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La riduzione della povertà lavorativa nella direttiva sui salari minimi adeguati
Luca Ratti, Professore associato di Diritto del lavoro Europeo e comparato, Università del Lussemburgo
La direttiva sul salario minimo adeguato costituisce una tappa cruciale del processo di integrazione europea e si pone in netta controtendenza rispetto alle passate iniziative in campo sociale. Nel saggio sono evidenziati i tratti qualificanti della direttiva ed esaminate le possibili criticità con riguardo al suo impatto sulla povertà lavorativa.
The Adequate Minimum Wage Directive is a crucial step in the process of European integration and stands in stark contrast to past initiatives in the social field. The essay highlights the qualifying features of the directive and examines possible criticisms with regard to its impact on in-work poverty.
Keywords: Minim wage – EU directive – In-work poverty.
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Sommario:
1. Introduzione - 2. La cifra innovativa della direttiva sui salari minimi adeguati - 3. Il canone dell’adeguatezza - 4. La copertura della contrattazione collettiva - 5. Il lungo cammino dell’attuazione della direttiva e gli effetti sulla riduzione della povertà lavorativa - NOTE
1. Introduzione
L’adozione della direttiva europea sui salari minimi adeguati, nel testo risultante dalle negoziazioni fra Parlamento europeo e Consiglio svoltesi in seno al c.d. trilogo ed approvato dalla plenaria del Parlamento europeo nel settembre 2022, si fonda in buona parte su ragionamenti di causazione e correlazione che inducono ad interrogarsi circa il reale impatto delle soluzioni adottate rispetto ai problemi di partenza osservati. Come noto, si usa contrapporre la causazione – cioè il fatto che a una causa corrisponda direttamente una data conseguenza – alla correlazione, quest’ultima di norma ritenuta più probabile, per le molte variabili che caratterizzano i fenomeni sociali. All’interno dei nessi di causazione, la distinzione fra abduzione e induzione costituisce a sua volta un utile supporto alla comprensione di alcune disposizioni chiave della direttiva, in specie quelle che si prefiggono di ridurre la povertà lavorativa, fenomeno sempre più diffuso in Europa.
Nella famosa immagine dei fagioli bianchi, Charles S. Peirce definisce il processo logico dell’abduction come la formulazione di un’ipotesi a partire da una serie di dati di realtà, nel modo che segue: Tutti i fagioli in questo sacchetto sono bianchi; Questi fagioli sono bianchi; Quindi questi fagioli provengono da questo sacchetto. Versato nella logica aristotelica e nei dettagli delle indagini filosofiche, Peirce propone un’astrazione dell’immagine dei fagioli bianchi nei termini seguenti: Il fatto sorprendente, C, viene osservato; Ma se A fosse vero, C sarebbe un fatto ovvio; Quindi, c’è motivo di sospettare che A sia vero [1].
L’abduzione si distingue dunque dall’induzione in ciò, che la seconda si basa su un processo comparativo, essendo un confronto tra fatti omogenei, campioni di una certa classe, e da questo confronto consente di enunciare proprietà generali. In quanto processo logico non creativo, l’induzione si presta ad essere utilizzata nel ragionamento logico-giuridico applicato a fatti sociali. L’abduzione, invece, si basa su un singolo fatto, che a volte si presenta come un enigma, qualcosa di inspiegabile: a questo punto l’osservatore postula un’ipotesi, cioè cala nella realtà un’idea chiedendosi se può essere dimostrata [2].
La direttiva europea sui salari minimi adeguati ha certamente segnato un mutamento di prospettiva della c.d. Europa sociale, sia nel merito degli interventi proposti, sia nelle procedure adottate. Nel contesto del presente saggio, sarà esaminata la capacità della direttiva di raggiungere gli ambiziosi obiettivi annunciati nel documento di accompagnamento alla proposta di direttiva, detto di Impact assessment [3], obiettivi identificati nella necessità di aumentare i tassi di copertura della contrattazione collettiva, migliorare trasparenza ed effettività del salario minimo legale, e ridurre i livelli di povertà lavorativa. Tali obiettivi saranno confrontati con alcune premesse poste alla base della direttiva, che ne hanno determinato il drafting legislativo, con l’obiettivo di valutarne le potenzialità nel contrasto alla povertà lavorativa.
2. La cifra innovativa della direttiva sui salari minimi adeguati
L’approccio della direttiva sui salari minimi adeguati alla questione della povertà lavorativa è ben rappresentato nei relativi Considerando, laddove si fa riferimento al principio n. 6 del Pilastro Europeo dei diritti sociali. In maniera piuttosto sorprendente, data la limitata competenza normativa dell’Unione in materia, detto principio contempla anzitutto «il diritto dei lavoratori a una retribuzione equa che offra un tenore di vita dignitoso». Si traduce poi in un secondo corollario, incentrato sul diritto a «retribuzioni minime adeguate che soddisfino i bisogni del lavoratore e della sua famiglia in funzione delle condizioni economiche e sociali nazionali, salvaguardando nel contempo l’accesso al lavoro e gli incentivi alla ricerca di lavoro». E si conclude infine con un imperativo prospettico, più che un vero principio, per cui «la povertà lavorativa va prevenuta».
Il principio n. 6 del Pilastro viene concretizzato da una serie di considerazioni contenute nelle premesse della direttiva, che specialmente a seguito delle modifiche apportate dal c.d. trilogo, assumono uno specifico valore ermeneutico nella lettura del testo stesso della direttiva. Tramite tali premesse, la direttiva rende ora ancor più evidente che la fissazione dei salari minimi in maniera trasparente e prevedibile è funzionale a renderli adeguati a ridurre i livelli di povertà lavorativa.
Più nello specifico, i Considerando 6 e 7 rimarcano il ruolo dei salari minimi «nella protezione dei lavoratori a basso salario», che diventa «sempre più importante ed è essenziale per favorire una ripresa economica equilibrata, sostenibile e inclusiva». La prevenzione e riduzione delle diseguaglianze salariali e la promozione del progresso economico e sociale sono obiettivi espressi di un sistema di protezione basato sul salario minimo improntato alla sua più ampia diffusione e adeguatezza. La competizione nel mercato interno deve dunque basarsi su «elevati standard sociali, ivi compresa un’elevata protezione dei lavoratori, [e] la creazione di occupazione di qualità».
Il Considerando n. 8 sottolinea che se fissati a livelli adeguati, i salari minimi, determinati dalla legislazione nazionale o dai contratti collettivi, «proteggono il reddito dei lavoratori, in particolare quelli svantaggiati, contribuiscono a garantire una vita dignitosa come riconosciuto dalla Convenzione 131 dell’Organizzazione internazionale del lavoro sulla fissazione del salario minimo. I salari minimi che assicurano un tenore di vita dignitoso (…) possono contribuire alla riduzione della povertà a livello nazionale, possono contribuire a sostenere la domanda interna e il potere di acquisto, rafforzano gli incentivi al lavoro, riducono le disuguaglianze salariali, il divario di genere, e la povertà lavorativa, nonché limitano il calo del reddito nei periodi sfavorevoli».
