Il saggio contiene una riflessione sul welfare aziendale e territoriale in relazione al variegato mondo del c.d. “Terzo Settore”. La crisi dell’intervento statuale nel soddisfacimento dei bisogni sociali e dei lavoratori ha permesso, quando non incentivato, lo sviluppo di forme di previdenza e assistenza privata sulla spinta di interessi di profittabilità da parte di imprese che operano nel mondo della sanità e delle assicurazioni. Viene quindi normalmente accolta positivamente la presenza nel “mercato” del welfare aziendale di soggetti che non perseguono fini di lucro, ma di solidarietà, recuperando così una sorta di logica mutualistica non profit. Parte centrale del lavoro è la ricognizione della disciplina sugli Enti del Terzo Settore in relazione ad un doppio profilo, quello relativo agli spazi e ruolo del Terzo Settore nel welfare di recente generazione e gli strumenti e le prassi che gli enti non profit adottano per il benessere aziendale dei propri dipendenti, a cui seguono considerazioni sulle problematiche emerse e riflessioni critiche sulla coerenza del sistema di welfare nel suo complesso.
Pur essendo il saggio frutto di una riflessione comune, il primo paragrafo è imputabile ad Antonio Di Stasi; il secondo ed il terzo a Maria Agliata; il quarto ad entrambi.
The essay contains a reflection on corporate and territorial welfare in relation to the variegated world of the c.d. “Third Sector”. The crisis of the state intervention in the satisfaction of social and workers’ needs has allowed, when not encouraged, the development of forms of social security and private assistance driven by the interests of profitability on the part of companies operating in the world of health and insurance. The presence in the “market” of corporate welfare of subjects who do not pursue profit-making purposes, but of solidarity, is therefore generally welcomed, thus recovering a sort of non-profit mutual logic. Central part of the work is the cognizance of the discipline on third sector entities in relation to a double profile, that relating to the spaces and role of the third sector in the recent generation welfare and the tools and practices that non-profit organizations adopt for wellness of its employees, followed by considerations on the problems that emerged and critical reflections on the consistency of the welfare system as a whole.
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1. Il “benessere” per i lavoratori del Terzo Settore e il benessere per i lavoratori terzi. Una premessa - 2. Il benessere dei lavoratori del Terzo Settore - 3. Il Terzo Settore quale competitor delle imprese profit e interlocutore privilegiato della Pubblica Amministrazione - 4. Una nuova funzione per il Terzo Settore de iure condito e de iure condendo - NOTE
La relazione tra due universi, il “Terzo Settore” ed il “benessere aziendale”, entrambi al centro di un rinnovato interesse nel dibattito politico e giuridico rende necessario, prima di soffermarsi sulla complessa materia del welfare, ricordare che l’espressione “Terzo Settore” già sta ad indicare la posizione di terzietà tra l’idea che ad occuparsi della soddisfazione di bisogni fondamentali della persona sia solo lo Stato e quella che ci si debba affidare soltanto alle regole del mercato. Una sorta di terza opzione fondato su elementi privatistici e sull’orientamento altruistico delle attività svolte dal singolo per il benessere collettivo, ma senza fini di lucro [1]. A fronte della narrazione secondo cui l’attuale contesto socio-economico e le profonde trasformazioni che lo attraversano abbia per ricaduta comportato un ripensamento del sistema di welfare pubblico, sulla considerazione che esso fosse sempre più inadeguato ad assicurare un sufficiente livello di copertura ed intensità dei bisogni degli individui [2], si è venuto innescando un processo di ripensamento dei meccanismi di tutela, incentrato su suggestioni e concetti di tenore e sfumature diversi. Si è così ricorsi, soprattutto in dottrina, a concetti che fanno riferimento ad un welfare “misto”, “secondo welfare” [3] o, ancora, welfare “di comunità”. Espressioni, queste, che rimandano a loro volta ad un modello di società variamente declinabile [4], in cui l’erogazione dei servizi per la comunità ed il benessere degli individui (anche) lavoratori vengono assicurati attraverso l’intervento non solo del soggetto pubblico, ma anche di quelli privati, in base ad un approccio “a geometria variabile”, a seconda delle soluzioni (e combinazioni) scelte, (anche) in attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale [5]. In questa prospettiva, non sfugge che il c.d. Terzo Settore [6] possa rivestire un ruolo fondamentale [7], in considerazione della sua ontologica “alterità” rispetto sia alla pubblica amministrazione [8] che all’iniziativa privata a scopo di lucro, essendo costituito da soggetti che pur avendo natura privatistica sono istituzionalmente [continua ..]
