Il saggio analizza, anche in chiave comparata, la disciplina del reddito di cittadinanza alla luce delle finalità ad esso sottese, in particolare rispetto all’obiettivo di contrasto alla povertà e all’emarginazione sociale. A tal fine, l’autrice si concentra sui criteri di accesso alla misura, evidenziando una certa discrasia tra gli scopi perseguiti dal legislatore e la loro realizzazione, che finisce per escludere o penalizzare categorie di soggetti particolarmente fragili (in particolare, alcune categorie di stranieri, le persone senza fissa dimora e le famiglie numerose). Le considerazioni svolte inducono quindi a ritenere che il tratto caratterizzante l’istituto sia quello lavorista, che deriva vuoi dalla sua qualificazione in termini di politica attiva, vuoi dalla rigida declinazione del principio di condizionalità. La funzionalizzazione del reddito al reinserimento lavorativo sembra, però, indebolita dall’attuale inefficienza dei centri per l’impiego (ai quali è demandata la gestione della misura) e dai ritardi nell’implementazione del sistema che dovrebbe accompagnare l’erogazione del beneficio.
The essay analyses, also in a comparative key, the Italian discipline of the guaranteed minimum income (so called “reddito di cittadinanza”) in the light of the purposes pursued by this measure. In this perspective, it focuses on the conditions for accessing the minimum income, finding a gap between the aims pursued by the legislator and their realization, which ends up excluding or penalizing particularly fragile categories of subjects (in particular, some categories of foreigners, homeless and large families). This leads to recognize the distinctive feature of the Italian measure in the “workfare approach” which derives both from the qualification in terms of active labour-market policy and from the rigid declination of the principle of conditionality. However, the dependence of the minimum income on reintegration into work seems to be weakened by the current inefficiency of the job centres and by the delays in the implementation of the system that should govern this benefit.
Keywords: guaranteed minimum income – minimum wage – poverty – principle of conditionality – means test.
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1. Introduzione al tema - 2. I beneficiari del reddito di cittadinanza tra esigenze di tutela e vincoli di sostenibilità economica: i limiti di accesso per gli stranieri provenienti da paesi terzi alla luce del diritto europeo - 3. La questione della possibile discriminatorietà della certificazione di cui all’art. 2, comma 1-bis, d.l. n. 4/2019, nei confronti degli stranieri provenienti da paesi terzi - 4. Il criterio della residenza pluriennale e l’esclusione delle persone senza fissa dimora - 5. Un ulteriore profilo problematico legato ai requisiti oggettivi di accesso al reddito: la scala di equivalenza e la penalizzazione delle famiglie numerose - 6. La condizionalità e il rapporto con la tutela contro la disoccupazione - 7. Il lavoro povero nel dibattito de jure condendo: salario minimo legale e possibili interferenze con il reddito di cittadinanza - 8. Osservazioni conclusive - NOTE
Il d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, conv. con modif. dalla legge 28 marzo 2019, n. 26 introduce e disciplina il reddito di cittadinanza. Si tratta di una misura di politica attiva e di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, soggetta alla prova dei mezzi e caratterizzata da un elevato grado di condizionalità. La trama del decreto è infatti arricchita dalla posizione di diversi obblighi in capo al beneficiario della misura perché si attivi e partecipi a percorsi di (re)inserimento nel mercato del lavoro e di (ri)qualificazione professionale o, se ciò non è possibile, sia coinvolto in progetti finalizzati all’inclusione sociale. Al di là delle suggestioni che la denominazione dell’istituto evoca, non vi è dubbio che il d.l. n. 4/2019, conv. con modif. dalla legge n. 26/2019, sia ben lontano dall’idea di basic income [1], ponendosi piuttosto in linea di continuità con il precedente d.lgs. n. 147/2017, istitutivo del Reddito di inclusione (Rei). Prima dell’avvento nell’ordinamento italiano di una forma di reddito minimo garantito, il dibattito giuslavoristico si è concentrato sulla questione della sua doverosità sul piano del diritto europeo e dell’ordinamento costituzionale [2]. Sotto il primo profilo si è ritenuto di poter valorizzare il disposto dell’art. 34, comma 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea [3], insieme con il più recente Pilastro europeo dei diritti sociali [4], i quali, sulla base di un approccio integrato tra sostegno economico e servizi, hanno contribuito a conformare le principali esperienze di reddito minimo introdotte dagli Stati membri. Sotto il secondo profilo, mentre è tuttora problematica la conciliabilità tra anima lavorista della Costituzione, risorse finanziarie e reddito di base, non sembrano invece esserci più obiezioni rispetto ad una misura caratterizzata da universalismo selettivo e prova dei mezzi [5]. Ciò premesso, è tuttavia evidente come il tema della conformità con le fonti primarie di diritto interno e sovranazionale si ponga oggi in modo del tutto differente e richieda non tanto di valutare, in una prospettiva de jure condendo, la compatibilità di uno schema astratto di reddito minimo, quanto di verificare la ragionevolezza e la proporzionalità di precise [continua ..]
