Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Della felicità, della dignità e di possibili declinazioni (di Roberto Romei, Professore ordinario di Diritto del lavoro, Università di Roma Tre)


L’Autore affronta il tema dei rapporti tra valore della dignità e felicità della persona interrogandosi dapprima sul significato di questo secondo termine, e successivamente criticando gli eccessi di quelle interpretazioni del valore della dignità che ritiene non sempre sono giustificate dal dato giuridico formale. Osserva infine come il richiamo al valore della dignità sia spesso frutto di una impostazione astratta e staccata dalla realtà della contrattazione collettiva e dell’organizzazione del lavoro che sembrano invece essere orientate verso una prospettiva di maggiore realizzazione professionale dei lavoratori.

 

On Happiness, dignity and possible varations

The author tackles the issue of the relationship between the value of dignity and the worker’s happiness asking himself about the meaning of this second term, and then criticizing the excesses of those interpretations of the value of dignity which, in his opinion, are not always justified by the formal datum. He remarks, besides, how the reference to the value of dignity is often the result of an abstract approach detached from the reality of collective bargaining and the organization of work which, on the other hand, seem to be oriented towards a perspective of greater professional fulfillment of workers.

Keywords: dignity – happiness – Constitution – values.

SOMMARIO:

1. Diritto del lavoro e declinazioni della felicità - 2. Il valore della dignità e la dignità come valore - 3. Un modello persistente - 4. Dignità e felicità - NOTE


1. Diritto del lavoro e declinazioni della felicità

“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”. Così, come è a tutti noto, recita di Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America varata il 4 luglio 1776. La ricerca della felicità, per citare il titolo di un film di una qualche notorietà, è obiettivo di tutti gli esseri umani. Già Aristotele, nell’Etica Nicomachea avvertiva che “Tutti sono d’accordo nell’affermare che il sommo bene è la felicità” [1]. Ma il raggiungimento del “sommo bene” è una meta che dipende da una pluralità di fattori, alcuni anche casuali, come fatto palese dallo stesso termine che in greco antico designava la felicità, e cioè eudaimonia, come ci rammenta il nostro ospite. Parola composta da eu, e cioè bene, e da daimon, che rimanda all’intervento di un dio, di un demone, di un genio esterno, o rinvia al “nucleo più profondo della persona” [2]. A significare come il raggiungimento della felicità dipenda dall’azione o dalla volontà, a volte capricciosa, degli dei, e cioè da un fattore esterno, ma anche dalla personale azione dell’uomo. Ma la felicità, già nell’antica Grecia, non aveva solo una dimensione privata. L’uomo era anche un cittadino della polis, aveva cioè una sua dimensione sociale che collegava la felicità al suo essere sociale, all’essere cittadino e parte di una comunità. Ed è proprio la dimensione sociale che viene in considerazione nel diritto del lavoro, sia pur declinata in maniera affatto diversa: non più riferita al cittadino membro della polis che esercita i propri diritti politici, di membro attivo di una comunità. Bensì al lavoratore, membro di una comunità politica più vasta, al quale il patto fondativo di questa comunità, per solito incarnato nelle carte costituzionali, riconosce determinati diritti e prerogative. Il diritto del lavoro nasce infatti con questa finalità emancipatoria, figlio del passaggio dallo Stato moderno a quello post moderno [3], e dunque della rilevanza che in [continua ..]


2. Il valore della dignità e la dignità come valore

Il richiamo alla dignità del lavoratore ha, come osserva Enrico Gragnoli, una valenza innanzitutto oppositiva, per adoperare una terminologia tratta dal diritto processuale amministrativo, ma che può essere utilmente estesa anche al diritto del lavoro, almeno sotto il profilo descrittivo. Con questa valenza il termine viene spesso utilizzato degli studi di diritto del lavoro: la dignità è innanzitutto il terreno dei valori, che si contrappone alla logica mercantile che caratterizza invece il mercato; la dignità, ancora, è veicolo di emancipazione del lavoratore e di sviluppo della sua persona. La dottrina lavoristica, come si è detto, specie negli ultimi tempi [7] ha moltiplicato i riferimenti alla dignità, con toni al tempo stesso fortemente evocativi e fortemente prescrittivi. La innegabile valorizzazione della “persona” nella nostra Costituzione [8] implica una corrispondente valorizzazione della persona che lavora e dunque – per la ineliminabile connessione che esiste tra chi lavora e la sua attività [9] – anche del lavoro, che la stessa Costituzione pone a fondamento della Repubblica imponendo che esso si svolga in forme coerenti con la dignità della persona, valore questo che si impone su quelli dell’economia di mercato e sulla logica dello scambio, secondo una direttrice che ne esclude la configurazione come “merce” [10]. Al fondo di questa impostazione non è difficile scorgere un giudizio di sovraordinazione non solo giuridica, ma prima ancora valoriale ed anzi più precisamente etica, della dignità rispetto ai valori economici [11]. Tale superiorità è però più postulata che dimostrata, quasi che quest’ultima operazione fosse superflua perché dotata di autoevidenza, essendo sufficiente leggere la nostra Costituzione ed estrarre da essa il “principio lavoristico” [12] che tutta la percorre. È un atteggiamento che presenta scorie di giusnaturalismo, allorché si rifiuta ostinatamente di collocare i valori cui la Costituzione si ispira, e che tutela, nella loro dimensione storica e dunque nella loro mutevolezza, quasi che si trattasse di giacimenti da cui estrarre continuamente nuovo materiale sotto forma di diritti o posizioni di interesse dei lavoratori, per solito subordinati. E soprattutto, considera la Costituzione, [continua ..]


