’accezione “oggettiva” di dignità. Differenze - 5. La qualificazione giuridica della dignità sociale: valore, principio, regola - 6. La dignità sociale nella sua estensione “minima” e la coincidenza con il contenuto essenziale dei diritti fondamentali - 7. Dignità sociale ed ermeneutica: la giurisprudenza della Corte costituzionale - 7.1. Il ruolo dell’interprete tra principi e regole - NOTE


1. La consustanzialità della dignità nel discorso giuslavoristico

È noto come quel diritto «che del lavoro porta il nome» [1] abbia la straordinaria peculiarità di mettere in crisi e in discussione la logica contrattuale o, meglio, la logica proprietaria sottesa ai diritti dei contratti. Infatti, quando la scienza giuridica ha superato la configurazione del lavoro come proiezione dello status tipica dell’ancien régime [2] e ha inserito il lavoro nelle strettoie della dimensione contrattuale, è incorsa immediatamente negli inciampi di uno schema pensato per le cose e non per le persone [3]. Indipendentemente dal contratto preso come riferimento – se quello di compravendita [4] o quello di locazione [5] – è l’implicazione della persona nel rapporto di lavoro ad essere ignorata da un’operazione negoziale che separa(va) l’oggetto (le energie psico-fisiche) dal soggetto (la persona del lavoratore). Insomma, la logica proprietaria del diritto borghese non poteva risolvere il problema dell’impossibilità di separare il lavoratore dal suo lavoro, benché a ciò si volesse giungere proprio per spersonalizzare il rapporto contrattuale ed evitare che il potere del datore sul lavoro reificato diventasse signorìa sul lavoratore. Invero, fino a quando si è rimasti imbrigliati nella logica proprietaria del­l’ave­re, i termini della questione sono stati condannati a rimanere immobili. È stato, perciò, necessario spostarsi da questa logica a quella dell’essere [6], assumendo il coinvolgimento dell’intera persona quale dato insopprimibile del contratto di lavoro subordinato e considerando che la forza lavorativa si compone delle attività fisiche e spirituali del prestatore [7]. Se è così, il potere del datore di organizzare i fattori della produzione e di conformare la prestazione di lavoro – all’uopo adattabile e solo genericamente dedotta nel contratto – alle esigenze dell’impresa [8], finisce per estendersi alla persona del lavoratore. Il potere datoriale sta, dunque, nel contratto e ne è elemento essenziale: non sta fuori di esso, né è accidentale [9]; esso si incunea nella carne viva dei lavoratori e non c’è fictio che possa rendere appieno quanto accade nel concreto svolgersi del rapporto di [continua ..]


2. L’actio finium regundorum del concetto di dignità: un percorso storico

Una volta evocata la dignità sociale, se si separa il sostantivo dall’aggettivo e ci si concentra partitamente sulla dignità, si può addivenire ad una prima definizione concettuale. Si osserva, così, che alla dignità, tradizionalmente, si è fatto ricorso per distinguere anziché eguagliare; in epoca moderna, al contrario, la si utilizza per eguagliare anziché distinguere [20]. A partire dall’esperienza romana della dignitas, la dignità separa e definisce una gerarchia; nell’antica Roma, infatti, dignitas e responsabilità (non avendo quest’ultima una sua autonomia) coincidono e, all’interno della società, si possono individuare i soggetti titolari di una responsabilità – riconoscendo loro privilegi e prestigio – e gli altri che ne sono sprovvisti [21]. Invero, è con l’esperienza giudaico-cristiana che si registra una frattura, assorbendo l’eredità dell’humanitas ciceroniana e dell’antropologia stoica [22]. Già nell’antico testamento l’uomo, imago dei, viene assunto nella sua infungibile “originalità” ma anche, proprio in quanto tale, appartenente alla famiglia umana [23]. Nel Nuovo Testamento, quando Dio si incarna nell’uomo – peraltro oltraggiato, deriso e messo a morte – la dignità trarrà nuovo fondamento, diventando un tema centrale nella teologia cristiana [24]. La “storia” di Cristo restaura la dignità dell’uomo ed indica che essa non può essere compromessa nel suo nucleo essenziale da qualsivoglia iniziativa di negazione fisica o morale. Anche nella tradizione moderna secolare emerge gradualmente la prospettiva egualitaria della dignità e, cioè, come caratteristica che accomuna, indistintamente, tutti gli esseri umani; Pico della Mirandola, nell’Oratio de hominis dignitate, intravede l’«eguale dignità» nella responsabilità che l’uomo ha di se stesso, in quanto essere che deve decidere da sé e determinarsi per il bene o il male. In questo risiede, dunque, la dignità: all’uomo è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole [25]. Si salda, in questo modo, il legame, da quel momento in poi [continua ..]