In questa prospettiva, se è vero che, rispetto all’obiettivo di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale, l’efficacia di una misura di reddito minimo dipende – oltre che dalla sua generosità – anche dall’ampiezza dei potenziali beneficiari [6], per rispondere all’interrogativo proposto sembra anzitutto opportuno soffermarsi sui criteri di accesso al reddito di cittadinanza. In proposito, viene in rilievo l’art. 2, comma 1, lett. a), d.l. n. 4/2019, che subordina il riconoscimento del beneficio economico al possesso di precisi requisiti di cittadinanza, residenza e soggiorno. Il componente del nucleo familiare che richiede il reddito di cittadinanza, infatti, oltre a dover risiedere in Italia da almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, deve essere altresì cittadino italiano o dell’Unione europea (o suo familiare che sia titolare del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente) ovvero cittadino di Paesi terzi in possesso del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo. Sotto questo profilo, dunque, la norma si pone in linea di continuità con quanto previsto dall’art. 3, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 147/2017 del quale, tuttavia, non solo ripropone in modo pressoché analogo il contenuto, ma anche talune criticità. Uno degli aspetti in tal senso più controversi riguarda i presupposti per l’estensione della misura ai cittadini di Paesi terzi, che viene (ancora) subordinata al possesso – in via congiunta – del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e della residenza pluriennale. Sul punto, restano senz’altro valide le riflessioni svolte dalla dottrina in relazione alla previgente normativa che, come si è detto, fissava criteri di accesso sostanzialmente analoghi a quelli ora previsti dal d.l. n. 4/2019. Mentre il criterio della residenza c.d. qualificata risulta qui correttamente applicato alla luce della giurisprudenza costituzionale ed europea, essendo indifferentemente richiesto per i cittadini e per gli stranieri, restano invece condivisibili le perplessità sulla mancata inclusione, tra i beneficiari della misura, dei titolari del c.d. permesso unico di cui alla direttiva n. 2011/98/CE. Se, infatti, la richiesta del permesso di soggiorno di lungo periodo costituisce, in senso lato, l’equivalente funzionale [continua ..]
La disciplina sull’accesso degli stranieri provenienti da paesi terzi al reddito di cittadinanza solleva nuovi dubbi appena ci si spinga oltre la previsione dell’art. 2, comma 1, lett. a). Tale disposizione deve infatti essere letta in combinato disposto con il successivo comma 1-bis (aggiunto in sede di conversione), che, con specifico riferimento ai requisiti reddituali e patrimoniali di cui al comma 1, lett. b), del medesimo articolo richiede ai cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea, ai fini dell’accoglimento della domanda e per comprovare la composizione del nucleo familiare, di produrre un’apposita certificazione “rilasciata dalla competente autorità dello Stato estero, tradotta in lingua italiana e legalizzata dall’autorità consolare italiana”. Ciò a meno che lo straniero non sia un rifugiato politico; ovvero convenzioni internazionali dispongano diversamente; o, ancora, si tratti di cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea nei quali sia oggettivamente impossibile acquisire l’anzidetta certificazione (la cui individuazione è rimessa ad un decreto ministeriale, da adottarsi entro tre mesi dall’entrata in vigore della legge n. 26/2019) [19]. L’estensione del reddito di cittadinanza agli stranieri provenienti da paesi terzi risulta, quindi, subordinata ad un triplice requisito: quello della residenza pluriennale, del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e della certificazione ex art. 2, comma 1-bis. L’impressione è che la combinazione dei tre criteri finisca per rendere eccessivamente gravoso l’accesso al reddito per gli stranieri provenienti da paesi terzi. Se così fosse, la norma, introducendo una disparità di trattamento basata sulla nazionalità, si esporrebbe a diverse censure. Essa contrasterebbe infatti, sul piano del diritto interno, con l’art. 2 Cost., posto a garanzia dei diritti fondamentali dell’uomo, e con l’art. 3 Cost., che sancisce il principio della pari dignità sociale e dell’uguaglianza sostanziale; ma anche (e conseguentemente) con il divieto sancito dall’art. 43, comma 1, d.lgs. n. 286/1998, ai sensi del quale “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata su […] [continua ..]
