Il saggio si pone l’obiettivo di riflettere in senso critico sul processo di riforma del lavoro pubblico per tentare di comprendere i possibili interventi normativi in grado di fornire risposte adeguate alle problematicità riscontrate, non escludendo anche possibili scelte radicali per le attività di erogazione di servizi. L’enunciato obiettivo involge la preliminare analisi dell’evoluzione della disciplina normativa del lavoro pubblico contrattualizzato dalla legge delega n. 421/1992 alla legge di Bilancio 2020, per poi soffermarsi sui nodi irrisolti del sistema in cui lo scenario prettamente giuslavoristico è analizzato nel contesto dell’esercizio dell’attività amministrativa.
The Essay aims at critically reflecting on the public sector employment reform process, in order to envision the possible law amendments capable of granting adequate solutions to the ascertained issues, without excluding radical choices in matter of service supply activities. The mentioned goal implies the preliminary analysis of the “privatized” public sector employment law framework, from delegation Act n. 421/1992 to 2020 Budget Act. Thereafter, the A. focuses on the unsolved tangles of the system, where the labour law scenario is analyzed in the context of the exercise of public activity.
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1. Note introduttive: la difficile convivenza tra norme di diritto privato e di diritto pubblico nel lavoro pubblico contrattualizzato - 2. Gli interventi normativi in materia di lavoro pubblico: dalla legge delega n. 421/1992 alla legge di Bilancio 2020 - 3. Punti fermi e nodi irrisolti desumibili dalla disciplina vigente - 4. Spunti per il legislatore tra metodo e merito - 5. Considerazioni finali. Uno sguardo al di là dell’orizzonte visibile - NOTE
Lo scritto è destinato ad aprire il fascicolo di questa Rivista dedicato al lavoro pubblico contrattualizzato, premessa che consente di comprendere meglio il riferimento alla percezione dell’eterno incompiuto evocato nel titolo e che sintetizza il pensiero di fondo di chi scrive [1]. Un profondo senso di incompiutezza permea il processo riformatore della disciplina del lavoro pubblico in perenne divenire, da ultimo volto più a rincorrere alcune esigenze contingenti, anche a scopi di consenso politico-elettorale, che non a tracciare con decisione e rigore la via per addivenire ad un approdo sicuro, sì da lasciare aperte ed irrisolte molteplici questioni. Ha preso forma l’idea di un cantiere “sempre aperto”, locuzione poi mutuata anche per il settore privato al fine di descrivere i continui interventi di riforma nella materia del lavoro [2]. Sono trascorsi oltre due decenni da quel lontano 1992 momento dal quale il legislatore ha dato avvio, con la legge delega n. 421/1992, al processo di riforma del lavoro pubblico convinto di addivenire ad una disciplina tendenzialmente uniforme del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici e privati [3]. Nel tempo la certezza si è affievolita, i numerosi rimaneggiamenti legislativi si sono susseguiti senza mai riuscire a definire l’azione riformatrice; a partire dai primi anni di questo millennio si è assistito ad un progressivo allontanamento da quella premessa, con una crescente accentuazione dei profili di specialità nella regolamentazione del lavoro pubblico. Non è mai stata posta in discussione la natura contrattuale del rapporto di lavoro, instaurato con un contratto individuale all’esito di una procedura concorsuale pubblicistica. Vi sono stati, però, da un lato, il progressivo richiamo al rispetto di principi di matrice pubblicistica, non limitati alla naturale sfera di esercizio della funzione pubblica, ma estesi anche alla disciplina del rapporto di lavoro (si pensi, primi fra tutti a quelli dettati dal codice di comportamento dei dipendenti pubblici); dall’altro lato, la definizione di regole puntuali d’azione anche per quanto concerne la gestione del rapporto di lavoro in una prospettiva opposta rispetto al patrimonio naturale del diritto del lavoro privato (e in questo caso si pensi alla sostanziale obbligatorietà d’esercizio del potere disciplinare [4]). Peraltro [continua ..]
