L’autore analizza, in una prospettiva evolutiva, il vincolo di forma nei licenziamenti. Vengono in primo luogo esaminate le conseguenze della mancanza di forma scritta del licenziamento per distinguerla dalla mancata indicazione dei motivi, oggi distinti anche sotto il profilo sanzionatorio come ipotizzato in passato da attenta dottrina. Esaminate quindi le procedure previste per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo e giusta causa, l’autore verifica i requisiti formali degli atti connessi al licenziamento, quali impugnazione, revoca e infine dimissioni del prestatore proponendo una ricostruzione organica della disciplina dei vincoli formali nella fase risolutiva del rapporto.
The author analyzes, in an evolutionary perspective, the obligation of the form in dismissals. Firstly, the consequences of the absence of a written form of dismissal are examined to distinguish them from the lack of reasons indication, which are presently distinct from the point of view of sanctions, as it has been hypothesized in the past by careful interpretation.
After examining the procedures for dismissals for economic and disciplinary reasons, the author checks the formal requirements of the actions related to dismissal, such as impugned action, withdrawal and finally resignation of the employer, proposing an organic reconstruction of formal constraints discipline in the termination phase of the employment relationship.
KEYWORDS: dismissals – related acts – form – procedure – violations – sanctions
1. Mancanza di forma scritta e inefficacia del recesso - 2. Omessa comunicazione dei motivi e apparato sanzionatorio - 3. Licenziamento disciplinare e per giustificato motivo oggettivo e obblighi procedurali - 4. La forma degli atti connessi al licenziamento: a) Impugnazione del provvedimento - 4. b) Revoca dellatto - 4. c) Dimissioni e obblighi formali - 5. Conclusioni: un regime sanzionatorio (in)coerente per le violazioni formali - NOTE
La disciplina degli obblighi formali connessi al recesso ha subito sostanziali modifiche ad opera delle riforme dei licenziamenti operate dalla legge n. 92/2012 e dal d.lgs n. 23/2015. Per comprendere appieno la portata delle nuove norme, tuttavia, è necessario premettere una breve ricognizione degli obblighi di forma e procedura relativi ai licenziamenti individuali, con particolare riguardo all’importante funzione svolta da dottrina e giurisprudenza nell’esegesi, spesso creativa, di tali regole. L’estensione operata dal secondo comma dell’art. 2 della legge n. 108/1990 della necessità di comunicazione per iscritto del licenziamento a tutti i datori di lavoro, con pochissime eccezioni [1], porta a termine un processo interpretativo iniziato in dottrina e giurisprudenza subito dopo l’emanazione della legge n. 604/1966, tendente a generalizzare tale obbligo [2]. Alla luce del nuovo ambito applicativo generale della forma scritta, il licenziamento finisce col divenire un atto a forma vincolata ad substantiam [3]. Va peraltro notato che, come per i licenziamenti collettivi, anche per quelli individuali forma e procedura erano già state introdotte dalla contrattazione collettiva (cfr. accordi interconfederali del 1950 e del 1965) di cui la legge del 1966 ha recepito i contenuti. La ratio dell’imposizione della forma scritta per il recesso è stata ricondotta da un lato all’esigenza di certezza del diritto, a garanzia dell’esistenza stessa dell’atto al fine di tutelare il lavoratore da arbitrii del datore di lavoro, che in taluni casi poteva negare addirittura il recesso [4]; dall’altro, alla necessità di imporre una particolare attenzione a quest’ultimo nella fase normalmente più traumatica del rapporto, i cui effetti travalicano inevitabilmente l’aspetto lavorativo [5]. Anteriormente alle riforme del 2012 e del 2015, in caso di mancanza di forma scritta dell’atto di licenziamento, qualora il datore fosse stato soggetto al regime di stabilità reale, si applicava pacificamente l’art.18 St., in virtù di un orientamento espansivo che aveva anche ricevuto l’avallo della Corte Costituzionale [6]. Negli altri casi, la prevalente dottrina e giurisprudenza riteneva dovesse applicarsi la cosiddetta tutela reale di diritto comune [7]; in questo modo si tendeva ad estendere [continua ..]