Con riguardo al tema in esame, la vera novità rispetto alla proposta di direttiva presentata dalla Commissione europea nell’ottobre 2020 [4] è stata introdotta nel corso delle negoziazioni in seno al c.d. trilogo nel Considerando 9. Esso ricorda che «la povertà lavorativa nell’Unione è cresciuta nell’ultimo decennio e molti lavoratori sperimentano la povertà». Prosegue poi osservando che «durante le crisi economiche, il ruolo dei salari minimi adeguati nel proteggere i lavoratori a basso salario è particolarmente importante, essendo essi più vulnerabili rispetto alle conseguenze, ed è essenziale per supportare una ripresa economica sostenibile e inclusiva che porti ad un lavoro di maggiore qualità. Per assicurare una ripresa sostenibile, risulta vitale che le imprese, in particolare le micro e piccole imprese, prosperino». Il Considerando conclude rimarcando, anche alla luce degli effetti della pandemia da Covid-19, l’importanza di «verificare l’adeguatezza delle retribuzioni nei settori a basso salario che hanno dimostrato essere essenziali e di grande valore sociale durante la crisi».
Occorre infine menzionare il Considerando 11 incentrato sulle micro e piccole imprese, che sovente presentano un elevato numero di percettori di salario minimo, nonché lavoratori non stabili (part-time, stagionali, in somministrazione e tramite piattaforma). Data la difficoltà per tali soggetti di organizzarsi in sindacati e contrattare collettivamente, il Considerando 11 esprime la necessità di espandere la copertura dei contratti collettivi e assicurare la diffusione di salari minimi legali adeguati. Una certa correlazione fra la diffusione di contratti di lavoro non standard e l’aumento delle diseguaglianze e della povertà lavorativa è ulteriormente espressa nei Considerando 14 e 16. Ciò risulta particolarmente significativo alla luce della genesi e sviluppo delle direttive sul lavoro non standard, incentrate invece in primo luogo sulla promozione di tali forme contrattuali e sul principio di parità di trattamento quale unico limite alla diffusione del lavoro flessibile.
Si riflettono in queste considerazioni – in specie nel Considerando 9 – le più recenti prese di posizione delle istituzioni europee. È evidente, in particolare, l’influenza della Risoluzione del Parlamento europeo sulle diseguaglianze e la povertà lavorativa [5]. Il Parlamento ha esortato la Commissione e gli Stati membri ad agire contro la povertà lavorativa elaborando, tra l’altro, strumenti come i redditi minimi, i salari minimi e le pensioni minime, «promuovendo la contrattazione collettiva, rafforzando i servizi pubblici perché siano disponibili e accessibili, garantendo la parità di accesso all’istruzione, alla formazione e alla digitalizzazione, rafforzando la strategia europea contro la povertà, combattendo l’elusione fiscale, sviluppando politiche abitative ed elaborando strategie atte a garantire condizioni di lavoro e di occupazione dignitose nell’economia digitale» [6].
Anche grazie a tali esortazioni, gli enunciati contenuti nei Considerando della direttiva in esame – seppure di principio – dimostrano una piena consapevolezza nel legislatore europeo della funzione essenziale del salario minimo per ridurre le diseguaglianze, anche di genere, e i livelli di povertà lavorativa.
Sono due, in concreto, i pilastri fondamentali su cui si fonda la protezione introdotta dalla direttiva sui salari minimi adeguati: per un verso, l’adeguatezza dei salari minimi; per l’altro, la copertura della contrattazione collettiva. Non devono tuttavia sottostimarsi altre importanti disposizioni, tra cui la norma che limita variazioni e deduzioni dal salario minimo (art. 6), le misure di accesso dei lavoratori al salario minimo legale (art. 8), la garanzia che gli operatori economici rispettino i salari stabiliti dai contratti collettivi e i salari minimi legali, ove esistenti, nell’esecuzione degli appalti pubblici o dei contratti di concessione (art. 9), il diritto di ricorso e di protezione contro trattamenti o conseguenze sfavorevoli (art. 12), ed infine l’obbligo per gli Stati membri di prevedere sanzioni «effettive, proporzionate e dissuasive» per le violazioni delle disposizioni nazionali che stabiliscono la protezione del salario minimo (art. 13).
Molte di queste norme sono state esaminate dalla dottrina sulla base del testo provvisorio della direttiva [7]. Nel prosieguo saranno evidenziati aspetti ulteriori della sua interpretazione, nonché riportate le maggiori novità derivanti dall’approvazione definitiva della direttiva da parte del Consiglio nel giugno 2022.
3. Il canone dell’adeguatezza
Il canone dell’adeguatezza, contenuto nell’art. 5, è posto alla base dell’intero testo della direttiva e presenta alcuni tratti caratterizzanti che vale la pena ricordare.
Secondo la direttiva, una prima caratteristica del salario minimo adeguato è legata alla necessità di un suo costante aggiornamento ed alla sua determinazione in base a procedure trasparenti che coinvolgano in modo «tempestivo ed efficace» le parti sociali.
Una seconda caratteristica dell’adeguatezza è legata al suo rapporto con la generale situazione socio-economica nel singolo Stato membro. Il Considerando 29 chiarisce infatti che sono considerati adeguati i salari minimi che siano «equi rispetto alla distribuzione salariale del paese e se consentono un tenore di vita dignitoso. L’adeguatezza dei salari minimi legali è determinata tenendo conto delle condizioni socio-economiche nazionali, comprese la crescita dell’occupazione, la competitività e gli sviluppi regionali e settoriali. Nel rapportarsi alla distribuzione salariale, la direttiva si basa su un concetto di adeguatezza derivato dalle teorie della giustizia sociale, e in particolare dall’indice delle diseguaglianze detto di Kaitz, che fissa la soglia relativa di povertà al 60% del salario lordo mediano e il 50% del salario lordo medio. Secondo gli studi Eurofound, nonostante sensibili variazioni in Europa, nel 2018, il 23% dei lavoratori europei che percepivano un salario minimo ha dichiarato di avere difficoltà o grandi difficoltà ad arrivare a fine mese, rispetto all’11,5% del resto dei lavoratori dipendenti. Il 16% dei lavoratori a salario minimo viveva in famiglie materialmente disagiate, rispetto al 6% del resto dei lavoratori dipendenti. Inoltre, in base ai dati Eurostat, nell’UE circa il 16% dei dipendenti guadagna al di sotto della soglia del 60% del salario mediano, con picchi maggiori del 20% in alcuni Stati membri (Estonia, Germania, Lussemburgo e Spagna). Nell’ultimo decennio, la quota di lavoratori al di sotto di tale soglia è tendenzialmente diminuita. Tra i Paesi più popolosi, le riduzioni maggiori si registrano in Polonia (e in misura minore in Germania), mentre negli anni ancor più recenti una certa diminuzione è avvenuta solo in Francia e nel Regno Unito. In Italia e in Spagna si sono verificate espansioni significative del numero di coloro che percepiscono un salario minimo a causa dell’impatto della crisi finanziaria e della conseguente recessione sui lavoratori a bassa retribuzione [8].
