Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Who cares? La (mancanza di) dignità sociale per il lavoro di cura (di Silvia Borelli, Professoressa associata di Diritto del lavoro dell’Università degli studi di Ferrara)


Prendendo avvio dalle riflessioni di Stella La Forgia su diritti fondamentali e dignità sociale, l’Autrice chiarisce lo stretto legame che esiste tra il riconoscimento e l’effettiva garanzia del diritto alla cura e la tutela dei diritti delle lavoratrici che prestano l’attività di cura. Nel welfare fai-da-te, che si sviluppa a seguito della contrazione del welfare pubblico, la capacità di soddisfare i bisogni delle persone dipende del contenimento del costo del lavoro di cura. A tal fine, lo Stato utilizza la tecnica del diritto diseguale che considera il lavoro di cura come “lavoretto” per cui è dettata una disciplina specifica che priva le lavoratrici di quasi tutti i diritti previsti in caso di lavoro subordinato. In questa prospettiva, la dignità sociale si trasforma in mera retorica.

Who cares? The (lack of) social dignity for the care workers

Starting from Stella La Forgia’s analysis on fundamental rights and social dignity, the Author clarifies the strong interdependency between the recognition and the effective protection of the right to care and the guarantee of the care workers’rights. In the DIY welfare, that has developed due to the reduction of the public welfare, the capacity to fulfil people needs depends on the cost restraint of care work. For this purpose, the State has set up a special regulation that considers the care work as a “gig work” and deprives the care workers of almost all rights guaranteed to employees. In this context, social dignity has been reduced to mere rhetoric.

SOMMARIO:

1. Premessa: cosa sono i diritti fondamentali? E la dignità sociale? - 2. Il diritto alla cura è un diritto fondamentale? - 3. La mercificazione del lavoro di cura - 4. Il libretto famiglia e il “lavoretto” di cura - 4.1. La compressione dei diritti delle lavoratrici nella disciplina del libretto famiglia - 4.2. Il babysitting nell’epoca della uberizzazione del lavoro [55] - 5. Riconoscimento e redistribuzione - NOTE


1. Premessa: cosa sono i diritti fondamentali? E la dignità sociale?

Nel volume Diritti fondamentali dei lavoratori e tecniche di tutela. Discorso sulla dignità sociale, Stella La Forgia chiarisce che i diritti fondamentali sono «storici»: essi cioè non sono dati una volta per tutte, ma riflettono ciò che, in un determinato momento storico e in una certa comunità di appartenenza, è avvertito come tale in quanto soddisfa «i bisogni più essenziali del­l’uomo». Di conseguenza, «la qualifica in termini di “fondamentali” di alcuni bisogni non può prescindere da ciò che è diffusamente ed intensamente avvertito come tale dallo stesso corpo sociale» [1]. Nell’esaminare il fondamento lavoristico della nostra Costituzione e il ruolo che in essa assume la dignità sociale, l’Autrice spiega poi che «è soltanto attraverso il lavoro che si raggiunge pienamente una condizione di vita dignitosa che trascende l’individualità, consentendo l’accesso e la partecipazione attiva alla comunità». Il lavoro è dunque «lo specchio bifronte che consente al lavoratore di inverare la propria personalità – quindi di realizzare e “vedere” se stesso – ma anche di riflettere questa immagine all’esterno, ottenendo considerazione sociale, l’onore id est quel valore sociale che, se leso, lo priverebbe della dignità davanti a sé e agli altri» [2]. Nel proseguo della trattazione, l’Autrice definisce poi la dignità sociale come «l’ipostasi del contenuto essenziale dei diritti; essa ne copre proprio il nucleo irriducibile e costituisce, pertanto, il fondamento di una dogmatica sul contenuto essenziale dei diritti fondamentali dei lavoratori» [3]. Muovendosi da queste premesse, il presente contributo tenterà di mettere in luce se e in che misura la cura è oggi considerata un bisogno fondamentale, se cioè viene o meno garantito – e in che misura – il diritto fondamentale alla cura. Dalla risposta che daremo a tale domanda prenderà avvio la seconda parte della nostra analisi, diretta a verificare se la dignità sociale è effettivamente garantita a chi presta il lavoro di cura verso il pagamento di un corrispettivo (paid care work) [4]. Il nesso tra le due parti risiede nel fatto che il [continua ..]


