I rapporti tra la giurisprudenza costituzionale ed il Comitato europeo dei diritti sociali sono particolarmente complessi, dovendosi comunque escludere che l’integrazione della Carta sociale europea col nostro ordinamento permetta di attribuire un’efficacia vincolante alle decisioni dell’organismo sovranazionale. Sulla base di questi presupposti, il saggio intende verificare l’incidenza che può avere la recente decisione del Comitato europeo sull’assetto delle tutele indennitarie previste per i licenziamenti illegittimi, in relazione alla struttura normativa nazionale che emerge dalla sentenza n. 194 della Corte costituzionale, nonché alle sue possibili ulteriori conseguenze. Partendo dalla tutela contro il licenziamento ingiustificato dei neo-assunti, l’indagine pertanto si estende a quella corrispondente prevista per i licenziamenti ancora soggetti all’applicazione dell’art. 18, l. n. 300/70, nonché al tema dei licenziamenti collettivi, interessati dall’intervento della Corte di giustizia, al tema dei vizi procedurali e infine a quello delle cosiddette piccole imprese.
The relationship between constitutional jurisprudence and European Committee of Social Rights is particularly complex, but it must be ruled out that the integration of the European Social Charter with our legal system could give binding effect to the decisions of the supranational authority. Based on these assumptions, the essay aims at verifying the impact that may have the recent decision of the European Committee on the indemnity protection system against unlawful dismissals in relation to our domestic legislation, as it has been modified by the judgment no. 194 of the constitutional Court, and to its further, possible effects. The study starts from the protection against unlawful dismissal provided for the new employees and extends to the corresponding one provided for dismissals still set forth in Article 18 of law No. 300 of 1970, to the subject of collective dismissals, involved in the examination by the Court of Justice, to the subject of procedural defects and, at last, to the subject of so-called small undertakings.
1. La decisione del Comitato europeo sulla violazione della Carta sociale - 2. Il contrasto con la pronuncia n. 194 e le “ragioni” della Consulta - 3. La questione di adeguatezza (intesa come congruità) della attuale tutela indennitaria per il licenziamento ingiustificato dei neo-assunti - 4. (segue) il diverso problema della sua efficacia dissuasiva - 5. (segue) e la declinazione nell’ordinamento interno del complessivo giudizio di adeguatezza - 6. L’effettività delle tutele statutarie per il licenziamento ingiustificato - 7. La tutela per la violazione dei criteri di scelta nei licenziamenti collettivi tra Carta sociale e diritto dell’Unione - 8. L’irragionevole applicazione “transitoria” della originaria tutela indennitaria per i licenziamenti dei neo-assunti - 9. L’irrilevanza della Carta sociale rispetto ai vizi realmente procedurali - 10. L’insufficienza delle tutele indennitarie ridotte per il licenziamento delle piccole imprese - 11. La ricerca dell’equilibrio e le sue “origini” - NOTE
Poco prima che esplodesse l’emergenza sanitaria il Comitato europeo dei diritti sociali ha affermato [1], su reclamo della Cgil, che le tutele meramente indennitarie, previste per i licenziamenti illegittimi dagli artt. 3, 4, 9 e 10 del d.lgs. n. 23/2015, violano l’art. 24 della Carta sociale europea (in avanti anche solo CSE), che come noto si occupa della tutela contro i licenziamenti privi di un valido motivo [2]. Con ragionamento esteso alle diverse discipline interne applicabili, incluso l’art. 18 Stat. lav., si afferma infatti che, nei casi in cui non opera una tutela reintegratoria, i diversi tetti massimi dell’indennità – dipendenti dal tipo di vizio del recesso, dalle dimensioni dell’impresa o dalla natura individuale o