Un terzo aspetto dell’adeguatezza è relativo alle possibili variazioni, deduzioni o trattenute che possano incidere sui livelli concreti di vita. Ne sono un esempio le trattenute che traducono in termini monetari i benefici in natura concessi al lavoratore: qualora esse siano preponderanti rispetto alla quantità di risorse liquide disponibili, il rischio è che al lavoratore manchi la disponibilità economica per rendersi indipendente dal lavoro che svolge, con la conseguenza che variazioni nella carriera lavorativa (riduzioni di orario, sospensioni, ecc.) determinano in via immediata l’esposizione alla povertà. Sul punto, non potendo la direttiva vietare tout court deduzioni e variazioni in ragione della limitata discrezionalità legata alla scelta dell’art. 153(3) come base giuridica, il testo dell’art. 6 si limita a chiarire che nessuna disposizione nella direttiva può portare a interpretarla come implicante un obbligo per gli Stati membri di introdurre deduzioni e variazioni o di autorizzare le parti sociali ad introdurle.
Un’ultima caratteristica dell’adeguatezza – particolarmente importante durante periodi in cui si registrano elevati tassi di inflazione – concerne l’indicizzazione dei salari minimi, prevista dall’art. 5, comma 5 ogni due anni, ovvero ogni quattro per gli Stati membri in cui vige un sistema automatico di adeguamento al costo della vita. Si osservano in proposito evidenti differenze fra i regimi automatici di indicizzazione dei salari minimi – taluni legati ai livelli di inflazione registrati (ad es. Lussemburgo), altri conseguenti alla crescita prevista nelle retribuzioni lorde mediane (ad es. Paesi Bassi) – nonché fra essi e sistemi non automatici di adeguamento (ad es. Francia e Germania).
Il cammino per giungere all’attuale testo dell’art. 5 è in realtà il portato di alcune importanti modifiche, introdotte su proposta del Parlamento europeo.
Mentre la versione originaria della direttiva recava indicazioni piuttosto generiche circa i criteri di adeguatezza dei salari minimi, il testo definitivo intitola anzitutto l’art. 5 alle procedure per stabilire salari minimi adeguati stabiliti per legge. Inoltre, il testo originario dell’art. 5 prevedeva che per i 21 Stati membri nei quali vige un salario minimo legale, si dovessero adottare «misure necessarie a garantire che la determinazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali siano basati su criteri stabiliti per promuovere l’adeguatezza al fine di conseguire condizioni di vita e di lavoro dignitose, coesione sociale e una convergenza verso l’alto», «conformemente alle rispettive prassi nazionali, nella pertinente legislazione nazionale, nelle decisioni degli organi competenti o in accordi tripartiti». La parte dispositiva dell’art. 5 faceva riferimento a criteri basati su elementi quali: «a) il potere d’acquisto dei salari minimi legali, tenuto conto del costo della vita e dell’incidenza delle imposte e delle prestazioni sociali; b) il livello generale dei salari lordi e la loro distribuzione; c) il tasso di crescita dei salari lordi; d) l’andamento della produttività del lavoro». La restante parte dell’art. 5 era tuttavia meramente esortativa, ed invitava gli Stati membri ad utilizzare «valori di riferimento indicativi, come quelli comunemente utilizzati a livello internazionale, per orientare la loro valutazione dell’adeguatezza dei salari minimi legali rispetto al livello generale dei salari lordi».
L’attuale testo dell’art. 5 reca importanti novità. Anzitutto esso si concentra sulle procedure che gli Stati membri sono obbligati ad adottare più che sull’adeguatezza salariale come risultato finale (art. 5, comma 1). In secondo luogo, viene reso esplicito che la produttività (criterio individuato dall’art. 5, comma 2, lett. d)) debba considerarsi come riferita al lungo periodo e ai livelli nazionali di riferimento. Il comma 3 introduce ex novo la facoltà per gli Stati membri di prevedere meccanismi di aggiustamento periodico del salario minimo legale sotto forma di indicizzazione, in base a criteri predeterminati e in accordo con le prassi nazionali. Infine, il comma 4 include nel corpo della direttiva i due principali indicatori della povertà lavorativa quali criteri atti a guidare il giudizio di adeguatezza del salario minimo legale. Essi si risolvono in una valutazione individuale, ossia riferita al singolo lavoratore, il quale non dovrebbe percepire salari inferiori al 60% del salario mediano lordo e del 50% del salario medio lordo. È da notare come tali valori-soglia coincidano solo in parte con l’indicatore AROP (at-risk-of-poverty) utilizzato da Eurostat, posto che quest’ultimo prende a riferimento non già la situazione del singolo lavoratore, bensì quella del lavoratore siccome inserito in un dato contesto famigliare, ed aggiunge inoltre gli ulteriori social transfers di cui benefici il nucleo famigliare, così da comporre il c.d. household disposable income [9].
Del resto, sotto questo profilo la direttiva riflette quanto disposto dalla Convenzione OIL n. 131 sulla fissazione dei salari minimi, convenzione che l’Italia non ha mai ratificato [10], e dalla relativa Raccomandazione OIL n. 135. Secondo detta Raccomandazione, i criteri da tenere in considerazione per la determinazione del salario minimo sono il costo della vita, il livello generale delle retribuzioni, le esigenze dei lavoratori e delle loro famiglie, e le esigenze dello sviluppo economico. L’articolo 3 della Convenzione n. 131 stabilisce inoltre che si devono considerare anche fattori economici, come «l’opportunità di raggiungere un elevato livello di occupazione». La Convenzione n. 131 integra le convenzioni precedenti, che riguardavano solo settori specifici e non erano destinate ad essere applicate in modo generale. Secondo il suo preambolo, essa (come la direttiva) mira anche a combattere la povertà lavorativa. La Convenzione non utilizza tuttavia concetti come salario “adeguato” o “dignitoso”, tanto che lo stesso Ufficio Internazionale del Lavoro dell’ILO rimarca una certa difficoltà nello stabilire criteri comuni, nonché una definizione del salario minimo e delle sue componenti [11].
Le ragioni per cui il riferimento al 60% del salario mediano lordo e del 50% del salario medio lordo si ritrova oggi nel testo dell’art. 5 sono legate al rischio di genericità che recava la proposta iniziale. Certo, alcune indicazioni provenienti dai Considerando avrebbero potuto essere recuperate in sede di interpretazione teleologica [12]. Tuttavia, l’avere espressamente incluso nel corpo della direttiva le predette soglie conferisce ulteriore efficacia agli obblighi previsti in tema di adeguatezza.