2. Il diritto alla cura è un diritto fondamentale?

Numerose sono le disposizioni costituzionali che considerano la cura come bisogno fondamentale (artt. 2, 3, comma 2, 38 Cost.). Nel riconoscere il diritto alla cura come diritto fondamentale non si può tuttavia ignorare che la definizione di tale diritto, come di ogni diritto, si comporta «come un ombrello durante un forte acquazzone: vi è un punto in cui la protezione è massima, e poi, via via che ci si allontana da esso, la tenuta diviene sempre meno efficiente; è persino difficile dire in che punto si è totalmente fuori dall’ombrello, anche perché in buona parte dipende dal vento» [6]. Per questo, ogni discorso sui diritti non può essere mai disgiunto dalla tutela che ad essi viene garantita. La «modulazione della garanzia del diritto» (di ogni diritto) dipende da scelte discrezionali [7]. E la Corte costituzionale ha più volte individuato nelle esigenze di bilancio (e quindi nelle ragioni della politica economica), il controlimite ai diritti sociali [8]. Se dunque ci si sposta dal piano astratto dei valori per verificare in che misura il diritto alla cura viene garantito, il discorso si colora immediatamente di tinte più cupe. Per non tediare il lettore con numeri e statistiche, basti qui ricordare che, nel nostro paese, soltanto il 24,7% dei bambini beneficia di un posto presso un asilo nido pubblico (a gestione diretta o indiretta) o accreditato (percentuale che scende al 15% nelle Regioni meridionali) [9]. La situazione è ancora più disastrosa per i servizi domiciliari per le persone non autosufficienti il cui indice di presa in carico, nel 2012, era pari a 0,6 per ogni 1000 abitanti per l’Assistenza domiciliare integrata (ADI) [10], e a 1,3 per la Servizi di assistenza domiciliare (SAD); analogamente, il numero di posti letto per ogni 1000 abitanti era pari, nelle Residenze sanitarie assistenziali (RSA), a 4,7 e, nelle Residenze assistenziali (RA), a 1,6 [11]. I servizi sociali, i.e. i servizi destinati a rimuovere e superare le situazioni di bisogno (ivi incluso il bisogno di cura) che la persona umana incontra nel corso della sua vita, sono pertanto insufficienti a coprire la cura di cui ognuno necessita, in misura più o meno rilevante, nel corso della sua esistenza. Si è perciò sviluppato quello che la dottrina ha chiamato welfare fai-da-te [12]. Nel Do It [continua ..]


3. La mercificazione del lavoro di cura

La scarsa disponibilità di servizi sociali, per le ragioni brevemente illustrate, ha favorito la diffusione dei servizi di cura privati. Il DIY welfare è stato incentivato anche dalla diffusione dei trattamenti monetari (cash-for-care schemes), i quali sono spesso lodati in quanto permettono alla persona bisognosa di scegliere tra una maggiore offerta di servizi [37]. Si è così prodotta una mercificazione (commodification) del lavoro di cura [38]: la persona bisognosa non è più vista come un soggetto titolare di un diritto sociale che deve essere soddisfatto mediante una prestazione messa a disposizione dallo Stato, ma è ritenuta un consumatore che può “scegliere” tra l’of­ferta dei servizi disponibili nel mercato. È evidente che non si tratta di una vera scelta, dato che il costo del servizio ha un’incidenza fondamentale nel­l’o­rien­tare la decisione del soggetto bisognoso [39]. Di conseguenza, la privatizzazione dei servizi di cura ha finito per incrementare le diseguaglianze [40]: da un lato, vi sono le persone che effettivamente possono permettersi di scegliere il servizio in grado di soddisfare meglio le proprie esigenze; dall’altro, vi sono le persone (la maggioranza) che devono ricercare un’opzione economicamente sostenibile, eventualmente anche nel mercato irregolare. Pertanto, si assiste oggi ad una inversione del processo di demercantilizzazione innescato dal riconoscimento dei diritti sociali [41] «e ad un recupero del collegamento tra diritto e mercato, tale per cui la capacità eco­nomica individuale viene reintrodotta tra i criteri che condizionano l’esercizio dei diritti» [42]. La mercificazione del lavoro di cura ha comportato lo sviluppo di meccanismi per comprimerne il costo. Nel DIY welfare, infatti, la capacità di soddisfare i bisogni delle persone dipende dal contenimento del costo del lavoro: tanto minore è il costo del lavoro, tanto maggiori sono le famiglie che possono accedere alla cura. A tal fine, il legislatore interno ha utilizzato anche la tecnica del diritto diseguale, costruendo una disciplina speciale per il lavoro domestico e uno speciale rapporto di lavoro per l’assistenza di anziani, minori e disabili, il cd. libretto famiglia. Nel caso di specie, dunque, il diritto diseguale non è [continua ..]