collettiva del licenziamento – non sarebbero comunque adeguati al ristoro del danno [3], perché non compenserebbero le perdite economiche subite e comunque non le coprirebbero dal licenziamento fino alla pronuncia dell’organo decidente. Inoltre le misure nazionali sarebbero prive di efficacia dissuasiva. A sostegno di tali conclusioni, la decisione esclude pure che sul giudizio negativo possa incidere, dall’esterno, la tutela apprestata contro i licenziamenti nulli e quella per danni ulteriori, garantita dalle ordinarie regole di responsabilità civile; nonché, dall’interno, il meccanismo conciliativo dell’art. 6, d.lgs. n. 23/2015, il quale, oltre a valere per i soli nuovi assunti, si muove comunque nella stessa logica indennitaria ritenuta insufficiente rispetto alla tutela rivendicabile in sede giudiziale. Da qui la asserita violazione dell’art. 24 CSE, che appunto prevede il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo “ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”, secondo l’interpretazione di congruità e adeguatezza già offerta in precedenza dallo stesso Comitato [4]. Questa decisione si pone in contrasto con la sentenza costituzionale n. 194/2018, in cui la disposizione della Carta sociale era stata richiamata, limitatamente al licenziamento individuale ingiustificato dei neo-assunti, soltanto per censurare il meccanismo di calcolo automatico dell’indennità risarcitoria; restando invece confermata almeno la legittimità dello strumento costituito dalla forbice edittale [5], peraltro appena ampliata dal c.d. decreto [continua ..]
La Corte costituzionale ha attribuito alla Carta sociale europea il valore di norma interposta [10], consentendo lo scrutinio della legislazione ordinaria attraverso tale lente ai sensi dell’art. 117 Cost., e quindi da parte dello stesso giudice delle leggi. Al contempo, il Comitato europeo dei diritti sociali non esercita una funzione propriamente giurisdizionale, sicché, mentre al giudice comune è inibita una diretta conformazione alle sue decisioni, ovvero la disapplicazione della norma interna, la Consulta interpreta direttamente le disposizioni della fonte sovranazionale, senza essere vincolata all’interpretazione del Comitato. Si sostiene che questa soluzione, ritenuta di carattere lato sensu procedurale, non risponderebbe al superamento della dicotomia tra diritti di prima e seconda generazione [11], potendosi invece ipotizzare un ruolo del Comitato europeo equiparabile a quello della Corte di Strasburgo, con conseguente attribuzione alle sue decisioni di una efficacia tendenzialmente equivalente nell’ordinamento interno [12]. In realtà, la soluzione della Corte costituzionale ha una precisa giustificazione sostanziale. Va intanto premesso ciò che appare ovvio, vale a dire che, a differenza della Carta sociale e della stessa Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Costituzione italiana non solo regola l’organizzazione della collettività mediante diritti e doveri, ma è radicata su principi diversi e concorrenti. Per quanto interessa, infatti, il sistema nazionale si fonda sul diritto al lavoro e lo tutela in tutte le sue forme, ma riconosce la proprietà, il capitale e l’investimento privati necessari a garantire la libertà di iniziativa economica [13]. Senonché, mentre per i diritti di prima generazione la giurisprudenza incrementale della Corte di Strasburgo, peraltro incentrata sulla decisione del “caso” individuale, non pone tanto una questione di riconoscimento, quanto di compatibilità con le risorse economiche a disposizione dello Stato [14], l’attribuzione di una efficacia diretta alle disposizioni della Carta sociale o, meglio, alla loro interpretazione vincolante ad opera di un organismo sovranazionale, risulterebbe assai più problematica [15]. Invero, un’interpretazione circoscritta al decalogo dei diritti sociali che [continua ..]