Rimangono importanti novità aggiunte nel corso del dialogo fra Parlamento e Consiglio in seno al trilogo. In particolare, spicca il nuovo Considerando 20, che ricollega l’adeguatezza a un’equa distribuzione salariale nel paese di riferimento e al fatto che il salario assicuri un tenore di vita dignitoso, ed esplicita ora con enfasi l’importanza di misurazioni assolute della medesima adeguatezza. Tra gli altri strumenti, il Considerando 20 invita ad includere «un paniere di beni e servizi a prezzi reali stabiliti a livello nazionale può essere strumentale per determinare il costo della vita, al fine di raggiungere un tenore di vita dignitoso. In via ulteriore rispetto alle necessità materiali quali cibo, vestiario e alloggio, la partecipazione ad attività culturali, scolastiche e sociali può altresì essere tenuta in considerazione». È evidente il tratto innovativo di tali precisazioni, che lasciano impregiudicata l’importanza delle soglie di Kaitz (che infatti rimangono nello stesso Considerando 20, ultima parte) ma segnano con decisione [13] la necessità che l’adeguatezza del salario minimo legale non rifletta solo la distribuzione salariale in un dato Stato membro, ma svolga anche un’effettiva funzione di realizzazione di una “cittadinanza” sostanziale, legata alla piena partecipazione dei lavoratori alla vita sociale ed economica del proprio Stato membro.
Venendo ora alla parte dispositiva della direttiva, occorre anzitutto osservare come agli Stati membri l’art. 5 richieda in primo luogo di «adottare le misure necessarie a garantire che la fissazione e l’aggiornamento dei salari minimi legali siano guidati da criteri stabiliti per promuovere l’adeguatezza». È dunque molto ampia la discrezionalità lasciata agli Stati membri, tanto più che i criteri per promuovere l’adeguatezza possono essere stabiliti, conformemente alle prassi in vigore in ciascun Stato membro, dalla legge, dalle istituzioni competenti, ovvero da organismi tripartiti (art. 5, comma 1, ultima parte), purché definiti in maniera chiara e stabile ed alla luce degli obiettivi esplicitati dallo stesso art. 5, comma 1, che fa riferimento alla necessità di garantire un tenore di vita dignitoso, alla riduzione della povertà lavorativa e alla promozione di una convergenza social verso l’alto, nonché alla riduzione delle disparità salariali uomo-donna.
Il quinto comma dell’art. 5 individua un secondo obbligo per gli Stati membri consistente nell’adottare le misure necessarie a garantire un aggiornamento regolare e tempestivo dei salari minimi legali al fine di salvaguardarne l’adeguatezza almeno ogni due anni ovvero, per gli Stati membri che impiegano meccanismi di indicizzazione dei salari, almeno ogni quattro anni.
Un ultimo obbligo stabilito nell’art. 5, comma 6 impone agli Stati membri di istituire commissioni consultive dirette a supportare le autorità competenti in merito alle questioni relative al salario minimo legale.
La sequenza di obblighi stabilita dall’art. 5, benché ora articolata con maggiore chiarezza, si arresta sul piano procedurale e non individua alcuna misura diretta di determinazione sostanziale dei livelli salariali, pena lo sforamento di competenze sub specie contrasto con l’art. 153 (5) TFUE [14]. Alla base dell’approccio per c.d. burocratico insito negli obblighi di cui all’art. 5 si ritrova la strettissima base giuridica su cui l’intera direttiva si poggia. L’avere scelto l’art. 153 TFUE quale fondamento normativo, infatti, seppur giustificato dal timore di subire un’interpretazione orientata alle logiche del market access à la Laval e Viking [15], ha inibito il legislatore europeo dall’intervenire (più) direttamente sui livelli salariali [16].
Ritorna – o per meglio dire rimane – dunque in capo agli Stati membri un’ampia discrezionalità nello stabilire i livelli delle retribuzioni minime, alla luce però dei Considerando della direttiva, che indicano quali canoni informatori dell’adeguatezza il fatto che i salari minimi siano «equi rispetto alla distribuzione salariale del paese» e consentano «un tenore di vita dignitoso». Se tali canoni sembrano escludere che l’equità ricercata dalla direttiva si esprima a livello del singolo rapporto individuale di lavoro – e si riferisca dunque alla giustizia contrattuale in sé – deve nondimeno osservarsi come essa si ponga in linea di continuità con il valore della dignità espresso nell’art. 31 della Carta dei diritti fondamentali e nell’art. 4 della Carta sociale europea [17]. In termini concreti, le due accezioni dell’adeguatezza rispetto alla distribuzione salariale e al tenore di vita dignitoso, ad altro non rimandano se non appunto alle soglie di povertà lavorativa individuate nel 60% della retribuzione mediana e 50% della retribuzione media e al paniere di beni e servizi di cui al Considerando 20.
Vi è dunque da chiedersi se un salario minimo legale che adotti i canoni di adeguatezza sopra menzionati sia sufficiente a contrastare il tendenziale aumento dei tassi di povertà lavorativa. L’esempio della Germania, dove un salario minimo è stato introdotto per legge dal 2015, sembra mostrare che, pur non avendo portato miglioramenti nel livello medio di povertà lavorativa [18], il salario minimo legale ha consentito ai lavoratori occupati in settori particolarmente deboli sul piano delle relazioni industriali di ricevere una copertura minima obbligatoria [19], lasciando peraltro la contrattazione collettiva dispiegarsi liberamente negli altri settori [20].
Più in generale occorre evitare di desumere l’assenza o la marginalità della povertà lavorativa in via esclusiva dall’adeguatezza del salario minimo legale. Mentre salari adeguati sembrano costituire condizione necessaria ad assicurare una distribuzione equa dei redditi nel mercato del lavoro, essi non sono sufficienti a garantire a chi è considerato “in work” dalle statistiche Eurostat di sfuggire al rischio di povertà lavorativa. La nozione di in-work poverty, infatti, viene riferita a chiunque abbia prestato un’attività remunerata (in regime di autonomia o subordinazione) per almeno sette mesi nell’anno di riferimento e sia incluso in un contesto famigliare il cui reddito disponibile si collochi sotto la relativa soglia, includendovi tutte le fonti di reddito percepite dai membri di un dato nucleo famigliare [21].
La bi-dimensionalità – individuale e famigliare – dell’indicatore della povertà lavorativa sfugge così alla stretta logica sottesa al salario minimo. Vi sono dunque altri, più rilevanti fattori, primo fra tutti l’instabilità lavorativa sub specie bassa intensità di lavoro nel nucleo famigliare, che influenzano le statistiche sulla povertà lavorativa. Tali considerazioni consentono di accogliere con favore l’attuale testo dell’art. 5 in punto all’adeguatezza delle retribuzioni fissate per legge, ma lasciano impregiudicata la funzione della contrattazione collettiva nella determinazione delle dinamiche salariali e, per quanto qui interessa, nella riduzione dei livelli di in-work poverty.
4. La copertura della contrattazione collettiva
Occorre dunque concentrare l’attenzione – quantomeno da una prospettiva italiana – sull’art. 4 della direttiva, intitolato alla promozione della contrattazione collettiva in materia di fissazione dei salari.
