Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Il reclutamento femminile nelle Forze armate alla prova delle (perduranti) discriminazioni di genere (di Caterina Mazzanti, Assegnista di ricerca nell’Università degli Studi di Udine)


Il presente contributo affronta il tema delle discriminazioni nel reclutamento femminile nelle Forze armate, ponendo l’accento sulla penuria di dati e di pronunce giurisprudenziali che, pertanto, legittimano più ipotesi che valutazioni. L’A. ricostruisce la normativa antidiscriminatoria di settore, ponendo particolare attenzione agli organismi di parità, alle azioni positive e al ruolo chiave delle donne all’interno delle Forze armate.

Female recruitment into the armed Forces and (persistent) gender discrimination

This contribution addresses the issue of discrimination in female recruitment in the Armed Forces, placing emphasis on the lack of data and jurisprudential rulings which, therefore, legitimize more hypotheses than evaluations. The Author reconstructs the sector’s anti-discrimination legislation, paying particular attention to equality bodies, positive actions and the key role of women within the Armed Forces.

SOMMARIO:

1. Il tormentato accesso delle donne nelle Forze armate tra stereotipi di genere e discriminazioni - 2. Il divieto di discriminazioni nel d.lgs. n. 66/2010 - 3. L’ombra delle discriminazioni di genere nel reclutamento - 4. Gli organismi di parità e le azioni positive - 5. Il ruolo chiave delle donne all’interno delle Forze armate - 6. Osservazioni conclusive - NOTE


1. Il tormentato accesso delle donne nelle Forze armate tra stereotipi di genere e discriminazioni

Solo nel 1999 è caduto il divieto per le donne di accedere ai ruoli delle Forze armate, quindi ben 36 anni dopo la legge n. 66/1963, sull’accesso femminile ai pubblici uffici (consentendone l’ingresso in Magistratura) e 22 anni dopo la legge n. 903/1977, c.d. legge Anselmi, che aveva sancito in generale la parità femminile nell’accesso al lavoro e nella carriera. La causa del divieto, di natura culturale prima che giuridica, è rinvenibile nella sopravvivenza dell’antico stereotipo che associa alla donna il ruolo della custodia del focolare domestico e della cura dei figli, ritenuta per sua natura inadatta al mestiere delle armi. A più di vent’anni dall’entrata in vigore della legge n. 380/1999 sul reclutamento femminile nelle Forze armate [1] il fenomeno delle discriminazioni di genere appare ancora ben radicato nel nostro contesto sociale, come si evince dalla percentuale molto bassa di donne in forze, pari al 7% [2] dell’organico complessivo. L’Italia è stato l’ultimo dei Paesi aderenti alla NATO a consentire l’accesso delle donne alle Forze armate, obiettivo raggiunto solo alla conclusione del secolo scorso, ma fino a tale momento l’attenzione rispetto al tema è stata comunque molto alta, come testimoniano le numerose proposte di legge ispirate alle esperienze di altri Paesi occidentali [3]. I sociologi e gli storici [4] evidenziano, inoltre, che la situazione è mutata radicalmente nel contesto della Guerra del Golfo, quando i mass media nazionali e internazionali hanno dato ampio spazio alla figura della “donna soldato” americana, la cui presenza ha riacceso il dibattito sulla necessità di rinnovare la struttura delle Forze armate italiane [5]. Sebbene la legge n. 380/1999 abbia aperto le porte al reclutamento femminile, il raggiungimento di tale importante risultato ha posto una serie di problemi, non da ultimi quelli relativi alla necessità di adattare le strutture delle caserme e, in generale, degli ambienti lavorativi alla presenza delle donne e al soddisfacimento di esigenze “diverse”. A tal fine, l’art. 1, comma 6, demanda al Ministro della Difesa (per le Forze armate e l’Arma dei carabinieri) e al Ministro delle Finanze (per la Guardia di Finanza) il compito di definire annualmente le aliquote, i ruoli, le categorie, le specialità e le [continua ..]