In questo quadro, si deve ritenere che il nostro giudice delle leggi, avendo già esaminato la disciplina dell’art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, anche alla luce dell’art. 24 CSE, quanto al licenziamento individuale ingiustificato è formalmente libero di ignorare la statuizione del Comitato europeo, a cui pure la giurisprudenza costituzionale attribuisce una peculiare autorevolezza [25]. Del resto, la sentenza n. 194 ha ribadito apertis verbis come il ristoro del danno, purché equilibrato, non deve essere necessariamente integrale [26]. In questo senso, come appena osservato, l’omaggio speso verso la “giurisprudenza” del Comitato cela, evidentemente, una diretta interpretazione letterale della Carta sociale, in cui la riparazione è appunto qualificata dall’adeguatezza piuttosto che dalla integralità del danno. Ciò peraltro non esclude, almeno in linea teorica, la possibilità di assegnare alla decisione del Comitato un’efficacia normativa soft, cioè la capacità di integrare i criteri – elastici, quando non proprio ambigui [27] – individuati dalla Consulta per la discrezionale quantificazione giudiziale dell’indennità del caso concreto [28]. Senonché, continuando a ragionare sulla tutela apprestata dal decreto Jobs Act per il caso del licenziamento individuale ingiustificato, la decisione in esame solleva perplessità di carattere tecnico che vanno necessariamente affrontate nel merito. Invero, la valutazione del Comitato è condivisibile sia per la distinzione tra il licenziamento ingiustificato e quello nullo o accompagnato da condotte offensive [29], sia per il rilievo sulla scarsa incidenza dissuasiva del meccanismo di conciliazione e sulla irrilevanza e/o aleatorietà della tutela per la disoccupazione. È invece assai discutibile che un tetto indennitario di 36 mensilità debba assertivamente considerarsi inadeguato soltanto perché ritenuto insufficiente (verrebbe da dire anche apoditticamente, dato l’inesistente supporto statistico dell’affermazione) a compensare le effettive perdite economiche e a coprire quelle subite dal recesso fino alla decisione giudiziale. Da quest’ultimo punto di vista, il riferimento alla durata del processo ha senso soltanto se si ragiona nell’ottica di una [continua ..]
Un ragionamento separato merita il profilo dell’efficacia dissuasiva della tutela. Al riguardo, va rilevato che l’art. 24 CSE non menziona tale carattere. Tuttavia è indubbio che anche questa disposizione poggia su una complessiva esigenza di protezione del diritto, perché una tutela adeguata ha in sé una carica necessariamente deterrente rispetto alla sua possibile lesione. Resta da capire quale sia il contenuto del diritto di cui si discorre. In primo luogo, è scontato rilevare che l’impianto normativo dell’art. 24 CSE non esprime un divieto. Infatti la disposizione esordisce stabilendo che il lavoratore non può essere licenziato senza un valido motivo, salvo poi imporre una tutela per l’inesistenza di una valida motivazione. La struttura della norma è quindi incentrata sulla tecnica della giustificazione necessaria [41], con rimessione alla discrezionalità statale della scelta della tutela applicabile. In tale rimessione – che a rigore neppure sembra consentire una valutazione “esterna” di adeguatezza [42] – si coglie ulteriormente la differenza con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, provocata da casi. Il Comitato europeo dei diritti sociali è al contrario investito di un problema di conformità erga omnes della disciplina interna, sicché al suo intervento neanche sarebbe opponibile uno scudo meramente temporaneo come quello del mancato consolidamento dell’interpretazione giudiziale, finora evocato dalla Consulta contro l’estensione ultra partes delle decisioni della Corte convenzionale [43]. Al riguardo va anche ricordato che, come tutte le fonti, la Carta sociale si è evoluta in relazione al contesto economico e sociale, passando dall’originaria previsione minimale di un diritto al preavviso [44] alla disposizione vigente, cioè replicando in ritardo una regola di giustificazione introdotta nell’ordinamento interno nel 1966 e generalizzata nel 1990. Pertanto, come l’art. 24 è stato comprensibilmente ignorato fintantoché il legislatore nazionale ha preservato la tutela reintegratoria piena [45], neppure è adesso consentito decontestualizzarlo, attraverso l’esasperazione di modelli monistici extra-ordinamentali, dalle attuali tematiche della occupabilità e della disoccupazione [continua ..]