Antecedentemente alle riforme del 2012-2015, la comunicazione dei motivi del licenziamento non era un obbligo per il datore di lavoro, a meno che non venisse richiesta dal lavoratore nei termini di legge. In tal caso, il datore di lavoro doveva comunicare per iscritto entro un ristrettissimo lasso di tempo le motivazioni alla base del recesso [14]. Peraltro, avendo l’atto natura recettizia, era stato ritenuto che esso dovesse non solo essere spedito ma giungere a conoscenza dell’interessato nel termine previsto di sette giorni [15]. La finalità della comunicazione dei motivi era stato identificato da dottrina e giurisprudenza nell’esigenza di garantire al lavoratore la possibilità di conoscere i fatti posti a fondamento del recesso, onde poter valutare se impugnarlo o meno. Come corollario, l’indicazione delle ragioni doveva avvenire non solo tempestivamente ma anche in forma analitica e completa, tanto che il prevalente orientamento giurisprudenziale e dottrinale equiparava le conseguenze dell’omessa comunicazione dei motivi a quella tardiva o generica [16]. L’opinione diffusa fino alla riforma del 2012 aveva considerato l’inefficacia della comunicazione dei motivi quale inidoneità dell’atto a produrre qualunque effetto a causa della mancanza di un requisito essenziale [17]. L’inefficacia in senso stretto si avrebbe solo quando difetti un elemento esterno all’atto stesso, come nel caso dell’omessa comunicazione dei motivi [18]; diversamente, in caso di mancanza della forma, l’atto sarebbe nullo [19]. La Corte Costituzionale aveva indirettamente avallato tale orientamento distinguendo il licenziamento orale, inidoneo a produrre qualunque effetto sul rapporto di lavoro [20], dall’omissione della procedura disciplinare, alla quale conseguivano invece le stesse sanzioni del recesso ingiustificato, in relazione al numero dei dipendenti [21]. La riforma operata dalla legge n. 92/2012 sembra recepire dunque la tesi, sostenuta in passato da autorevole dottrina ma rimasta senza seguito in giurisprudenza, dell’esistenza di una differenziazione tra nullità ed inefficacia del licenziamento [22]. Infatti, mentre la mancanza di forma continua ad essere sanzionata con l’inefficacia del recesso, l’omissione della comunicazione dei motivi, che ora devono essere allegati all’atto del [continua ..]
Analogamente a quanto accaduto per la comunicazione dei motivi, anche le garanzie procedimentali dell’art. 7 dello Statuto hanno subito un notevole depotenziamento sotto il profilo sanzionatorio. Come noto, l’applicabilità dei primi tre commi dell’art. 7 della legge n. 300/70 anche ai licenziamenti disciplinari era stata operata in via interpretativa dalla Corte Costituzionale [25]; successivamente, la giurisprudenza di legittimità aveva affermato l’applicabilità anche del quinto comma del medesimo art. 7 [26]. Infine, sempre la Corte Costituzionale aveva chiarito che, in caso di violazione della procedura dell’art. 7, l’infrazione disciplinare non poteva più essere posta a giustificazione del licenziamento, il quale era quindi sanzionato in ragione dei requisiti dimensionali [27]. Dunque, fino al 2012 il licenziamento disciplinare non preceduto dall’espleamento della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto veniva assimilato al recesso ingiustificato con la conseguenza che ad esso veniva applicato il regime relativo alla dimensione del datore di lavoro. Inoltre, la giurisprudenza aveva individuato tre requisiti in mancanza dei quali la contestazione disciplinare non era valida: l’immediatezza, la specificità e l’immodificabilità. Per quanto riguarda il primo requisito, esso acquistava una duplice valenza: da un lato, un notevole lasso di tempo fra il fatto addebitato e la contestazione deponeva per la scarsa gravità del primo, proprio perché inizialmente tollerato; dall’altro rendeva difficoltosa la difesa del lavoratore. Ad analoga motivazione rispondeva il requisito della specificità, ugualmente indispensabile. Infine l’addebito contestato non poteva più essere modificato ed il datore di lavoro non avrebbe potuto porre a fondamento del licenziamento disciplinare ragioni diverse da quelle già comunicate [28]. Diversamente, la legge n. 92/2012 pur qualificando il licenziamento non preceduto da detta procedura come inefficace, lo ha sanzionato al nuovo sesto comma dell’art. 18 con la sola indennità ridotta, senza alcun diritto alla conservazione del posto di lavoro. Il d.lgs n. 23/2015 riduce ulteriormente la sanzione parificandola a quella prevista per la mancata comunicazione dei motivi del recesso, vale a dire un’indennità non assoggettata a [continua ..]