Dall’avvio del processo di contrattualizzazione del lavoro pubblico ad oggi vi sono state almeno quattro riforme organiche (o almeno definite come tali), affiancate da alcuni non meno rilevanti interventi settoriali. Ma procediamo con ordine ricostruendo l’evoluzione. I. In una prima fase (1992-1993) – che segue due importanti riforme del 1990, la legge n. 142/1990 sull’ordinamento delle Autonomie Locali e la legge n. 146/1990 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali – con il d.lgs. n. 29/1993 (ed i successivi decreti correttivi n. 470 e 546 del 1993), attuativi della legge delega n. 421/1992, si è fatta transitare la disciplina del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti dall’ambito pubblicistico a quello privatistico, partendo da una rilettura della riserva di legge contenuta nell’art. 97 della Costituzione e con il faro dato dalla cogente necessità di riduzione dei costi della macchina pubblica. Alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei dipendenti si è unita la riaffermazione del principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione (già presentein nucenel sistema pubblicistico di cui al d.P.R. n. 748/1972, ma qui sviluppato e ricondotto in un contesto privatistico) [7]. II. Ne è seguita una seconda fase (1997-1998) – nota come Riforma Bassanini, avvenuta a Costituzione invariata nel più ampio progetto di federalismo amministrativo – attuata con i decreti legislativi nn. 396/1997, 80/1998 e 387/1998. Con tali provvedimenti si prendeva atto di alcune criticità emerse dall’applicazione delle norme approvate nella prima fase, segnatamente la difficoltà di tracciare una linea netta tra un’organizzazione rimasta pubblica ed un rapporto contrattualizzato e si alzava l’asticella della “privatizzazione” fino alla c.d. micro-organizzazione, con un contestuale ampliamento dell’ambito di esplicazione della contrattazione collettiva. In questa fase si completava la contrattualizzazione del rapporto di lavoro dell’intera dirigenza, includendo nell’alveo del regime privatistico anche quella generale[8]. Per tutti i dirigenti di ruolo veniva poi introdotta la scissione tra contratto di assunzione a tempo indeterminato ed incarico a termine, elemento di specialità del rapporto di lavoro dirigenziale e da leggere con la finalità di rafforzare il principio [continua ..]
Dalla ricostruzione dell’evoluzione legislativa fin qui compiuta emergono due punti fermi, mai posti in discussione: il principio di distinzione funzionale tra politica ed amministrazione e la natura contrattuale del rapporto di lavoro. L’estensione del ruolo regolativo della legge e della competenza gestionale unilaterale della dirigenza non hanno inciso né sulla differenziazione formale dei ruoli tra vertici politici e burocrazia, né sulla qualificazione del dipendente pubblico quale debitore di una prestazione lavorativa tenuto in via diretta all’adempimento del contratto di lavoro. La conferma della “pietra angolare” della contrattualizzazione, ovvero l’instaurazione del rapporto di lavoro con la sottoscrizione di un contratto individuale di lavoro, all’esito di una procedura concorsuale pubblicistica, comporta l’erroneità di ogni riferimento ad una ripubblicizzazione del rapporto (talvolta definita “strisciante”). Un riferimento che è, dunque, errato e confonde due concetti tra loro significativamente diversi: quello di rapporto di lavoro a disciplina speciale (qual è il rapporto dei pubblici dipendenti contrattualizzati), fermamente ancorato, pur in presenza di una specialità di disciplina, all’egida privatistica, e quello di rapporto di lavoro speciale (qual è quello dei pubblici dipendenti non contrattualizzati), con un interesse pubblico che qualifica in termini pubblicistici ogni azione, anche di gestione del rapporto di lavoro [29]. Non è stato neppure messo in discussione dal legislatore il ruolo del giudice ordinario quale giudice delle controversie di lavoro, a dispetto di alcune vivaci critiche relative al suo operato, ritenuto talvolta non in linea con le specificità del datore pubblica amministrazione. Tali critiche colgono in parte nel segno, con alcune pronunce che non hanno recepito le peculiarità del lavoro pubblico in materia di relazioni sindacali (soprattutto con riferimento alla competenza della contrattazione e ai rapporti tra i livelli contrattuali) e, per il rapporto individuale, in tema di mansioni, di incompatibilità e di tipologie contrattuale flessibili. Ma proprio la giurisdizione ordinaria ha rappresentato il baluardo a difesa della contrattualizzazione, come preconizzato molti anni fa da Massimo D’Antona che riteneva imprescindibile il definitivo passaggio di [continua ..]