In proposito, senza ignorare il dibattito dottrinale sulla relazione tra tutela in forma specifica e “per equivalente”, va comunque osservato che, una volta ribadita l’impostazione favorevole alla discrezionalità accordata al legislatore nella scelta tra reintegrazione e indennizzo [53], la rimozione del sistema di calcolo predeterminato ad opera del giudice delle leggi merita di essere apprezzato, nella cornice della sentenza costituzionale, proprio sotto il profilo dell’adeguatezza quale concetto inclusivo dell’efficacia dissuasiva della tutela. Infatti la predicata personalizzazione del danno o, per meglio dire, della tutela del caso concreto [54] consente di correggere un meccanismo di liquidazione che, soprattutto a fronte di un processo di breve durata, poteva perfino risultare congruo (cioè compensativo di un danno effettivo nella logica seguita dal Comitato europeo), e ciò nonostante inadeguato, nella visione costituzionale di tutela del lavoro, tanto ex post nella fase di quantificazione, quanto ex ante perché privo di reale portata deterrente [55]. Per altro verso, tuttavia, nella prospettiva delle dinamiche successive al licenziamento e rispetto all’individuazione del punto di contatto tra la “curvatura occupazionale del danno” del lavoratore e quella “gestionale del costo del licenziamento” [56], un limite di 36 mensilità non sembra contrastare con una lettura combinata del primo e secondo comma dell’art. 4 Cost. Occorre infatti tenere conto che l’impegno dello Stato, quand’anche non compensato dall’ammortizzatore sociale comunque cumulabile all’indennizzo [57], al di fuori della logica reintegratoria neanche può semplicemente tradursi in (o essere scaricato su) un imponibile di manodopera sine die, dovendosi pure valutare l’incidenza, sulle predette curvature, dei costi delle politiche attive. Si tratta, in definitiva, di riconoscere che il test di proporzionalità nel bilanciamento dei principi, così come non può travolgere ogni “ragione” dell’economia e la funzionalità dell’impresa, neppure può risolversi, al ribasso, nella sola proporzionalità (id est congruità) del ristoro rispetto a un danno commisurato alla durata del rapporto e/o [continua ..]
Riconosciuta la legittimità, almeno per l’ordinamento costituzionale, della fissazione di un tetto massimo all’indennizzo contro il licenziamento ingiustificato, il problema non sembra riguardare il limite minimo edittale. Infatti, mentre il rispetto dell’adeguatezza in concreto dipende dal corretto esercizio della discrezionalità del giudice, e quindi in primis dalla motivazione dei criteri adottati e della loro combinazione, l’efficacia deterrente insiste invece, nel calcolo prognostico del rischio datoriale, sulla previsione di un elevato tetto massimo di indennizzo. Senonché, la questione si rivela più complessa, dal momento che la conclusione va anche rapportata a quanto previsto dall’art. 18, comma 5, Stat. lav., in base al quale, garantita ab origine la discrezionalità giudiziale, ad un minimo indennitario più elevato (12 mensilità) fa riscontro un tetto più circoscritto (24 mensilità). Invero, la Corte costituzionale non si è pronunciata sul rapporto tra questa normativa e la Carta sociale, mentre il Comitato europeo ha necessariamente – per quanto, sembra di capire, incidentalmente – ritenuto che pure il limite massimo di 24 mensilità sia insufficiente. Sebbene ogni riflessione risulti condizionata dall’evoluzione del sistema giuridico interno, il problema di raffronto che qui emerge non è, tuttavia, quello della legittima differenziazione di tutele in base al “fluire del tempo”, che la Consulta ha risolto positivamente esponendosi, però, all’obiezione di contraddire lo scopo occupazionale del Jobs Act con la creazione di una disparità alla rovescia [61]. Si tratta piuttosto di stabilire se la disciplina indennitaria dell’art. 18, comma 5, Stat. lav. possa essere comunque considerata adeguata alla stregua della Carta sociale, nonostante la valutazione svolta dal Comitato. Se a favore della adeguatezza come correttivo della congruità già milita la maggiore entità del minimo edittale, tenuto sempre conto della indetraibilità del guadagno aliunde, per sostenere anche l’efficacia deterrente del tetto massimo della disciplina statutaria diviene indispensabile valorizzare il passaggio motivazionale che la Consulta ha premesso (ma poi trascurato, rispetto) al discorso incentrato sulla diversificazione [continua ..]