L’importanza dell’art. 4 non è affatto secondaria rispetto a quella dell’art. 5 in tema di adeguatezza, tanto che la direttiva stessa finisce per costituire più uno strumento di supporto alla contrattazione collettiva negli Stati membri privi di un salario minimo legale che uno di coordinamento delle politiche salariali negli Stati membri ove già vige un sistema legale di fissazione dei salari minimi. Prova ne sia l’attuale formulazione del Considerando 18, che in fine reca la promozione della contrattazione collettiva quale uno degli obiettivi espliciti dell’intera direttiva [22].
L’art. 4, largamente influenzato dal dibattito sviluppatosi in seno al Parlamento europeo, separa ora nettamente due ordini di obblighi indirizzati agli Stati membri dell’Unione.
Con riguardo agli obblighi per c.d. principali, la proposta iniziale della Commissione recava unicamente due previsioni, che imponevano agli Stati membri di promuovere la «costruzione e rafforzamento della capacità delle parti sociali di impegnarsi nella contrattazione collettiva sulla definizione dei salari a livello settoriale o interprofessionale» e a svolgere «negoziati costruttivi, significativi e informati sui salari tra le parti sociali».
L’attuale testo dell’art. 4 introduce due ulteriori obblighi per gli Stati membri. L’art. 4, comma 1, lett. c) impone di «adottare misure, se del caso, per tutelare l’esercizio del diritto alla contrattazione collettiva sulla determinazione dei salari e per proteggere i lavoratori e i rappresentanti sindacali da atti discriminatori nei loro confronti per il fatto che partecipano o desiderano partecipare alla contrattazione collettiva per la determinazione dei salari». La successiva lett. d) obbliga ad adottare misure, ove appropriate, dirette a proteggere i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro che partecipano o desiderano partecipare alla contrattazione collettiva «contro tutti gli atti di ingerenza delle une verso le altre, che si realizzino sia direttamente sia per mezzo di loro funzionari o membri, nella loro formazione, nel loro funzionamento e nella loro amministrazione». Mentre le lett. a) e b) dell’art. 4, comma 1 costituiscono misure specifiche dirette a favorire la capacità delle parti sociali di determinare politiche salariali trasparenti ed efficaci, gli obblighi contenuti nelle lett. c) e d) ricalcano letteralmente quanto previsto dagli artt. 1 e 2, comma 1, della Convenzione OIL n. 98 del 1949 sul diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva.
Il comma 2 dell’art. 4 reca obblighi ulteriori, che si materializzano unicamente laddove nel singolo Stato membro il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia inferiore all’80%. Il primo obbligo consiste nel prevedere un quadro che favorisca le condizioni per lo svolgimento della contrattazione collettiva mediante una legislazione concertata con le parti sociali ovvero mediante un accordo con le stesse. Il secondo obbligo consiste invece nell’introdurre un Piano d’azione per la promozione della contrattazione collettiva. Nel testo attuale, tale Piano deve basarsi su un programma con scadenze ben definite e deve contenere misure concrete che incrementino progressivamente il tasso di copertura della contrattazione collettiva, ferma restando l’autonomia collettiva delle parti sociali. Il Piano medesimo, che costituisce un documento pubblicamente accessibile e notificato alla Commissione, deve essere periodicamente aggiornato, sempre in consultazione o in accordo con le parti sociali, ed in ogni caso riformulato almeno ogni cinque anni.
Anche qui, l’influenza del Parlamento europeo è evidente, non solo per avere alzato la soglia dal 70% all’80% di copertura della contrattazione collettiva, ma specialmente per avere trasformato un obbligo relativamente generico – quale era quello inizialmente proposto dalla Commissione di stabilire un piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva – in uno strumento potenzialmente cruciale e sanzionabile sul piano procedurale. È infatti evidente che, qualora uno Stato membro non adempia all’obbligo di stabilire il Piano d’azione, ovvero lo determini in guise eccessivamente generiche o inefficaci, o ancora non lo notifichi alla Commissione o non lo aggiorni periodicamente, detto Stato sarà passibile di procedura d’infrazione per inadempimento agli obblighi derivanti dal diritto dell’UE ai sensi degli artt. 258 e 260 TFEU [23].
L’intero art. 4 in tema di promozione della contrattazione collettiva deve leggersi alla luce dei relativi Considerando.
Nel Considerando 16 si afferma ora che la contrattazione collettiva di settore o intersettoriale costituisce «an essential factor for achieving adequate minimum wage protection and therefore needs to be promoted and strenghtened». Nel Considerando 19 si precisa che le parti sociali conservano la più ampia libertà di stabilire il livello più appropriato e le modalità per assicurare salari adeguati mediante contrattazione collettiva.
Assume in particolare rilievo il Considerando 13 della direttiva, per cui «la protezione garantita dal salario minimo previsto dai contratti collettivi in occupazioni a basso salario è adeguata e pertanto assicura un tenore di vita dignitoso nella maggioranza dei casi, e ha dimostrato di essere un mezzo effettivo tramite cui ridurre la povertà lavorativa». Rispecchia la medesima logica il Considerando 24, ove si afferma che le retribuzioni medie nei sistemi che non hanno un salario minimo legale sono fra le più elevate nell’UE. Tali sistemi, prosegue il Considerando 24, «are characterised by very high collective bargaining coverage, as well as high levels of affiliation to both the employer associations and trade unions».
Il quadro si completa con il ragionamento svolto dal Considerando 26, per cui gli Stati membri con un elevato livello di copertura della contrattazione collettiva tendono ad avere una ridotta percentuale di lavoratori a basso salario e dunque a promuovere salari minimi più elevati. Similmente, «the majority of the Member states with high levels of minimum wages relative to the average wage have a collective bargaining coverage above 80%». La versione concordata fra Parlamento e Consiglio nel giugno 2022 ha modificato il riferimento dal salario mediano (median wage) al salario medio (average wage), per riflettere il fatto di avere alzato la soglia dal 70% all’80% al di sotto della quale gli Stati membri sono obbligati a stabilire un Piano d’azione per promuovere la contrattazione collettiva.
Ora, complessivamente valutato, il ragionamento svolto nei citati Considerando traccia un nesso di causa-effetto fra l’adeguatezza e la protezione garantita dal salario minimo contenuto nei contratti collettivi «in occupazioni a basso salario». In questo nesso causale si annida uno degli aspetti più delicati dell’intera direttiva, non tanto per la generalità dei sistemi europei di relazioni industriali, e neppure per quei sei Paesi privi di un salario minimo, bensì specialmente per l’Italia. Come già rilevato [24], il problema risiede nell’estrarre da una circostanza statistica – ossia il fatto che normalmente laddove i tassi di copertura della contrattazione collettiva siano particolarmente elevati, il salario minimo si attesa a un livello adeguato rispetto alle soglie di Kaitz – un imperativo di policy ineluttabile, che si risolve in una sorta di presunzione di adeguatezza per qualunque prodotto della contrattazione collettiva, purché statisticamente diffuso nel paese di riferimento.