Accanto al problematico accesso alla misura per gli stranieri provenienti da paesi terzi, è possibile individuare almeno un altro profilo di rilievo, che rende la disciplina sul reddito di cittadinanza difficilmente conciliabile con l’obiettivo di contrastare la povertà e l’esclusione sociale. Se, da una parte, la scelta di limitare l’ingresso a tale misura è motivata da (legittime) esigenze di sostenibilità economica delle misure sociali e di contenimento della spesa pubblica, dall’altro, la mancata coerenza tra gli obiettivi perseguiti e la loro modalità di realizzazione rischia di compromettere l’effettività dell’istituto stesso, risolvendosi nella lotta ad una “povertà dimezzata”, dalla quale restano, cioè, escluse le persone più bisognose e vulnerabili. Il che si rivela quasi paradossale, se si considera che l’obiettivo del reddito di cittadinanza è quello di contrastare la povertà assoluta, attraverso il coinvolgimento di un maggior numero di soggetti che si trovano, invece, in condizioni di povertà relativa [22]. È, dunque, in tale prospettiva che il requisito della residenza pluriennale può dirsi problematico, poiché pare precludere l’inclusione, tra i beneficiari del reddito, delle persone senza fissa dimora, ossia di tutti quei soggetti in condizioni di grave deprivazione economica e sociale che, non potendo dichiarare un domicilio abituale, sono privi di iscrizione anagrafica [23]. Per vero, la scelta di ancorare l’accesso al reddito minimo al criterio della residenza è tendenzialmente in linea con quanto previsto a livello europeo, in cui spesso tale requisito è combinato a criteri di tipo anagrafico. Un’eccezione in tal senso è rappresentata dalla Gran Bretagna, in cui per accedere al c.d. Universal Credit – introdotto in via sperimentale nel 2013, con l’obiettivo di diventare una misura strutturale entro il 2021 – è sufficiente vivere nel paese. Come si è detto, ciò che desta perplessità rispetto alla scelta del legislatore italiano non è il requisito della residenza in sé, quanto la coerenza di esso rispetto alla ratio dell’intervento. Così si spiegano, dunque, i diversi tentativi di allargare le maglie della disposizione, ricorrendo al concetto della [continua ..]