2. Il divieto di discriminazioni nel d.lgs. n. 66/2010

Cercare di capire l’entità e l’articolazione del fenomeno delle discriminazioni, in tutte le sue forme (in primis quelle delle molestie e delle violenze sessuali), nei confronti delle donne appartenenti alle Forze armate è impresa ardua perché mancano le rilevazioni e sono pochissime le sentenze edite sul punto. La mancanza di dati induce a ritenere che le discriminazioni rimangano deliberatamente sottaciute dalle vittime e tollerato da colleghi e superiori, se non addirittura ridimensionato nella sua gravità e giustificato da una visione fortemente maschilista e patriarcale delle dinamiche interpersonali. A disincentivare le segnalazioni vi sarà anche, sicuramente, il timore di possibili ripercussioni nella vita privata e nel percorso lavorativo sia per le vittime sia per gli eventuali whistleblowers [1]. Secondo la relazione di accompagnamento al d.d.l. n. 1193 sulla riforma del Codice penale militare di pace presentata alla Camera dei Deputati nel 2021 (su cui, infra, par. 4), nel 2020 a livello nazionale ci sono state soltanto 5 denunce di molestie sessuali (tre casi di molestie rilevati dall’Esercito e due di violenza sessuale dal Corpo dei Carabinieri), un caso di mobbing e uno di stalking, mentre non sono stati segnalati episodi di «nonnismo», riferendosi tale espressione (propria del gergo della caserma) a quei comportamenti prepotenti e intimidatori tenuti dai lavoratori più anziani e di rango superiore nei confronti di quelli più giovani e di rango inferiore. Tra gli interventi normativi a contrasto delle discriminazioni nelle Forze armate va senz’altro ricordato il d.lgs. n. 66/2010 (Codice dell’ordinamento militare) che, con l’obiettivo del riordino della disciplina del settore, ha abrogato l’art. 33, d.lgs. n. 198/2006, sul generale divieto di discriminazione nell’ac­cesso a tali carriere, riproducendo la disposizione previgente all’interno dell’art. 639, comma 1, sul reclutamento volontario femminile. Secondo la norma citata, «il reclutamento del personale militare femminile è effettuato su base volontaria secondo le disposizioni vigenti per il personale maschile, salvo quanto previsto per l’accertamento dell’idoneità al servizio dalle norme contenute nel regolamento e salve le aliquote d’ingresso eventualmente previste, in via eccezionale, con il decreto adottato ai sensi [continua ..]


3. L’ombra delle discriminazioni di genere nel reclutamento

Sebbene le richiamate disposizioni del d.lgs. n. 66/2010 costituiscano importanti passi in avanti verso l’obiettivo della parità tra i generi, le donne incontrano ancora molti ostacoli nell’accesso al lavoro e nella progressione di carriera, soprattutto, nel caso in cui compiano la scelta della maternità. Come già detto, la scarsità di informazioni sul fenomeno delle discriminazioni si accompagna alla carenza di pronunce giurisprudenziali in materia, vuoto che possiamo interpretare come la sostanziale rinuncia all’azione processuale, dettata da costi difficilmente sostenibili, dalla sfiducia nei confronti dell’esito e, ancora prima, dell’iter e dal timore di possibili ritorsioni. Attraverso le poche sentenze pubblicate, è possibile ricostruire, seppur in maniera frammentata, il quadro delle discriminazioni legate al genere e, in particolare, allo stato di gravidanza, soprattutto nella fase delle procedure selettive, rispetto alle quali all’interno dei bandi di concorso e dei decreti ministeriali si rintracciano spesso previsioni apparentemente neutre, ma portatrici di discriminazioni indirette che comportano l’esclusione dall’iter concorsuale in caso di mancata sottoposizione del/la candidato/a all’accertamento sanitario, senza tener in debito conto l’eventuale impossibilità dettata dalla gravidanza o dalla maternità. Oltretutto, come evidenziato, le disposizioni tutelano adeguatamente la donna soltanto nella fase della progressione di carriera, ma sussistono ancora lacune normative per quanto riguarda il primo accesso. I bandi per l’accesso alle carriere militari sono stati più volte oggetto di censure da parte della giustizia amministrativa, in quanto contenenti clausole discriminatorie nei confronti delle donne. Si richiama ad esempio quanto stabilito dal Consiglio di Stato nel 2021 [1] sull’esclusione dalla graduatoria di una candidata del concorso per allievi della Guardia di Finanza, la quale, a causa della gravidanza, non si era potuta sottoporre alla visita medica richiesta. Il TAR annullava il provvedimento, unitamente alla norma del bando recante l’estromissione dalla procedura di reclutamento delle candidate che al 31 agosto 2016 non potevano essere sottoposte agli accertamenti sanitari di rito perché incinte, rilevando che la citata previsione determinava un’irragionevole disparità [continua ..]


4. Gli organismi di parità e le azioni positive

Nell’ambito della difesa, gli obiettivi delle pari opportunità, del benessere lavorativo e dell’inclusione sono perseguiti da due organismi: il Consiglio interforze sulla prospettiva di genere di cui all’art. 2, d.lgs. n. 7/2014 e il Comitato Unico di Garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni, c.d. CUG, istituito ex art. 21, legge n. 183/2010. Il Consiglio interforze, composto in maniera paritetica da uomini e donne, svolge la sua attività nei confronti del personale militare con l’obiettivo di collaborare con il Capo di Stato Maggiore alla stesura di direttive sui temi della prospettiva di genere, dell’integrazione del personale, delle pari opportunità e del monitoraggio delle discriminazioni, al fine di promuovere in particolare l’inserimento del personale femminile nelle forze armate. Il suo ruolo si rivela molto utile nelle occasioni in cui la Difesa italiana è chiamata a esprimere, anche in summit internazionali oltre che in incontri di cooperazione bilaterale o multilaterale, la propria posizione su profili concernenti l’attuazione delle risoluzioni ONU (a titolo esemplificativo, l’organismo citato offre valutazioni in merito ai progetti di incrementare le unità di personale femminile come osservatori ufficiali di staff nelle missioni ONU). Insieme al Consiglio Interforze, lo Stato Maggiore della Difesa (organo delle Forze armate che fa parte dell’area tecnico-operativa del Ministero della Difesa) ha redatto un documento per l’adozione della prospettiva di genere dal titolo «Linee guida su parità di trattamento, rapporti interpersonali e tutela della genitorialità», strutturato in tre parti, di cui la prima affronta vari aspetti della parità di trattamento nelle Forze armate, come l’attribuzione degli incarichi o l’impiego in attività di rappresentanza, sottolineando che «il personale militare chiamato a svolgere compiti di rappresentanza [...] deve essere impiegato equamente e senza alcuna disparità di trattamento rispetto al sesso. Bisogna, pertanto, evitare sovraesposizioni di un genere rispetto all’altro». La seconda parte si focalizza sullo stato dell’arte del gender mainstreaming e della prospettiva di genere all’interno della Difesa, affrontando anche i temi della formazione e [continua ..]