Il risultato sorprendente di questo procedimento logico – che con Peirce potremmo chiamare di abduzione – consiste nell’obliterare la circostanza per cui non sempre, certamente non nel sistema italiano di relazioni industriali, estensione della copertura della contrattazione collettiva equivale ad adeguatezza dei salari minimi. Ciò è tanto più verificabile proprio nei settori c.d. poveri, ossia in quei settori economici nei quali i lavoratori che percepiscono bassi salari sono più del 20% [25].
Rispetto a queste critiche, si è obiettato che in realtà la direttiva «auspica soltanto la più ampia estensione possibile dei contratti collettivi», dunque non sembra possa essere interpretata «nel senso che la diffusione dei contratti collettivi oltre il 70% determini una sorta di «presunzione di adeguatezza» dei salari minimi» [26]. Senonché, a ben vedere, benché non determini in senso coercitivo una presunzione di adeguatezza – tale cioè da determinare il sussistere o meno di taluni obblighi in capo agli Stati membri – la direttiva pone tale presunzione proprio alla base dell’art. 4 in tema di promozione della contrattazione collettiva. In tal senso deve condividersi l’opinione che invita a dubitare che gli alti tassi di copertura della contrattazione collettiva accreditati all’Italia siano un «indicatore di buona salute della contrattazione collettiva» [27]. Risulta infatti che laddove il tasso di copertura della contrattazione collettiva sia superiore all’80%, gli obblighi secondari di cui all’art. 4, comma 2 non scattano affatto, e dunque lo Stato membro in questione è esonerato dall’introdurre un quadro regolativo atto a promuoverla, nonché dal redigere il Piano d’azione sopra menzionato diretto ad aumentare il tasso di copertura.
L’esempio italiano è tal senso emblematico. Sul piano statistico, il documento di Impact assessment allegato alla proposta di direttiva attribuiva all’Italia un tasso di copertura della contrattazione collettiva di poco superiore all’80% [28].
Le stime OCSE, di contro, accreditavano all’Italia addirittura il 100% di copertura (con Francia e Austria al 98%, e Belgio al 96%). Tali misurazioni sono frutto di stime non sempre adeguate rispetto al quadro giuridico di riferimento e alla sua applicazione concreta. Il glossario statistico dell’OCSE precisa in proposito che «la copertura della contrattazione collettiva, ovvero la percentuale di lavoratori coperti da un contratto collettivo, è più vicina a misurare il grado di capacità dei sindacati di fornire standard comuni di salari, orari e condizioni di lavoro nei mercati del lavoro. Essendo il risultato combinato dell’organizzazione e dell’azione dei sindacati, dell’organizzazione dei datori di lavoro e del sostegno statale, il tasso di copertura della contrattazione indica il grado di organizzazione dei rapporti di lavoro». Prosegue inoltre ricordando come meccanismi di estensione della copertura della contrattazione siano stati introdotti sin dagli anni ’30 [29]. Il punto di vista dell’OCSE è peraltro mutato nel tempo. La ragione per cui oggi l’Italia figura avere una copertura al 100% della contrattazione collettiva è così individuata dall’ultima edizione (2021) dell’OECD Note on definitions, measurement and sources: «In assenza di fonti alternative, con la pubblicazione della banca dati ICTWSS dell’OCSE/AIAS, la copertura è stata rivista al 100%, riflettendo il fatto che in Italia i salari base fissati nei contratti collettivi (minimi tabellari) sono utilizzati dai tribunali del lavoro come riferimento per determinare se l’impresa rispetta l’articolo 36 della Costituzione italiana (…). I minimi salariali nei contratti collettivi sono quindi l’equivalente funzionale di salari minimi settoriali per tutti i lavoratori che tutte le imprese devono rispettare. Il principale inconveniente è che, in questo caso, sono inclusi nella stima anche i lavoratori impiegati in aziende che semplicemente si “orientano” verso l’accordo prevalente» [30].
È evidente, dunque, che le stime OCSE implichino un’efficacia erga omnes indotta dagli artt. 36 Cost. e 2099 c.c., ciò che nella realtà non si realizza [31], né peraltro si potrebbe realizzare, pena il contrasto con la seconda parte dell’art. 39 Cost [32].
Tali inesattezze sono in parte riprodotte dalle stime poste alla base del documento di Impact assessment elaborato dalla Commissione nell’ottobre 2020 ed allegato alla proposta di direttiva. In tale documento, l’Italia figura avere una copertura della contrattazione collettiva intorno all’80% e una percentuale di lavoratori considerati a basso salario inferiore al 10%, donde l’applicazione del nesso di causazione per cui un’elevata copertura assicura una scarsa diffusione di lavoro a basso salario. Come già osservato, rimane problematico il parallelo fra salario minimo legale e retribuzioni stabilite dai contratti collettivi, quantomeno per il fatto che solo il primo è per definizione applicabile alla generalità dei lavoratori, mentre le seconde rimangono confinate nei limiti soggettivi di applicazione dei contratti collettivi e nella pratica svolgono solo in parte la funzione ad essa demandata dall’art. 36 Cost. In mancanza di un sistema – come quello austriaco – di estensione tendenzialmente generale dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, la porzione di lavoratori non coperti dalle tutele da essi riconosciute risulta tanto più affidata alla capacità dei singoli o delle parti sociali di estenderle ultra partes. Il che risulta più complesso proprio per quei lavoratori e in quei settori che sono statisticamente esposti a livelli maggiori di precarietà, cui si associa di norma un più elevato tasso di povertà lavorativa.
Ancora, il nesso fra taluni fattori determinanti e la conseguenza che si vorrebbe prevenire risulta assai meno diretto di quanto il legislatore europeo sembra intendere.
Per un verso, infatti, non è detto che la copertura elevata della contrattazione collettiva generi una porzione inferiore di lavoratori a basso salario. Prova ne sia la relativamente alta percentuale di lavoratori a basso salario (circa 15%) in paesi come l’Austria dove la copertura è pressoché del 100% [33].
Per l’altro verso, la stessa correlazione fra salari considerati bassi e povertà lavorativa si dimostra fallace. Occorre in proposito ricordare come per lavoratori con bassi salari si debbono intendere, secondo il glossario Eurostat, coloro che «percepiscono retribuzioni orarie (esclusi i contributi e le tasse pagate dal datore di lavoro) inferiori ai due terzi del salario mediano lordo a livello nazionale» [34]. Si tratta, quindi, di un concetto relativo (perché dipende dalla distribuzione dei salari nella popolazione) e individuale (non viene considerata la situazione della famiglia nel suo complesso). Ciò si differenzia alquanto dalla definizione di povertà lavorativa, che è sì relativa ma viene considerata nel contesto del nucleo famigliare. Inoltre, la bassa retribuzione è misurata sulla retribuzione oraria lorda, mentre la povertà lavorativa si basa sul reddito familiare disponibile equivalente misurato su un anno intero. Ricerche empiriche mostrano una maggiore incidenza della bassa retribuzione rispetto alla povertà lavorativa in tutti i Paesi dell’UE, ad eccezione della Svezia [35]. Sebbene il rischio di povertà sia più elevato per un lavoratore a bassa retribuzione, la debole correlazione tra questi due indicatori dimostra che il basso salario è solo una minima determinante della povertà lavorativa [36]. Molti lavoratori a bassa retribuzione sono secondi percettori di reddito in una famiglia e il primo percettore di reddito garantisce che la famiglia non viva al di sotto della soglia di povertà relativa [37]. In effetti, a causa della dimensione familiare, l’impatto della bassa retribuzione sul rischio di povertà lavorativa di un individuo dipende in larga misura dalla composizione del nucleo familiare in cui vive. Peraltro, esistono ampie differenze tra gli Stati membri dell’UE: nella maggior parte degli Stati membri dell’Europa meridionale e anche in Lituania, Ungheria, Lussemburgo, Svezia, Lettonia, Austria e Francia, più di un quinto dei lavoratori a basso salario è povero, mentre meno di un decimo dei lavoratori a basso salario è povero in Slovenia, Irlanda e Repubblica Ceca [38].