Se il recesso è atto del datore di lavoro, l’impugnativa costituisce atto unilaterale recettizio del lavoratore [34]. Essa può essere giudiziale, qualora contenuta in un atto giudiziario notificato nei termini di cui appresso al datore, ovvero stragiudiziale, mediante qualunque atto scritto; oltre al prestatore, espressamente legittimate all’impugnativa sono altresì le Organizzazioni sindacali cui il lavoratore abbia conferito mandato [35]. Il lavoratore deve impugnare il recesso nel termine di decadenza di 60 giorni, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 604/1966, sottoscrivendo personalmente l’atto ovvero inviando al datore, prima della scadenza del suddetto termine, la procura o la ratifica dello stesso, allo scopo di garantire al datore la provenienza. Tale esigenza appare oggi rafforzata dalla possibilità di revoca del licenziamento da parte del datore di lavoro nei quindici giorni successivi alla ricezione dell’impugnazione dello stesso (infra). Conseguentemente, atti diversi dalla lettera (telegrammi, e-mail) avranno valore solo nel caso in cui siano sottoscritti o la loro provenienza non possa comunque essere posta in dubbio (ad esempio, in quanto posti in essere tramite firma digitale) [36]. Si tratta di una legittima esigenza che rende tuttavia praticamente inutile per il lavoratore conferire procura ad un terzo, dovendosi poi preoccupare di notificarla nel medesimo termine di decadenza. L’impugnazione del licenziamento costituisce atto unilaterale recettizio per cui produce effetti dal momento in cui giunge a conoscenza del datore di lavoro [37]. Pertanto, anche l’impugnazione giudiziale del provvedimento di licenziamento presuppone, secondo una costante giurisprudenza, che il ricorso non sia soltanto depositato per l’iscrizione a ruolo della causa, ma appunto notificato alla parte datoriale sempre nel termine di sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione [38]. Tale termine è espressamente qualificato dal legislatore come di decadenza [39]; conseguentemente, esso non può essere sospeso o interrotto, con l’unica eccezione prevista dall’art. 410, comma 2, c.p.c., della comunicazione al datore di lavoro della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione che interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua [continua ..]
Un’importante novità introdotta dalla riforma del 2012 è la possibilità per il datore di lavoro di revocare il licenziamento senza subirne alcun effetto negativo. Il comma decimo del novellato articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori prevede che il datore di lavoro possa, nei quindici giorni successivi alla ricezione dell’impugnazione del licenziamento, revocare unilateralmente il recesso intimato annullandone gli effetti. In tale ipotesi, il rapporto si intende ricostruito a tutti gli effetti ed il lavoratore avrà diritto esclusivamente alle retribuzioni maturate medio tempore, senza possibilità di richiedere ulteriori danni. La principale novità rispetto al passato è quindi costituita non tanto dalla previsione della possibilità di revocare il licenziamento quanto delle conseguenze di tale atto e dalla irrilevanza dell’accettazione da parte del lavoratore [43]. Dubbia appare l’applicabilità dell’istituto anche al licenziamento orale ovvero privo di requisiti formali innanzi visti, in primo luogo in caso di mancata o incompleta comunicazione dei motivi, o se tale facoltà sia da intendersi limitata ai soli casi di invalidità non legati a vizi formali. Milita per la tesi negativa la ratio della norma, che non appare destinata a consentire al datore di lavoro che si sia reso conto di un vizio del licenziamento di sanarlo, quanto piuttosto a favorire il ripensamento da parte dello stesso a fronte della comunicazione della volontà di impugnare il recesso. D’altra parte, in caso contrario, piuttosto che una revoca sarebbe stato opportuno prevedere la possibilità di una convalida ovvero di una sanatoria dell’atto viziato e, comunque, la necessità di indicare le ragioni dell’impugnazione da parte del prestatore. Discorso diverso può farsi con riguardo alla violazione della procedura di cui all’art. 7 dello Statuto da parte del datore di lavoro, che potrebbe non aver consentito al prestatore di lavoro un corretto svolgimento del proprio diritto di difesa. In tali casi il lavoratore, ricevuta la motivazione contestualmente al licenziamento, potrebbe esporre le proprie giustificazioni nell’impugnazione del recesso e la revoca acquisterebbe quindi (anche) lo scopo di consentire una tardiva difesa del prestatore ed una più approfondita valutazione da parte del datore [continua ..]