3. La declinazione “sociale” della dignità nel reticolato costituzionale

Quell’idea di dignità, “incubata” per molto tempo ed intessuta nella tradizione europea – trasfigurata nella tragedia divampata con il nazi-fascismo – emerge con forza con le Costituzioni post-belliche, nelle quali si rinvengono numerosi riferimenti ad essa [33]. Potrebbe apparire come contraddizione a quanto appena rilevato la circostanza che la Carta costituzionale italiana, pur essendo incentrata sulla valorizzazione della persona, sintesi dell’anima cattolica, socialista e liberale, citi testualmente solo tre volte la dignità [34], rispettivamente agli artt. 3 («pari dignità sociale»), 36 («esistenza libera e dignitosa») e 41 («dignità umana»); una volta, invece, viene citata, all’art. 48, l’indegnità [35]. Non è mancato chi ha voluto mettere in evidenza le sfumature contenute in ciascuno degli articoli citati, individuando così una dimensione esteriore o relazione propria dell’art. 3 Cost., una più individuale-esistenziale contenuta nell’art. 36 Cost. ed una generale-collettiva proposta all’art. 41 Cost. [36]. Invero, ammesso che sia possibile distinguere così nettamente le tre richiamate dimensioni della dignità, se ne deve mettere in risalto ciò che è comune e che attribuisce alla dignità una valenza più concreta, meno algida. Infatti, che la dignità si identifichi con la pari condizione che si deve assicurare a tutti i cittadini – a prescindere da qualsiasi distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali – o che sia quella connessa alle condizioni di vita che il lavoro giustamente retribuito deve garantire o nell’ipotesi di limite funzionale alla libera iniziativa economica, essa evoca un significato che non può certo essere confinato negli angusti spazi della dimensione individuale. In particolare, colpisce la declinazione che di essa viene data nell’art. 3 Cost. in cui si accompagna al potente aggettivo «sociale». L’espressione «pari dignità sociale» sostituisce, invero, quella originariamente proposta nella Prima sottocommissione e cioè «Diritto ad eguale trattamento economico», quasi del tutto coincidente con il già espresso principio di uguaglianza e [continua ..]


4. Segue: l’accezione “oggettiva” di dignità. Differenze

L’attribuzione del carattere sociale alla dignità connota così profondamente quest’ultima che, ancora una volta, la scelta della Costituzione italiana appare eccentrica [49]; è diversa, per esempio, rispetto alla Legge fondamentale della Repubblica Federale di Germania del 1949. Infatti, parallelamente all’ap­pro­vazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, i costituenti tedeschi deliberarono di dedicare la norma di apertura della Carta al precetto del rispetto della dignità umana, configurando quest’ultima come vera e propria Grundnorm del sistema [50]; all’art. 1 si prevede che «La dignità dell’uomo è intangibile. È dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla». Dunque, in questo caso, la categoria della dignità, assunta a ragione giustificativa del riconoscimento dei diritti umani inalienabili, rappresenta una fondamentale difesa dell’autonomia individuale. La sua funzione principale è quella di irrobustire tutti i presìdi contro le ipotesi di etero-determinazione e di misconoscimento del valore della persona [51]. La garanzia della dignità si identifica qui con il riconoscimento del valore intrinseco proprio di ciascuna persona. A sua volta, questo valore rappresenta la premessa logica per il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali; ad ogni uomo deve riconoscersi il diritto di non essere soggetto, in quanto tale, alle decisioni altrui. C’è, quindi, nel concetto di dignità posto a fondamento dell’ordinamento tedesco, non dissimilmente dagli altri ordinamenti europei, una sfera soggettiva ed una oggettiva; la prima, volta a fondare il riconoscimento – in capo a tutti gli esseri umani in quanto tali – di una serie di diritti fondamentali ed inalienabili, e la seconda, invece, a fissare limiti “oggettivi”, talvolta anche particolarmente incisivi, alla stessa libertà di autodeterminazione della persona [52]. Se ciò è vero, tuttavia, occorre soffermarsi su un aspetto che addirittura può diventare, se non ben chiarito, fuorviante rispetto al ragionamento che si sta conducendo. Si vuol evidenziare, infatti, che l’accezione di dignità oggettiva attiene ad una dimensione più strettamente individuale connessa ad aspetti profondamente personali [continua ..]