4. Il libretto famiglia e il “lavoretto” di cura

Il d.l. n. 50/2017 ha reintrodotto, nel nostro ordinamento, le «prestazioni occasionali», nella duplice forma del libretto famiglia e del contratto di prestazione occasionale. Fra le attività che possono essere svolte mediante il libretto famiglia figura «l’assistenza domiciliare ai bambini e alle persone anziane, ammalate o con disabilità» (art. 54, comma 10, lett. b). La ratio della nuova normativa è da ascrivere, come per il voucher lavoro, alla lotta al lavoro sommerso: in sostanza, si facilita la procedura di assunzione e la gestione del rapporto di lavoro per taluni “lavoretti’, contenuti entro limiti economici e di durata prefissati dal legislatore (art. 54-bis, comma 1, d.l. n. 50/2017). Permane poi l’intenzione di facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro di taluni soggetti ritenuti svantaggiati in quanto hanno difficoltà a vendere la loro attività secondo la disciplina standard; per questo viene loro consentito di offrire prestazioni low cost con limiti più elevati rispetto a quelli fissati per la generalità delle prestazioni occasionali (art. 54-bis, comma 8, d.l. n. 50/2017). La distinzione tra libretto famiglia e contratto di prestazione occasionale viene giustificata in quanto si ritiene che solo in quest’ultimo caso vi sia l’esigenza di arginare quei fenomeni di abuso che avevano caratterizzato la fase dell’esplosione dei voucher lavoro [45]. Per questo, talune regole dirette a consentire i controlli dell’ispettorato del lavoro (art. 54-bis, comma 17, d.l. n. 50/2017), a limitare lo spezzettamento del lavoro (art. 54-bis, comma 17, lett. e), d.l. n. 50/2017), e a garantire un costo del lavoro simile a quello previsto per il lavoro subordinato (art. 54-bis, comma 16, d.l. n. 50/2017) sono dettate solo per il contratto di prestazione occasionale. Pertanto, dopo avere introdotto una peculiare disciplina per talune attività che dovrebbero essere «svolte in minima entità e in contesti marginali» [46], il legislatore ammette un controllo su tali prestazioni solo qualora vengono eseguite a favore di imprese, lavoratori autonomi o liberi professionisti. Diversamente, coloro che svolgono “lavoretti” tra le mura domestiche sono condannati alla “dannazione” perenne: oltre a essere assoggettati alla peculiare [continua ..]


4.1. La compressione dei diritti delle lavoratrici nella disciplina del libretto famiglia

Nel configurare la disciplina del lavoro occasionale, il legislatore sembrerebbe discostarsi dal c.d. principio del primato dei fatti (secondo cui per qualificare un rapporto di lavoro occorre considerarne le modalità di svolgimento), individuando una zona “immune” alla qualificazione giuridica del rapporto, per cui prevede una speciale disciplina, che priva il lavoratore di molti (quasi tutti) i diritti riconosciuti in caso di lavoro subordinato [51]. La dottrina ha già evidenziato che tale scelta potrebbe rivelarsi incostituzionale, qualora il lavoro occasionale sia svolto con il vincolo di subordinazione e qualora non risulti alcun ragionevole motivo per differenziarne la disciplina [52]. La Corte costituzionale (Corte cost. n. 121/1993) ci ha infatti insegnato che il principio del primato dei fatti è connesso all’esigenza di applicare «le norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato». Analogamente, nella Raccomandazione OIL n. 198/2006 (§ 9), tale principio è affermato per assicurare l’applicazione degli International labour standard nei casi in cui si presenta, di fatto, l’esigenza di tutelare il lavoratore. Il lavoro remunerato mediante buoni del libretto famiglia rientra poi nel­l’ambito di applicazione della Convenzione OIL n. 189 sul lavoro domestico. L’attuale disciplina del libretto famiglia non consente infatti di ricondurre tale fattispecie al lavoro domestico svolto «in maniera occasionale o sporadica» che può essere escluso dalla Convenzione (art. 1, lett. c). Il limite massimo del compenso annuo che può essere percepito (€ 5000) permette infatti al lavoratore di svolgere 625 ore di lavoro per anno che corrispondono a 26 settimane di lavoro domestico a 24 ore per settimana, fattispecie che non può essere ricondotta all’ipotesi di cui all’art. 1, lett. c) della Convenzione. Né è possibile inquadrare il lavoro occasionale nell’ambito delle due eccezioni previste all’art. 2, comma 2. Il nostro paese non si è infatti avvalso della possibilità di escludere dall’ambito di applicazione della disciplina sul lavoro domestico «alcune categorie di lavoratori che beneficiano, ad altro titolo, di [continua ..]