Con l’esclusione della breve parentesi della legge n. 17 ottobre 2007, n. 188, fino a 2012 alcun limite formale era posto alle dimissioni del lavoratore che potevano essere comunicate al datore con qualunque modalità. In mancanza di vincoli formali alle dimissioni, non poteva escludersi che queste potessero avvenire per fatti concludenti, con evidenti incertezze in caso di mancanza di qualunque atto scritto di risoluzione circa l’effettiva modalità con cui il rapporto si era concluso; conseguentemente, in caso di interruzione del rapporto di lavoro, non erano infrequenti le difficoltà del lavoratore sul piano probatorio. L’imposizione di limiti formali alle dimissioni del lavoratore risponde quindi in primo luogo alla necessità di fornire certezza circa le modalità di risoluzione del rapporto [48]. Mentre a tale ultimo fine appare sufficiente l’imposizione della forma scritta, la previsione di una specifica procedura è volta invece ad accertare l’effettiva volontà dismissoria del lavoratore. La legge da tempo ha richiesto un particolare procedimento volto a salvaguardare la volontà del prestatore nel caso della lavoratrice in gravidanza [49]. La previsione di una procedura per le dimissioni in generale, invece, risponde all’ulteriore esigenza di evitare la pratica delle cd. dimissioni in bianco, vale a dire sottoscritte dal prestatore di lavoro senza data o su un foglio completamente bianco, compilato poi dal datore. Si tratta di una prassi gravemente lesiva dei diritti del prestatore, certamente illecita, e quindi il lavoratore che riuscisse a dimostrare che le dimissioni sono state sottoscritte con questa modalità potrebbe certamente invocarne l’invalidità. Tuttavia, è proprio sul piano probatorio che si incontrano le maggiori difficoltà nel dimostrare di avere sottoscritto in bianco le dimissioni. La legge 17 ottobre 2007, n. 188 aveva previsto un regime estremamente rigido per le dimissioni, ma era stata abrogata quasi subito dall’art. 39, comma 10, d.l. 25 giugno 2008, n. 112, conv. legge 6 settembre 2008, n. 133 per le difficoltà operative incontrate e le aspre critiche cui era andata incontro. Successivamente, la legge 28 giugno 2012, n. 92, all’art. 4 commi da 17 a 22, aveva regolamentato dettagliatamente il regime delle dimissioni del prestatore di lavoro al dichiarato scopo non [continua ..]
Il depotenziamento delle sanzioni operato prima dalla legge n. 92/2012 quindi dal d.lgs n. 23/2015 per la violazione delle garanzie procedimentali costituisce un profilo estremamente delicato in grado di ledere in maniera sensibile il diritto di difesa del prestatore di lavoro. La riduzione dell’apparato sanzionatorio per la procedura del licenziamento disciplinare, in particolare, sarebbe meno grave se non si aggiungesse al depotenziamento delle sanzioni previste per la mancata comunicazione delle motivazioni, in quanto esporrebbe il lavoratore esclusivamente alla necessità di attendere il momento espulsivo per conoscere le ragioni dell’atto e valutare se impugnarle o meno, facendo valere in quella sede le proprie difese. Diversamente, il prestatore potrebbe trovarsi di fronte ad un licenziamento disciplinare del quale ignori non solo le specifiche motivazioni ma perfino la natura stessa del recesso, che potrebbe essere privo di qualunque indicazione. Anche la soluzione correttiva vista innanzi, vale a dire considerare la completezza della contestazione disciplinare quale elemento costitutivo del diritto di recesso con conseguente inesistenza giuridica del fatto contestato e applicabilità del regime reintegratorio del quinto comma dell’art. 18, finisce per creare una grave asimmetria tra la mancata comunicazione dei motivi del licenziamento, per la quale vi sarebbe solo una tutela risarcitoria, rispetto alla contestazione di quelli disciplinari, per i quali vi sarebbe una tutela reintegratoria [54]. Per evitare ciò, occorrerebbe rafforzare anche le tutele previste per la mancata comunicazione della motivazione del licenziamento ma questa soluzione, contrastando con il chiaro dettato normativo, sembra richiedere un auspicabile intervento legislativo che passi per la modifica delle norme indicate, ovvero una pronuncia della Corte Costituzionale [55]. È stato pertanto proposto di considerare la mancata indicazione dei motivi posti a base del licenziamento al pari dell’insussistenza degli stessi, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria attenuata, sebbene tale lettura finisce con il tradursi con una abrogazione sostanziale dell’art. 18, sesto comma, St. [56]. Neppure pare appagante, sul versante opposto, la soluzione dell’applicazione dell’art. 8 della legge n. 604/1966, vale a dire la tutela obbligatoria per le imprese minori, in mancanza di [continua ..]