Queste considerazioni si riflettono sulla materia dei licenziamenti collettivi, che è ulteriormente complicata dall’innesto, sulla complessiva disamina, di un’altra fonte sovranazionale. A fronte dei rilievi della Consulta sull’inesistenza, per i licenziamenti individuali, di una “norma di ingresso” nel sistema giuridico dell’Unione europea [66], era infatti ampiamente prevedibile che il dubbio si riproponesse per le procedure di riduzione collettiva dell’art. 10, d.lgs. n. 23/2015, che è invece governato dalla disciplina comunitaria. Sicché era quasi inevitabile che tale disposizione venisse sottoposta al vaglio della Corte di giustizia in relazione all’art. 30 della Carta di Nizza [67], stando al quale “ogni lavoratore ha il diritto alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e prassi nazionali”. Nei limiti della trattazione, la questione preliminare riguarda il recepimento della Carta sociale nel diritto dell’Unione, tramite l’art. 151 TFUE [68]. In realtà, anche ammettendo che la CSE offra un livello di protezione maggiore della Carta dei diritti fondamentali [69], non sembra che da tale ipotetico recepimento – indubbiamente utile sul piano del vincolo giuridico – possano ricavarsi, in ordine all’effettività delle tutele, conseguenze eccedenti la reale portata dell’art. 24, che, anzi, andrebbe in questo caso inserita nel giudizio di bilanciamento del giudice eurounitario. Peraltro, sul punto appare condivisibile il rilievo per cui la disposizione della Carta sociale costituisce solo una fonte di ispirazione per il diritto dell’Unione, come afferma la stessa spiegazione dell’art. 30 della Carta di Nizza [70]. Sulla base di questa premessa, le due ordinanze italiane di rimessione alla Corte di giustizia [71], entrambe relative all’illegittimità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta, sono comunque interessate dall’analisi dell’impatto che la decisione del Comitato europeo può avere sulla giurisprudenza costituzionale e sovranazionale. Tuttavia in quelle ordinanze il problema della effettività della tutela non solo è trattato congiuntamente, ma tende a confondersi con quello della parità di trattamento. [continua ..]
Il ragionamento è stato finora svolto assumendo a presupposto l’attuale disciplina indennitaria dei licenziamenti (individuali e collettivi) ingiustificati dei neo-assunti; e ciò in quanto la decisione del Comitato europeo ha espressamente negato che anche tale disciplina, consistente nella ricordata forbice 6-36 mensilità, vìoli la Carta sociale, facendone discendere a cascata l’insufficienza di tutte le tutele indennitarie “minori”. Si è detto, però, che la verifica di conformazione all’art. 24 della Carta sociale, quale norma interposta e valutata ai sensi dell’art. 117 Cost., non consente di condividere l’interpretazione dell’organismo sovranazionale sia in relazione al Jobs Act, sia rispetto alle corrispondenti discipline statutarie. Queste conclusioni muovono dall’assunto della Corte costituzionale secondo cui il fluire del tempo giustifica l’applicazione di regimi di tutela diversificati, sicché prescindono, nei limiti del possibile, dalla riproposizione del problema della irragionevole disparità di trattamento, che condiziona le vicende giudiziarie ma, in senso stretto, non dipende dalla secca verifica di effettività della tutela, imposta dalla relazione tra giustizia costituzionale e l’art. 24 CSE. C’è tuttavia da chiedersi se e come la valutazione di adeguatezza dei vari regimi applicabili ratione temporis si riversi, proprio nella logica del “fluire del tempo”, su un peculiare assetto normativo. Ci si riferisce alle tutele applicabili ai lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 e licenziati prima del 12 luglio 2018, per i quali la forbice legale della tutela è rimasta fissata in 4-24 mensilità. In effetti nella sentenza n. 194 la Consulta non si occupa del problema, ripetendo in più occasioni che il suo ragionamento vale per la forbice originaria sia nel minimo che nel massimo edittale, per poi estenderlo a quella modificata dal d.l. n. 18/1987, conv. l. n. 18/1996. In proposito, sarebbe tuttavia fuorviante un’analisi che si limitasse ad una isolata verifica della eventuale adeguatezza di questa tutela, secondo quanto sembra trasparire dalla pronuncia costituzionale in più marcato contrasto con la decisione del Comitato europeo. Invero, non si tratta soltanto di confrontare detta tutela con quella statutaria – più [continua ..]