4.2. Il babysitting nell’epoca della uberizzazione del lavoro [55]

L’attività di assistenza e sorveglianza dei minori viene oggi, sempre più spesso, svolta mediante piattaforme on-line che offrono alle famiglie la possibilità di cercare una babysitter, verificandone la disponibilità, l’esperienza lavorativa e i commenti dei genitori, e di pubblicare un annuncio di offerta o di domanda di lavoro [56]. Numerose piattaforme contengono anche informazioni su come assumere una babysitter [57]. Le piattaforme, infatti, non si presentano come datrici di lavoro delle lavoratrici, ma come mere mediatrici tra queste e gli utenti. Di regola, viene suggerita l’assunzione mediante contratto di lavoro domestico o collaborazione occasionale. Diversamente, il libretto famiglia risulta poco congeniale al business model delle piattaforme, dato che il pagamento avviene mediante il portale INPS. Per evitare di accollare alla famiglia la gestione amministrativa del rapporto di lavoro domestico o della collaborazione occasionale, la piattaforma si incarica spesso di svolgere tale attività. Pertanto, il gestore della applicazione non si limita all’attività di mediazione tra domanda e offerta di lavoro, ma interviene nella gestione del rapporto di lavoro, richiedendo alla babysitter di utilizzare l’applicazione per il check-in e il check-out, trasferendo sul conto corrente del lavoratore il corrispettivo orario concordato con la famiglia sulla base delle tariffe suggerite dalla piattaforma, organizzando un sistema a punti che premia le migliori babysitter, emettendo le buste paga, il bollettino per il versamento dei contributi, la certificazione unica, ecc. Nei casi di specie, il gestore della piattaforma svolge dunque un’attività simile a quella delle agenzie per il lavoro. Tuttavia, anche qualora si applicasse la disciplina della somministrazione di lavoro rimarrebbero numerosi problemi connessi alla scarsa rilevanza del principio di non discriminazione e all’inapplicabilità la regola sulla responsabilità solidale in caso di fornitura di lavoro domestico (nota INL n. 5617/2017). La disciplina del libretto famiglia rischia pertanto di essere superata dalla prassi delle piattaforme. L’introduzione di meccanismi concorrenziali predisposti da queste ultime, quali il rating reputazionale, la possibilità di sospendere o cancellare le lavoratrici a [continua ..]


5. Riconoscimento e redistribuzione

La disciplina del libretto famiglia, considerando il lavoro di cura come un lavoro “diverso” dagli altri, meno rilevante in quanto improduttivo, alimenta la svalutazione di questa attività, legittimando l’idea secondo cui il lavoro di cura sarebbe un lavoro di “serie B” [60]. Si tratta dunque di uno di quei casi in cui «class relations are not merely reflected in law but are produced through legal reasoning and by the application of rules that offer justification for social and economic hierarchies» [61]. La svalutazione del lavoro di cura si combina peraltro con stereotipi razzisti e di genere che portano spesso a ritenere che le donne e le persone straniere abbiano competenze “innate” e siano perciò più “predisposti” a svolgere il lavoro di cura. Questa logica è evidente nelle politiche del lavoro che riservano alcuni “lavoretti” a lavoratori ritenuti svantaggiati (come avviene per il libretto famiglia) [62]. Il fatto che schemi di questo tipo accentuino la segregazione professionale di donne e migranti, aumentino le diseguaglianze di genere e tra lavoratori autoctoni e migranti, contribuiscano a consolidare la svalutazione del lavoro di cura e a consolidare i tradizionali rapporti di potere, è ignorato dai sostenitori di questi programmi in quanto prevale l’esigenza di aumentare il livello di occupazione. Salvo poi accorgersi che esistono i lavoratori poveri. E come ha scritto Gisella De Simone, vi è un «nesso tra lavoratori poveri e lavoro povero», povero dal punto di vista economico, ma povero, anche dal punto di vista assiologico: «il mercato, e con esso lo Stato che lo consente o addirittura direttamente o indirettamente lo agevola, non attribuisce il giusto “valore” al lavoro», rinnegando l’esplicito impegno costituzionale di tutelare «il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni» (art. 35) [63]. Riprendendo le categorie utilizzate da Nancy Fraser (riconoscimento e redistribuzione), possiamo dunque dire che, nel nostro paese, il lavoro di cura non viene pienamente riconosciuto [64]. Ciò ha un impatto significativo sulla redistribuzione del lavoro di cura tra donne e uomini. Nel DIY welfare, tale lavoro non viene condiviso, ma viene esternalizzato a un’altra persona, di regola una donna [continua ..]


NOTE