Ma anche rispetto ai requisiti reddituali e patrimoniali è dato registrare qualche incongruenza rispetto alle finalità poste dal decreto. Come già il Rei, anche il reddito di cittadinanza viene ancorato al nucleo familiare, che include i soggetti componenti la famiglia anagrafica, ai sensi dell’art. 3, d.P.R. n. 159/2013. Sotto questo profilo, la scelta operata dal legislatore italiano pare in controtendenza rispetto alle principali esperienze europee. Quasi ovunque, infatti, pur se rivolte a tutta la famiglia, le misure di reddito minimo richiedono l’accesso individuale, ancorando la valutazione dello stato di bisogno alle caratteristiche del soggetto richiedente [30]. I requisiti reddituali e patrimoniali che il nucleo familiare deve integrare per accedere al reddito di cittadinanza sono dettati dall’art. 2, comma 1, lett. b), d.l. n. 4/2019. A tal fine, è richiesto un valore dell’Indicatore della situazione economica equivalente inferiore a 9.360 euro; un valore del patrimonio immobiliare, in Italia e all’estero, come definito ai fini ISEE, diverso dalla casa di abitazione, non superiore ad una soglia di euro 30.000; un valore mobiliare, come definito ai fini ISEE, non superiore ad una soglia di euro 6.000, accresciuta in ragione del numero di componenti il nucleo familiare, della presenza di figli e di disabili; nonché un valore del reddito familiare inferiore ad una soglia di 6.000 euro annui, moltiplicata per il corrispondente parametro della scala di equivalenza di cui all’art. 2, comma 4, e incrementata ad euro 9.360 nei casi in cui il nucleo familiare non abiti in una casa di proprietà. A ciò si aggiungono le limitazioni previste dall’art. 2, comma 1, lett. c), in relazione al godimento di beni durevoli. Come è stato osservato, l’ISEE, che rappresenta uno strumento di politica sociale del nostro Paese, configura solo uno sbarramento iniziale, dal momento che l’accesso al reddito dipende dalla componente reddituale [31]. Se è dunque vero che l’aggiunta di tale componente costituisce un elemento di sicuro rilievo, perché consente una differenziazione del beneficio in ragione dell’effettivo livello di reddito (e quindi anche di bisogno) della famiglia, l’analisi dei requisiti posti dal d.l. n. 4/2019 denota – ancora una volta – l’incerta coerenza della misura rispetto [continua ..]
L’analisi degli “esclusi” dal reddito di cittadinanza sembra confermare la gracilità della misura rispetto all’obiettivo di contrasto alla povertà e di lotta all’esclusione sociale, avvalorando – almeno in linea teorica – l’idea che la vera cifra caratterizzante l’istituto risieda piuttosto nella sua anima lavorista. Acquista, perciò, una certa rilevanza la qualificazione del reddito in termini di politica attiva del lavoro, da cui deriva l’elevata condizionalità che accompagna la misura. Con essa il legislatore ripropone quell’approccio integrato tra sussidio economico e servizi, tipico del modello sociale europeo, che da tempo connota l’erogazione delle prestazioni di sostegno al reddito e, più in generale, la legislazione in materia di politiche attive del lavoro [33]. In questo, l’Italia partecipa delle tendenze in atto nei principali Paesi dell’Unione europea, ove pure si registra l’irrigidimento della condizionalità all’inserimento lavorativo e il potenziamento, in una prospettiva di workfare, delle misure di sostegno economico, che vengono quindi preferibilmente destinate ai poveri privi di occupazione in un’ottica di corrispettività (diritto-dovere), peraltro insita nello stesso art. 4 Cost. Questo, in sostanza, sulla base della convinzione che lo strumento più idoneo per uscire dallo stato di povertà e restituire dignità alle persone resti comunque il lavoro [34]. Il che non solo spiega la ratio dei meccanismi di attivazione propri di tali politiche, alle quali guardano peraltro con favore le istituzioni europee, ma pare anche coerente con il principio di responsabilizzazione del lavoratore, già in qualche modo ricavabile dall’art. 38, comma 2, Cost., che tutela infatti solo i casi di disoccupazione involontaria. E tuttavia non si può fare a meno di rilevare come tale impostazione si riveli davvero poco appagante, poiché il diritto-dovere al lavoro non può “dirsi soddisfatto dalle logiche del workfare che obbligano, in cambio di un sussidio, ad accettare qualsiasi lavoro, pena la decadenza dal beneficio al reddito” [35], rendendo così di fatto poco rilevante il valore della professionalità [36]. Si tratta, per vero, di un approccio mutuato dall’ordinamento francese, che con [continua ..]