5. Il lungo cammino dell’attuazione della direttiva e gli effetti sulla riduzione della povertà lavorativa
Interrogandosi sull’effettivo impatto della direttiva sulla riduzione dei livelli di povertà lavorativa e, in particolare, sui sistemi giuridici degli Stati membri, non può non ricordarsi come la versione finale del testo abbia impresso un significato ulteriore a una norma solitamente di routine come l’art. 17 intitolato “Trasposizione e recepimento”. Oltre ad imporre il recepimento, come di norma, entro due anni dalla data di entrata in vigore, l’art. 17, comma 2 obbliga gli Stati membri a comunicare alla Commissione «le disposizioni che contangano riferimenti alla direttiva». Dopo le ultime modifiche, il quomodo di tale comunicazione è lasciato alla piena discrezionalità del singolo Stato membro.
In via ulteriore, il nuovo comma 3 della norma obbliga gli Stati membri ad adottare «in conformità con la loro legislazione e prassi nazionale, le misure adeguate per garantire l’effettivo coinvolgimento delle parti sociali ai fini dell’attuazione della presente direttiva. A tal fine, essi possono affidare alle parti sociali tale attuazione, in tutto o in parte, compresa l’elaborazione del piano d’azione ai sensi dell’articolo 4, paragrafo 2, qualora le parti sociali lo richiedano congiuntamente. In tal modo, gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per garantire che gli obblighi previsti dalla presente direttiva siano rispettati in ogni momento». Il successivo comma 4 – anch’esso introdotto da ultimo – precisa che «la comunicazione di cui al paragrafo 2 comprende una descrizione del coinvolgimento delle parti sociali nell’attuazione della presente direttiva».
Insieme alla riscrittura dell’art. 12 – dedicato al “Right to redress and protection against adverse treatment or consequences” – le modifiche all’art. 17 evidenziano il compromesso politico con alcuni paesi nordici, in specie la Svezia, che hanno acconsentito a sostenere il cammino della direttiva nonostante l’espressa contrarietà delle parti sociali ed i potenziali pericoli per il proprio sistema di relazioni industriali [39].
La nuova formulazione dell’art. 17 in tema di recepimento della direttiva impone di confrontarne, in via conclusiva, l’impianto generale rispetto alla proposta originaria elaborata dalla Commissione europea nell’ottobre 2020.
Nell’intento di ridurre i preoccupanti livelli di povertà lavorativa registrati in quasi tutti gli Stati membri nell’ultimo decennio, la proposta originaria esibiva tre meriti fondamentali, che giustificavano l’accoglienza di massima positiva suscitata in dottrina.
Anzitutto, essa scavalcava le barriere che storicamente avevano impedito alle istituzioni europee di intervenire sulle politiche salariali degli Stati membri con misure più invasive delle semplici Country Specific recommendations indirizzate annualmente all’esito del semestre europeo. Tale sconfinamento si attuava mediante una combinazione fra misure procedurali e promozionali, avendo a mente il limite invalicabile di cui all’art. 153 (5) TFUE.
In secondo luogo, la proposta di direttiva si proponeva di introdurre un concetto – quello dell’adeguatezza – già desumibile dalle fonti internazionali ma per nulla condiviso sul piano comparato fra gli Stati membri. Non potendo intervenire sull’equilibrio interno al contratto di lavoro (pena appunto lo sconfinamento delle competenze), la direttiva formulava in termini sufficientemente generici tale adeguatezza, riferendola in sostanza alla complessiva dinamica salariale nel singolo Stato membro.
Infine, la proposta di direttiva imponeva procedure dirette ad estendere quanto possibile l’efficacia soggettiva dei contratti collettivi, in base all’assunto per cui un aumento della copertura potrebbe “trascinare” i livelli medi delle retribuzioni. In via ulteriore, la proposta sosteneva la contrattazione collettiva sfruttando le potenzialità di cui alla direttiva 2014/24 in tema di appalti pubblici, che nella fase di esecuzione dell’appalto richiede agli Stati membri di assicurare che i datori di lavoro rispettino le norme di legge e di contratto collettivo applicabili.
La critica principale rispetto al testo iniziale si concentrava sull’eccessiva fiducia riposta nei ragionamenti di causazione applicati alle dinamiche sociali, che rischiavano di ingessare l’azione legislativa e nel medio periodo restituire risultati non appaganti.
Ora, il testo definitivo della direttiva sembra confermare questi tre pilastri fondamentali, risultando tuttavia sensibilmente più incisivo proprio sul piano della riduzione della povertà lavorativa.
Come emerge dall’esegesi delle disposizioni della direttiva ed in specie dei suoi Considerando, le modifiche apportate da Parlamento europeo e Consiglio hanno consolidato le sue premesse empiriche e le hanno tradotte in considerazioni stringenti. Il richiamo costante ed esplicito al quadro internazionale derivante dalle Convenzioni OIL ha ulteriormente rafforzato il testo e, circostanza abbastanza eccezionale per un atto di diritto secondario UE, consentirà alla Corte di giustizia di utilizzare dette Convenzioni nell’interpretazione della direttiva con maggiore precisione ed efficacia [40].
Valutando complessivamente il testo approvato nel settembre 2022, la povertà lavorativa risulta essere non più soltanto la cornice statistica entro cui promuovere adeguatezza e diffusione dei salari minimi. Essa diviene il problema principale che la direttiva si propone di risolvere, mediante la crescita tendenziale delle retribuzioni e l’aumento della contrattazione collettiva di settore.
Quantomeno nelle sue premesse, la direttiva identifica oggi con maggiore chiarezza che fra le cause della povertà lavorativa debbono considerarsi una serie di fattori: i bassi salari, certo, ma anche la diffusione dei contratti non standard (in particolare con bassa intensità lavorativa come il part-time involontario), il ricorso al ‘falso’ lavoro autonomo, la diseguaglianza salariale di genere, le differenze nei sistemi nazionali di sicurezza sociale, le politiche per la casa. Tutti questi fattori meritano un’attenzione particolare a livello europeo – come dimostra plasticamente il Pilastro europeo dei diritti sociali – ma sono stati solo in parte considerati nelle misure legislative sinora approvate.