5. Il ruolo chiave delle donne all’interno delle Forze armate

L’assenza di discriminazioni nelle Forze armate (oltre ovviamente a favorire il benessere lavorativo) incentiva il reclutamento femminile e la presenza delle donne, essenziale ai fini del raggiungimento di obiettivi strategici, soprattutto a livello internazionale [1]. Le Nazioni Unite hanno da tempo messo in evidenza come, nell’ambito delle missioni internazionali di pace (anche di carattere non militare, c.d. “peacekeeping”) che coinvolgono i vari corpi della Difesa, la presenza delle donne in ruoli chiave quali quello del Gender Advisor o del Gender Focal Point assicura il raggiungimento di obiettivi strategici, specie nella fase ricostruttiva, perché favorisce lo sviluppo di una rete di collaborazione e di dialogo con le popolazioni colpite da violenti conflitti, soprattutto laddove si sono sistematicamente consumati delitti a carico della popolazione femminile. Nei contesti di guerra nei quali è diffuso l’utilizzo della violenza sessuale e dello stupro di massa quale strumenti militari [2], il personale femminile rappresenta una risorsa essenziale, perché alcune realtà culturali non consentono il dialogo tra persone di genere diverso, potendo le donne relazionarsi solo con altre donne al di fuori della famiglia. Al riguardo, le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, meglio note come sistema “Donne, Pace e Sicurezza” [3], individuano un’agenda globale rivolta a tutti gli Stati membri e alle organizzazioni regionali come la Nato e l’Unione Europea, con linee guida dirette alla sensibilizzazione delle differenze di genere. A tal fine, alle Forze armate dei Paesi contributori è chiesto di seguire percorsi formativi ad hoc e di schierare unità di personale militare femminile per sostenere le donne delle comunità locali, che in questo modo hanno occasione di essere coinvolte attivamente nei processi ricostruttivi e di monitoraggio. Il personale femminile, inoltre, ha la possibilità accedere a luoghi preclusi agli uomini, migliorando così il controllo sui potenziali rischi per la sicurezza. Alcuni studi suggeriscono, inoltre, che quando a svolgere i compiti di perquisizione sulla persona è la donna, la popolazione percepisce un senso di sicurezza maggiore. Le militari, rispetto alle loro controparti maschili, vengono avvertite come più leali ed oneste, meno aggressive e perciò come [continua ..]


6. Osservazioni conclusive

Lo studio del fenomeno delle discriminazioni di genere nell’accesso alle Forze armate è un tema che, pur interessando uno specifico segmento del nostro ordinamento, ha riflessi sistematici dal momento che intercetta la questione, più generale, della condizione femminile nella nostra società e dei retaggi culturali di stampo patriarcale che ne ostacolano l’accesso al lavoro e lo sviluppo professionale. L’ingresso di nuove professionalità, grazie al reclutamento femminile, ha favorito un innalzamento del livello culturale della realtà militare in concomitanza con la trasformazione da un modello prevalentemente di leva ad uno di professionisti [1]. Anche la creazione di un corpus normativo di riferimento che, oltre a salvaguardare le peculiarità femminili, ne disciplinasse l’impiego e le carriere è stato uno dei più importanti passi in avanti nel processo di integrazione delle donne nell’organizzazione militare. Con l’entrata in vigore della legge n. 380/1999, i temi al centro del dibattito riguardavano, fondamentalmente, le mansioni da assegnare alle donne e la necessità di modificare la logistica delle caserme (a partire dalle stanze e dai bagni), tenendo conto dell’eventuale maternità e dell’astensione dal lavoro nel corso del servizio stesso. L’approccio è via via mutato e maturato e la sfida, oggi, consiste nel diffondere una prospettiva di genere all’interno di un ambiente lavorativo per storia e tradizione maschile e maschilista, in modo da poter promuovere e valorizzare la presenza femminile in ogni attività delle Forze armate, nel segno della rottura rispetto alla tradizionale impostazione “mono-genere” e del contrasto alle discriminazioni.


NOTE