5. La qualificazione giuridica della dignità sociale: valore, principio, regola

La dignità, anche nella sua accezione sociale (ed anzi, per certi versi in misura maggiore data la sua specificità), è, come detto, una formula evocativa dai contorni indefiniti che spesso viene invocata come valore, principio, norma suprema, super-norma o talvolta, al contrario, norma tra le altre, tra le tante. È necessario, perciò, impegnarsi nello sforzo qualificatorio, ammettendo subito che la lettura del dato costituzionale non può limitarsi ad un approccio che esaurisca nel solo risvolto formale la specificità di esso. La dignità sociale può essere certo un valore, quale che sia l’intensità da attribuirle. Tuttavia, si consideri che in generale, la Costituzione – a differenza di quanto si potrebbe desumere in una prospettiva formale meramente giuspositivista secondo la quale il diritto (anche quello costituzionale) è soltanto “nor­ma” e “coazione” – partecipa di due dimensioni: la “legittimità” (in quanto i valori e i principi giustificanti l’ordinamento giuridico poiché ipostatizzano il sentire comune e del consenso generale di questi ultimi devono continuamente alimentarsi) e la “legalità” (proprio quei valori e quei principi normativi sono la misura suprema della validità degli atti di esercizio dei poteri e dei diritti) [61]. Alla luce di queste due dimensioni della Costituzione – legittimità e legalità – sono da preferire, perciò, ai valori i principi che, costituendo la positivizzazione dei primi, entrano a far parte dell’ordinamento dotati, a questo punto, di giuridicità [62]. I valori riguardano un orizzonte meta-giuridico magmatico e relativo che presuppone l’atteggiamento in un certo senso fideistico dell’interprete: ai valori si crede, ai principi si aderisce e alle regole si ubbidisce [63]. I principi, dotati di giuridicità, si discostano dai valori ma differiscono anche dalle regole [64]. Innanzitutto, solo i principi svolgono un ruolo costituzionale e cioè fondativo dell’ordine giuridico, pur in assenza di una distinzione netta e ancor più di un’incompatibilità tra questi e le regole; entrambi costituiscono l’unicum costituzionale che affonda tutto nel sostrato valoriale di riferimento. Oltre che per funzione, principi [continua ..]


6. La dignità sociale nella sua estensione “minima” e la coincidenza con il contenuto essenziale dei diritti fondamentali

La dignità sociale è nozione eticamente apprezzabile, ma, soprattutto, ha rilevanza giuridica. Essa qualificata come principio costituzionale consente di connotare il lavoro e attribuirgli una dimensione deontica [72]. Di essa, però, occorre determinare la sua “estensione”. Una prima possibilità è quella di attribuirle una portata “massima” e cioè assoluta [73]; così considerata, la dignità – dal contenuto certo e determinato (assolutezza e determinatezza coincidono) – può ergersi a fondamento dell’or­di­namento che la assume come tale. E tuttavia, così individuata, risulta rigida ed il suo funzionamento non è immune da una serie di limiti. Essa risulterebbe “dipostica” id est assorbente anche rispetto alla sfera volontaristica del soggetto titolare, spogliato del tutto, a quel punto, del potere di disporne. Ritenere sempre e comunque prevalente la dignità condurrebbe il ragionamento ad una presa di posizione aprioristica ed “ideologica” che non si confà alla scelta pluralistica della Costituzione che, in ogni caso, ammette la compresenza di più principi (seppure, come si vedrà meglio, non in una posizione equiordinata). Non solo, una simile prospettazione, oltre ad essere frustrata nell’elevata possibilità di rimanere, nella sostanza, ineffettiva, potrebbe addirittura rivelarsi controproducente, non ammettendo modulazioni di sorta [74]. Lo stesso rischio si presenta se, in una prospettiva ancora più totalizzante, la dignità viene considerata quale valore super-costituzionale che si sottrae a qualsiasi bilanciamento, divenendo addirittura essa stessa bilancia; la supremitas della dignità la innalza a criterio di bilanciamento di valori, senza che essa stessa sia suscettibile di misurazioni e riduzioni [75]. Seppure suggestiva, l’idea della dignità quale bilancia non solo sconta i limiti già messi in evidenza a proposito dell’estensione massima di essa, ma di fatto nulla aggiungerebbe al contenuto effettivo da attribuirle o alla funzione che essa potrebbe svolgere. Così indeterminata, infatti, diventa inutilizzabile: si tratterebbe di un principio talmente “alto” da essere irraggiungibile. Si ritornerebbe, sul piano giuridico, a quella evanescenza che [continua ..]