Sotto il profilo della dimensione “interna”, non c’è dubbio che gli Enti del Terzo Settore costituiscano terreno fertile per la realizzazione di forme di “benessere” aziendale, e ciò specie nel mondo dell’impresa sociale e della cooperazione [31], che vi sono naturalmente preordinate [32] per le proprie particolari caratteristiche strutturali ed organizzative e per il coinvolgimento dei soci-lavoratori negli organi istituzionali e di amministrazione [33], come in qualche modo confermato, da ultimo, dalla previsione contenuta nell’art. 11 del d.lgs. n. 112/2017 di adeguate forme di coinvolgimento “dei lavoratori e degli utenti e di altri soggetti direttamente interessati alle loro attività” [34]. Gli Enti del Terzo Settore, quali datori di lavoro (privati), ben potranno realizzare piani di welfare negoziale e/o aziendale in favore dei propri lavoratori, “azionando” la relativa disciplina (fiscalmente agevolata) in materia; ciò, tuttavia, con l’accortezza di coordinarla, se e laddove necessario, con le peculiari regole in materia di rapporto di lavoro e (soprattutto) di retribuzione disposte dal d.lgs. n. 117/2017 (e, per l’impresa sociale, dal d.lgs. n. 112/2017), con riferimento a cui occorre verificare eventuali possibili “intrecci”. Al riguardo, rilevano soprattutto quelle previsioni che da un lato sanciscono il diritto per i lavoratori degli Enti del Terzo Settore ad un trattamento economico e normativo “non inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, di cui all’art. 51 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81” [35] e, dall’altro lato, vietano di remunerarli con “retribuzioni o compensi superiori del quaranta per cento rispetto a quelli previsti, per le medesime qualifiche” dagli stessi contratti collettivi di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015 [36]; ciò con l’ulteriore precisazione che in ciascun ente del Terzo Settore la differenza retributiva tra lavoratori dipendenti non può essere superiore al rapporto uno a otto, da calcolarsi sulla base della retribuzione annua lorda [37]. Tali disposizioni, volte a fissare una base di tutela (normativa e) retributiva minima – attraverso il riferimento al trattamento previsto dai contratti collettivi [continua ..]
Nella sua dimensione “esterna”, il rapporto tra il Terzo Settore e il “benessere” aziendale è strettamente connesso al ruolo che gli enti possono avere nell’organizzazione di un’offerta di servizi di welfare destinata ad altri soggetti (profit e non) e quali erogatori delle relative prestazioni [51]. Negli ultimi anni si è venuto sviluppando un vero e proprio mercato in materia di welfare aziendale e di servizi a suo supporto, giovane ma dalle caratteristiche sempre più definite, in cui operano soggetti dalle caratteristiche e dalle offerte diverse; e, in questo quadro, non sfugge come gli Enti del Terzo Settore abbiano non trascurabili opportunità, grazie alla loro capacità – derivatagli dalla loro natura, dalla loro cultura istituzionale, dal bagaglio di professionalità e di esperienze acquisite sul campo – “di offrire risposte articolate e coerenti a quel ventaglio di necessità che è contemporaneamente espresso dalle imprese [...], dai lavoratori [...] e dai territori (nel sinergico possibile incastro tra interventi di welfare pubblico e servizi di welfare occupazionale)”. Inoltre, sotto altro ma connesso profilo, il radicamento sul territorio di tali enti permetterebbe loro di essere gli interlocutori privilegiati delle “imprese più piccole e più strettamente legate al tessuto economico e sociale locale” [52]. Dunque, gli Enti del Terzo Settore possono intensificare ed allargare il proprio ambito di operatività, pur dovendo misurarsi con i soggetti for profit, con tutto ciò che ne consegue sotto il profilo della questione – da sempre nevralgica per tali tipologie di enti – della realizzazione di un “giusto” equilibrio tra il soddisfacimento delle esigenze di efficienza e competitività, necessarie per operare sul mercato, ed il perseguimento di finalità solidaristiche e mutualistiche. Da questo punto di vista, invero, la valorizzazione degli Enti del Terzo Settore operata in vario modo dal legislatore, anche attraverso il riconoscimento di vantaggi economici (contributivi e fiscali) tali da poter “comprimere” il costo finale dei servizi offerti [53], deve tuttavia fare i conti con la non trascurabile concorrenza di una costellazione sempre più folta di imprese [54], che [continua ..]
Nel quadro delineato, è chiaro che il Terzo Settore sia naturalmente preordinato a svolgere un ruolo di primo piano nell’erogazione di benessere aziendale per i propri lavoratori e per quelli di altri datori di lavoro, avendo caratteristiche tali non solo da favorire la predisposizione di piani di welfare ma, al contempo, di sfruttarne al meglio le potenzialità, specie sotto il profilo della capacità di diversificare e personalizzare le risposte ai bisogni, che si presentano sempre più articolati sia nella tipologia che nella intensità [62]; con ciò venendosi a creare le basi per un circuito “virtuoso” tra il soggetto (ente del Terzo Settore) e l’oggetto – rectius, lo strumento – (welfare privato) le cui implicazioni sono maggiori di quanto potrebbe sembrare prima facie. È poi altrettanto chiaro che, sempre per le proprie caratteristiche genetiche, sia il Terzo Settore così come, per altro verso, le esperienze di welfare privato (aziendale), siano da considerarsi tasselli di uno scenario più ampio, in cui, nell’ottica di una (corretta) applicazione dei principi di solidarietà sociale e di sussidiarietà, nella sua declinazione sia verticale che orizzontale, può intessersi un dialogo sempre più strutturato tra il soggetto pubblico, a livello nazionale e locale, e gli attori socio-economici del territorio (sindacati, associazioni datoriali, non profit) in modo da favorire la promozione di reti multistakeholder [63]. Tuttavia, in considerazione della cornice giuridica (e costituzionale) in cui essi si collocano, che non permette di considerarli (e trattarli come) completamente alternativi al (o quantomeno sostitutivi del) welfare statale pubblico nella soddisfazione di interessi primari, vi è la necessità logica, prima ancora che giuridica, di sottoporre le relative discipline ad un attento vaglio onde verificarne il rispetto dei canoni di ragionevolezza e non discriminazione nonché, più in generale, dei principi costituzionali che si prefiggono di attuare. A tal proposito, in un’ottica di sistema, lo sviluppo del secondo welfare rischia di costituire un fattore di criticità e di concorrenza pregiudizievole rispetto agli equilibri dello stato sociale, già resi [continua ..]