La decisione del Comitato coinvolge pure la ridotta tutela indennitaria prevista per i c.d. vizi procedurali, che per i neo-assunti era, oltretutto, ancora incentrata sul sistema di calcolo predeterminato e limitato ad una mensilità per ogni anno di servizio (art. 4, d.lgs. n. 23/2015), poi rimosso dal giudice di legittimità [84]. In una logica formalistica, l’intervento del Comitato in questa materia andrebbe escluso, perché privo di aggancio al dato testuale dell’art. 24 CSE. Infatti la disposizione pretende che ogni licenziamento sia motivato e che sia apprestata una tutela per l’assenza di un “valido motivo”, vale a dire per il caso di ingiustificatezza sostanziale del licenziamento, ovviamente inclusiva dell’assenza stessa di una motivazione. Al contrario, la disposizione europea non dice nulla su come e quando questo motivo debba essere esplicitato, limitandosi a ribadire la necessaria garanzia del diritto al ricorso ad un organo imparziale contro la misura espulsiva. Pertanto dall’ambito della disciplina sovranazionale dovrebbero esulare quei vizi che vengono appunto qualificati come “formali” o “procedurali”. Del resto, nei confronti di un licenziamento affetto soltanto da tali vizi ha poco senso parlare di rimedio indennitario congruo e dissuasivo, considerando che il vizio procedurale, se inteso in senso restrittivo come vizio “puro” o vizio “errore”, come non esclude l’ingiustificatezza del recesso e l’applicazione delle relative tutele in punto di adeguatezza, neppure dovrebbe influire sulla prevedibilità/conoscibilità su cui si fonda l’efficacia dissuasiva della sanzione. È chiaro che la questione muta completamente se si guarda a quelli che il legislatore nazionale ha genericamente classificato, ed anzi impropriamente assimilato [85], come violazioni di forma o di mera procedura e che, invece, incidendo su posizioni di affidamento o sul diritto di difesa, possono riverberarsi sulla giustificazione del licenziamento, e quindi, almeno in senso lato, anche sulla “validità” del motivo che lo fonda nella prospettiva della Carta sociale [86]. Tuttavia si deve all’intervento ortopedico della Cassazione la qualificazione come vizi sostanziali di molte ipotesi di violazione delle procedure nominate, di conseguenza attratte [continua ..]