3. Un modello persistente

Potrebbe non essere privo di interesse allora interrogarsi sul modello di lavoratore che sottostà alle costruzioni di una parte, in realtà la gran parte, della dottrina lavoristica e che viene assunto come un dato non discutibile, tratto dalla realtà empirica e che si impone per autoevidenza. Non è difficile per il vero tratteggiarne i contorni; alla rinfusa: un soggetto in condizioni di debolezza contrattuale a cagione della ineliminabile asimmetria che caratterizza il mercato del lavoro e quindi soggetto per condizione all’azione dei poteri del datore di lavoro, e dunque bisognoso di costanti protezioni, meglio se approntate dalla legge; in una posizione di tendenziale e costante conflitto con il datore di lavoro; non responsabile del, né interessato al, raggiungimento del risultato finale dell’organizzazione produttiva (e dunque diffidente verso forme di retribuzione collegate al risultato); e per il quale il lavoro (o meglio, questo tipo di lavoro, imposto dalla attuale organizzazione del lavoro) rappresenta spesso una fatica [20]. Una visione potrebbe dirsi “cupa” del lavoro e del tempo di lavoro; più che una occasione di realizzazione personale, una frazione della vita di ognuno purtroppo necessaria, per le esigenze di sopravvivenza, ma inquinata all’ori­gine dallo stato di subordinazione. Questa impostazione ha determinato vere e proprie narrazioni spesso disancorate da un aggancio alla realtà. Indicativo è il caso della riforma dell’art. 2103 c.c. La disposizione rappresentava un vero e proprio caposaldo del diritto del lavoro statutario: non solo circoscriveva il potere di modifica unilaterale della mansioni, delimitandolo (anzi vietandolo) verso il basso, ma veniva interpretato – in verità più sulla scorta della ricostruzione operata da Umberto Romagnoli nell’ormai leggendario Commento allo Statuto ad opera della scuola bolognese – che per virtù propria, come il prototipo di una legislazione sulle magnifiche sorti e progressive del lavoro e dei lavoratori, proiettati verso un orizzonte di accrescimento della professionalità [21], che giungerà fino quasi a lambire la causa del contratto [22]. Le modifiche del 2015 hanno, eufemisticamente, incontrato reazioni negative: la nuova versione dell’art. 2103 c.c. determinerebbe un “ampliamento dell’area del debito in [continua ..]


4. Dignità e felicità

Si dirà che il lavoro agile presupposto dalla legge n. 81/2017 è un lavoro di nicchia, che riguarda una fetta ben limitata di lavoratori, e che è cosa ben diversa dal lavoro agile così come si è sviluppato nel periodo della pandemia; e si dirà che anche le nuove realtà organizzative sono tutt’altro che egemoni. E si dirà ancora che a fronte di lavoratori altamente professionalizzati, esistono ampi settori di lavoro irregolare o malpagato, come avviene in molti settori della gig economy o per i rider, o per i lavoratori della logistica o dei servizi di cura. E che proprio in questi casi che viene in causa la protezione della dignità delle persone che lavorano, la cui debolezza contrattuale reclama un tipo di tutela che si applichi sempre e comunque, indipendentemente dalla volontà dei singoli. Tutto questo è verissimo; così come è vero che con queste situazioni ne coesistono delle altre, in cui il potere contrattuale del lavoratore è più forte o in cui l’organizzazione del lavoro, e dunque anche la vita all’interno dei luoghi di lavoro, si svolge secondo coordinate ben diverse. La realtà è che non tutti i lavoratori subordinati sono uguali e che all’in­terno della vasta area del lavoro convivono realtà diverse se non opposte. Come si legge nella Concurring opinion in calce ad una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo [28] il livello minimo di dignità delle persone che lavorano non si identifica con un livello minimo di felicità nella vita (né, tanto meno, con la soddisfazione di ogni pretesa del singolo individuo). Per provare ad andare oltre la soglia minimale della assenza di infelicità, occorre forse interrogarsi sulla perdurante validità di abitudini consolidate e di schemi mentali tradizionali, e sulla opportunità di consentire (anche se non sempre e comunque) verso una maggiore apertura nei confronti dell’autono­mia individuale dei lavoratori, garantendo così più ampi spazi alla autodeterminazione dei singoli. Occorre allora chiedersi se il diritto del lavoro debba ostacolare, guardare con diffidenza o invece agevolare ed incentivare nuove forme di organizzazione che prevedono forme di partecipazione non istituzionalizzate dei lavoratori, un modo di lavorare per progetti, un atteggiamento di [continua ..]


NOTE