La funzione integrativa riconosciuta al reddito di cittadinanza sembra contrastare con l’anima lavorista che attraversa il d.l. n. 4/2019 poiché, almeno in parte, disattende l’idea del lavoro quale rimedio all’esclusione sociale e allo stato di bisogno. Si tratta, per vero, di una contraddizione in qualche modo imposta dall’attuale contesto occupazionale, in cui la spinta verso tipologie contrattuali più flessibili e la diffusione di attività a bassa qualificazione, spesso discontinue e scarsamente retribuite, accentuano la segmentazione del mercato e le disuguaglianze, pregiudicando sia la qualità dell’occupazione sia la stabilità e l’adeguatezza dei livelli di reddito. Ciò significa, in definitiva, che il lavoro di per sé non solo non basta ad escludere il rischio di povertà, ma di esso diviene concausa, allentandosi il nesso tra mancata occupazione e bisogno sociale ed economico [47]. Le maggiori difficoltà che i beneficiari del reddito di cittadinanza incontrano nell’accesso al mercato del lavoro, unitamente alle caratteristiche qualitative e retributive degli impieghi più facilmente reperibili, rischiano quindi di indebolire l’effettività della misura in termini di politica attiva e di rendere più appetibile la percezione del sussidio, innescando così meccanismi di dipendenza da esso. Tale conclusione è peraltro tanto più vera, se vagliata alla luce degli importi del reddito di cittadinanza. In particolare, confrontando la rata massima prevista per una persona singola, pari a 780 euro mensili – 858 euro, se aumentata del 10% ai fini dell’offerta congrua – con le retribuzioni effettivamente percepite ovvero con i minimi tabellari previsti dai contratti collettivi per lavoratori appartenenti a settori produttivi o a categorie professionali tradizionalmente vulnerabili [48], la distanza tra gli importi non è significativa. Di qui l’effetto potenzialmente disincentivante della misura che, assottigliando il confine tra il reddito da lavoro e quello derivante dalla percezione del sussidio, attenua l’urgenza di ricercare un impiego per affrancarsi dallo stato di bisogno. Ciò, naturalmente, senza considerare l’incidenza del lavoro sommerso, che allontana dal lavoro regolare sia i lavoratori già poveri, sia e a maggior ragione gli [continua ..]
Il reddito di cittadinanza introdotto dall’ordinamento italiano con il d.l. n. 4/2019 è affine, quantomeno nel suo impianto, alle principali esperienze europee. Di queste sembra infatti condividere scelte e confermare taluni sviluppi, specie con riguardo alla condizionalità e alla tendenza diffusa, che emerge dalla sempre più frequente combinazione tra misure assicurative e assistenziali, verso sistemi integrati di reddito. Ma la conformità al contesto sovranazionale è un dato relativo e di per sé neutro, poiché nulla dice sulla reale capacità dell’istituto di raggiungere gli obiettivi ad esso sottesi ed espressamente dichiarati all’art. 1, d.l. n. 4/2019. L’effettività del disegno teorico tratteggiato nel decreto dipende, piuttosto, dalle caratteristiche del sistema nel quale le regole e i principi sono destinati a trovare applicazione. Sotto questo profilo, di nuovo, l’accento deve essere posto sulla condizionalità, quale elemento che caratterizza l’intero impianto del d.l. n. 4/2019 e giustifica la qualificazione del reddito di cittadinanza in termini di politica attiva. Sullo sfondo, lo si è detto in precedenza, l’idea del lavoro come strumento di riabilitazione sociale e antidoto alla c.d. trappola della povertà, tipicamente ricondotta a misure di assistenza passiva. La centralità riconosciuta al lavoro spiega, dunque, la scelta di rimettere la gestione della misura ai centri per l’impiego, ai quali, accanto alla funzione tradizionale di reinserimento nel mercato dei disoccupati “standard”, il legislatore affida il compito di definire modalità personalizzate di inclusione e qualificazione professionale per soggetti in condizioni di povertà, siano essi disoccupati, inoccupati o lavoratori economicamente deboli. Si tratta di una novità significativa, se confrontata con il reddito di inclusione, ove tale ruolo di “regia territoriale”, in linea di continuità con i precedenti interventi legislativi di contrasto alla povertà e all’emarginazione, veniva attribuito ai servizi sociali dei Comuni (si pensi, in particolare, al Reddito minimo di inserimento, di cui al d.lgs. 18 giugno 1998, n. 237, e al Sostegno per l’inclusione attiva, di cui al d.l. 9 febbraio 2012, n. 5, conv. dalla legge 4 aprile 2012, n. 35, esteso poi a tutto il territorio [continua ..]