Una volta incentrata l’attenzione sul tema dell’effettività delle tutele, la decisione del Comitato europeo solleva invece un rilevante problema in relazione alla disciplina indennitaria prevista per i licenziamenti delle c.d. piccole imprese, accentuando le perplessità che la dottrina aveva già manifestato sul punto [92]. La questione, dunque, va oltre il dibattito che interessa l’estensione degli effetti della sentenza n. 194 ai recessi soggetti alla tutela dell’art. 9, d.lgs. n. 23/2015, già accusata di costituire un “consistente scalino in pejus” sino al punto da compromettere l’efficacia dissuasiva della sanzione [93]. Si tratta infatti di stabilire se il tetto massimo di indennizzo di 6 mensilità, previsto in modo fisso per i neo-assunti e salvo deroghe migliorative ai sensi dell’art. 8, l. n. 604/1966, possa comunque considerarsi una tutela adeguata nonostante la (ipotizzabile o attuale) rimessione della quantificazione alla discrezionalità giudiziale. A questo dubbio, nonostante il precedente costituzionale [94], sembra doversi dare una risposta complessivamente negativa, mentre è più difficile individuare l’intervento correttivo che consenta di rimediare al deficit di effettività. In effetti il requisito dell’organico aziendale, nella duplice (o triplice) soglia numerica risalente alla riforma del 1990, appare oramai anacronistico, sia per le molteplici forme di destrutturazione e delocalizzazione dell’impresa, sia per la proliferazione di strumenti negoziali “elusivi” del computo utile per l’applicazione di specifiche tutele, sia e soprattutto rispetto alla dimensione economica dell’impresa, che spesso risulta una variabile indipendente o semi-indipendente dalla forza lavoro. Il che genera ulteriori effetti sperequativi tra i vari settori della produzione [95], analoghi a quelli segnalati per la retribuzione imponibile ai fini previdenziali. Senonché, la secca rimozione del criterio distintivo incentrato sul requisito dimensionale potrebbe generare conseguenze altrettanto discutibili. In passato la Consulta ha giustificato la legittimità di questo limite, e della annessa diversificazione sincronica di tutele, sia per l’impossibilità per le piccole imprese di ricostituire una relazione fiduciaria, sia per la loro ridotta capacità di [continua ..]
Nel dibattito scientifico che imperversa sulla materia a seguito delle riforme e delle conseguenti vicende giudiziarie, l’unico aspetto su cui si converge è l’assenza di un equilibrio normativo. Anche se poi, con diversi accenti, le posizioni si ramificano sui due poli opposti, rappresentati dalla contestata duplice riduzione delle tutele e, rispettivamente, dal ribaltamento della volontà legislativa attraverso l’opera ricostruttiva della giurisprudenza di legittimità ed il recupero “costituzionale” della discrezionalità giudiziale [99]. In effetti, nel complicato disegno del legislatore non c’é norma che non venga discussa fino al limite della manipolazione, a partire dalle ipotesi di nullità del licenziamento fino a quelle procedurali (cui adde quelle processuali). Il che in parte è fisiologico per la natura dell’interpretazione; in parte dipende da una tecnica legislativa approssimativa o compromissoria in cui si insinua la stessa funzione esegetica; in parte ancora segnala la mancanza di una tenuta strutturale del sistema, che consenta di attribuire ad ogni disposizione un significato congruente, cioè proporzionato e corrispondente a quello delle altre norme che compongono l’insieme. La moltiplicazione e divaricazione delle regole, divenuta anche diacronica col decreto del 2015, aggrava la comprensione. Come in un mosaico, lo spostamento di una tessera muove tutte le altre, imponendo ogni volta la ricerca di una nuova composizione e innescando un circolo vizioso rispetto al consolidamento dell’interpretazione giudiziale. Il che, a sua volta, alimenta gli attacchi al testo legislativo sul piano della ragionevolezza. Su questa situazione influiscono prepotentemente le dinamiche sovranazionali [100], che tuttavia, rispondendo a contesti, funzioni e obiettivi disomogenei, non forniscono “ricette” chiare ed univoche per la soluzione dei problemi nazionali. Il rilievo non esclude l’esigenza di confrontarsi con queste fonti, che ovviamente compenetrano l’ordinamento statale e richiedono di verificarne l’assetto, ovvero di aggiornarlo, in relazione ai (diversi) vincoli ed agli impegni assunti [101], come appunto si impone a fronte della decisione del Comitato europeo sul mancato rispetto dell’art. 24 CSE. Senonché, è illusorio pensare che l’aggancio interpretativo con [continua ..]