7. Dignità sociale ed ermeneutica: la giurisprudenza della Corte costituzionale

La dignità nella sua accezione “sociale”, principio giuridico utilizzato nella sua estensione “minima”, interroga l’interprete, in primis, a livello costituzionale, laddove è chiamato oggettivamente a dirimere controversie riconducibili a conflitti tra principi e diritti, sebbene questi non chiudano il “processo ermeneutico”, affidato, altresì, anche ai Giudici ordinari, alla dottrina e agli altri operatori del diritto, certo con modalità e ruoli diversi. La Corte costituzionale non può esaurire questo compito per molte ragioni; in primo luogo poiché “oggettivamente” la giurisdizione, pure nel suo ambito più elevato, non è la sede della risoluzione di tutti i conflitti, alcuni dei quali, evidentemente, sono lì approdati in modo improprio a causa della mancanza di mediazione, sintesi e risoluzione “politica”. Quando, cioè, il legislatore, “bilanciatore” per antonomasia, abdica al suo ruolo o lo esercita in modo insoddisfacente, vi è un (anomalo) riflesso giurisdizionale. Pur nella consapevolezza di questi limiti, è opportuno, tuttavia, una breve ricognizione per verificare se, ed in quale modo e misura, la giurisprudenza costituzionale abbia fatto ricorso all’argomento della dignità con specifico riguardo ai rapporti di lavoro. Il discorso sulla dignità nella giurisprudenza della Corte, tanto nella prospettiva personalista, quanto nella sua dimensione sociale [89], offre una prima considerazione: l’utilizzo del principio risponde ad una pluralità di funzioni [90]. In primo luogo, esso individua il limite all’esercizio di una libertà, nella misura in cui nel costrutto costituzionale fa da argine ad altri principi nella stessa sede individuati (come ad es., l’art. 41 Cost.); in secondo luogo esso può rafforzare diritti già esistenti o crearne di nuovi, colmando così le eventuali lacune dell’ordinamento [91]; ancora, può essere funzionale al bilanciamento di interessi costituzionalmente protetti, finendo addirittura per riempirne di contenuti il nucleo essenziale [92]; da ultimo, può assurgere a esplicitazione di altri principi [93]. Se questa classificazione può essere apprezzata nella sua funzione di articolazione qualitativa dell’impiego del principio di [continua ..]


7.1. Il ruolo dell’interprete tra principi e regole

Al di là del riferimento improprio e, per certi versi, sovradimensionato alla tirannia dei valori, il ragionamento della Corte costituzionale mette in rilievo la questione ermeneutica che i principi costituzionali pongono ogni volta che ad essi si fa riferimento in modo diretto o quando vengono richiamati nell’applicazione delle regole. L’interprete non può “maneggiare” le norme costituzionali allo stesso modo di quelle “ordinarie”: si trova di fronte ad un testo sovrabbondante ed eccedente di senso che richiede particolare cura [118]. Esiste, infatti, una relazione di ineffabilità tra valori ed enunciati normativi per la quale il valore, se è individuato da una norma (e persino da un principio), non ne viene mai completamente assorbito ed esaurito; è evidente che i principi costruiscono nessi di prevalenza-recessione ma non esauriscono tutta la gamma dei contenuti assiologici ai quali essi danno forma. Tuttavia, l’interprete – e non solo la Corte costituzionale – deve, innanzitutto, rendere esplicita la riconducibilità delle interpretazioni proposte ai presupposti normativi testuali legittimanti l’insieme dell’operazione ermeneutica; deve fare riferimento a tutto il testo costituzionale lì dove si situano i principi (a tutto il detto e il non detto del testo) e la loro tassonomia, costringendosi ad un eterno ritorno [119]. Ancora, fedele alla traccia assiologica costituzionale utile ai bilanciamenti – e talvolta agli sbilanciamenti – e consapevole dell’ineluttabile eccedenza dei valori ivi positivizzati, egli deve individuarne il contenuto essenziale [120]. Tale nucleo è intangibile anche per espressa previsione: finanche le leggi costituzionali (anche di revisione) possono essere sindacate per vizi sostanziali, ossia per il contrasto non solo con l’art. 139 Cost. ma anche con i principi supremi che non possono essere sovvertiti o mortificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di pari rango. Il principio della dignità sociale si situa esattamente in questo solco. Essa, pertanto, non può essere oggetto di mero bilanciamento, e quindi, impone all’interprete di sottrarvi, con rigore, una parte della res litigiosa e cioè quel nocciolo duro entrato, evidentemente indebitamente, nell’agone politico o [continua ..]


NOTE