Se l’individuazione delle problematicità è più semplice della determinazione delle soluzioni, si deve ugualmente tentare di suggerire alcuni percorsi di intervento, con riflessioni rivolte alla disciplina del personale che si intrecciano con considerazioni concernenti le misure di carattere organizzativo-funzionale, attesa l’impossibilità di recidere con un taglio netto i due ambiti. Sul piano del metodo non devono essere ripetuti gli errori delle ultime legislature, con governi che sono intervenuti sempre sui medesimi problemi, senza aver tuttavia preliminarmente chiarito la necessità delle modifiche da apportare alla precedente disciplina. Ogni riforma richiede tempo per divenire adeguatamente operativa e se sul piano mediatico può essere “utile” invocare l’introduzione di riforme epocali, sul piano concreto è senza dubbio più vantaggioso applicare e far applicare le leggi esistenti o limitarsi a novellare quelle norme che hanno presentato delle criticità acclarate. Se ogni maggioranza di governo è indiscutibilmente legittimata a portare avanti le proprie istanze, non può essere sottovalutata l’esigenza di garantire continuità all’azione amministrativa, senza modificare continuamente i punti di riferimento, anche con l’effetto di destabilizzare l’attività del personale pubblico. Altrimenti il rischio, più che tangibile, è il gattopardesco cambiare tutto per non cambiare nulla. Sul piano dei contenuti, ovvero del che cosa si potrebbe fare, occorre partire da alcuni punti che sono da tutti condivisi, anche da chi scrive. È indiscusso che la pubblica amministrazione nel corso degli ultimi anni sia stata chiamata a svolgere compiti sempre nuovi e con tempi sempre più rapidi [43]. È del pari indiscusso che non esiste l’amministrazione pubblica, ma esistono le amministrazioni pubbliche, chiamate a curare interessi vari e caratterizzate da quella che viene definita una “geometria gestionale variabile”, con un pluralismo di missioni, di assetto organizzativo e di modelli relazionali [44]. È, infine, indiscusso il ritardo con cui la pubblica amministrazione si è avvicinata alle nuove tecnologie, in molti casi imprescindibili per quella celerità d’azione richiesta dal contesto, preoccupandosi [continua ..]
Affinché l’eterno incompiuto divenga il presente compiuto occorre senza dubbio un’azione di restyling della disciplina vigente, al fine di superare alcune aporie normative e di rendere effettive le condizioni per l’attuazione delle riforme. Occorre guardare al di là della contingenza del momento con l’umiltà di volgere lo sguardo anche al passato per recuperare esperienze ed idee utili per il futuro. Si tratta di ristrutturare, non di demolire per ricostruire, anche perché questa seconda soluzione non sarebbe possibile; si tratta di costruire ponti tra i vari ambiti, seguendo l’insegnamento di Massimo D’Antona, per evitare che si creino grattacieli su isole non comunicanti. La semplificazione normativa si deve affiancare ad un abbandono della logica sanzionatoria a favore di quella promozionale, al pari di quanto avviene nel privato. Si tratta di accattivarsi valide risorse e non spaventarle, così da allontanarle dall’impiego pubblico, con oneri e vincoli eccessivi. Se quello fin qui descritto è l’orizzonte visibile, vi può essere anche la sfida dell’orizzonte oggi non ancora percepito, ovvero la definizione per tutti i soggetti erogatori di servizi (pubblici e privati) di regole comuni per la disciplina del rapporto di lavoro del personale impiegato. La diversa finalità d’azione delle amministrazioni pubbliche rispetto agli enti privati non può essere di impedimento alla creazione di un nocciolo comune di regole; e questo non secondo una logica di apertura indiscriminata del pubblico al privato, ma al contrario proprio per permettere al pubblico di svolgere al meglio le proprie funzioni senza dover subire alcuni vincoli gestionali che nel privato non ci sono [59]. Si tratta di una possibile sfida, non banale, fermo restando l’esigenza di un arretramento del protagonismo normativo in un contesto in cui si abbandoni la ricerca ossessiva della legittimità dell’azione. Il pensiero insistente della creazione di un’amministrazione ideale, solo in apparenza legata ai canoni gestionali propri del privato, contribuisce ad incrementare inefficienza, inerzia ed irresponsabilità, con uno scollamento tra il diritto della legalità e il diritto all’efficienza.