Se è vero che la direttiva 2019/1152 impone agli Stati membri l’adozione di misure dirette a prevenire l’abuso dei contratti a chiamata, intermittenti o a zero ore (articolo 11 e considerando 35) e che la Raccomandazione sull’accesso alla protezione sociale per i lavoratori subordinati e autonomi (2019/C 387/01) tenta di stimolare l’estensione della sicurezza sociale ai lavoratori autonomi in regime di mono-committenza, altre sfide ben più sistemiche attendono il legislatore europeo e la stessa Corte di giustizia.
La correlazione piuttosto stringente fra lavoro non-standard e povertà lavorativa suggerisce di andare al di là del principio di parità di trattamento per adeguatamente tutelare i lavoratori temporanei, a termine, e part-time, in specie con lo scopo di affrontare il problema della bassa intensità lavorativa.
L’utilizzo massiccio del lavoro intermittente o a chiamata in settori in cui non necessariamente le occasioni di lavoro sono imprevedibili e mutevoli – ivi comprese le piattaforme digitali che operano sia online sia on-demand in un luogo fisico – suggerisce inoltre di ridurre l’impiego di tali forme contrattuali.
Gli ultimi studi pubblicati in Italia sulla crescente diffusione del lavoro povero segnalano ulteriori piste di policy. La relazione finale del gruppo di lavoro sulla povertà lavorativa [41] suggerisce di garantire salari minimi adeguati (sia mediante estensione dell’efficacia soggettiva dei contratti collettivi c.d. leader, sia mediante salario minimo legale), di rendere più efficiente la vigilanza sul rispetto dei minimi salariali, di introdurre uno specifico in-work benefit (isotto forma di trasferimento monetario a chi lavora), di incentivare il rispetto delle norme aumentando la consapevolezza fra imprese e lavoratori, e infine di promuovere una revisione dell’indicatore europeo di povertà lavorativa.
Quest’ultimo punto assume particolare importanza anche alla luce della disamina che precede, posto che lo stesso obiettivo di ridurre la povertà lavorativa immaginato dalla direttiva europea risulterebbe di difficile realizzazione se si mantiene – come fa l’indice AROP – alla base degli indicatori il doppio gradiente del 50% del salario medio e del 60% del salario mediano. Ciò lascia in effetti all’ombra delle statistiche la diffusione del lavoro povero femminile e più in generale la diffusa povertà lavorativa del secondo percettore di reddito all’interno di un nucleo famigliare.
NOTE
[1] M. TSCHAEPE, Guessing and Abduction, in Transactions of the Charles S Peirce Society: A Quarterly Journal in American Philosophy, 50(1), 2014, 115-138.
[2] G.P. CAPRETTINI, Peirce, Holmes, Popper, in U. ECO, T. SEBEOK (a cura di), The Sign of Three: Dupin, Holmes, Peirce Advances in Semiotics, Indiana University Press, Bloomington, 1983, 141-142.
[3] Commission Staff Working Document, Impact Assessment accompanying the document Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on adequate minimum wages in the European Union, 28 ottobre 2020, SWD(2020)245 final.
[4] Proposta di Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea (COM(2020) 682 final).
[5] Parlamento europeo (2021), Resolution of 10 February 2021 on Reducing Inequalities with a Special Focus on In-work Poverty (2019/2188 (INI)).
[6] Ibidem.
[7] Cfr. tra i molti, A. LO FARO, L’iniziativa della Commissione per il salario minimo europeo tra coraggio e temerarietà, in Lav. dir., 2020, 539 ss., nonché i contributi raccolti in Dir. rel. ind., 2021, n. 1: T. TREU, La proposta sul salario minimo e la nuova politica della Commissione europea, ivi, 1 ss.; G. PROIA, La proposta di direttiva sull’adeguatezza dei salari minimi, ivi, 26 ss.; E. MENEGATTI, Il salario minimo nel quadro europeo e comparato. A proposito della proposta di direttiva relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea, ivi, 41 ss.; L. RATTI, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati nella prospettiva di contrasto all’in-work poverty, ivi, 59 ss. Nonché quelli raccolti in Dir. rel. ind., 2021, n. 2: Z. ADAMS, La proposta di direttiva UE relativa ai salari minimi adeguati: ripensare la funzione sociale dei salari minimi, ivi, 283 ss.; M. WEISS, Il salario minimo legale in Germania, ivi, 308 ss.; A. BUGADA, Considerazioni globali sul salario minimo (in Francia e altrove), ivi, 325 ss.; E. ROJO TORRECILLA, L’applicazione della (futura?) direttiva europea sui salari minimi in Spagna. Riflessioni generali, ivi, 346 ss.; S. SCHWERNTNER, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati. Prime valutazioni e implicazioni per l’Austria, ivi, 371 ss.; M. BARBIERI, La proposta di direttiva sul salario minimo legale: opportunità e limiti, ivi, 387 ss.; A. BELLAVISTA, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati. L’Europa sociale ad una svolta, ivi, 411 ss.; M. DELFINO, Proposta di direttiva, tutela giuridica dei salari e nodi della contrattazione collettiva in Italia, ivi, 432 ss. Ulteriori contributi sono apparsi in M. AIMO, A. FENOGLIO, D. IZZI (a cura di), Studi in Memoria di Massimo Roccella, ESI, Napoli, 2021: A. ANDREONI, Lavoro povero, contrattazione collettiva e salario minimo, ivi, 3 ss.; M. V. BALLESTRERO, G. DE SIMONE, Riallacciando il filo del discorso. Dalla riflessione di Massimo Roccella al dibattito attuale sul salario minimo, ivi, 19 ss.; M. BARBERA, F. RAVELLI, La Proposta di direttiva sul salario minimo adeguato: la risposta dell’Unione europea a un problema storico del diritto del lavoro, ivi, 55 ss.; M. BARBIERI, Il salario minimo legale in Italia, dagli studi di Massimo Roccella alla proposta di direttiva e ai disegni di legge di questa legislatura, ivi, 75 ss.; P. LOI, La direttiva sui salari minimi e adeguati nell’attualità del diritto sociale europeo, ivi, 201 ss.; P. PASCUCCI, Il salario minimo tra la proposta di direttiva e i disegni di legge italiani, ivi, 255 ss.; J. CRUZ VILLALÓN, La promoción de salarios mínimos adecuados en la Unión europea, ivi, 329 ss.; L. ZOPPOLI, Basi giuridiche e rilevanza della proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea, ivi, 351 ss.
[8] Eurofound, Minimum wages in 2021: Annual review, Minimum wages in the EU series, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2021.
[9] Amplius sia consentito rinviare a L. RATTI, A. GARCÍA MUÑOZ, V. VERGNAT, The Challenge of Defining, Measuring, and Overcoming In-Work Poverty in Europe: An Introduction, in L. RATTI (a cura di), In-Work Poverty in Europe. Vulnerable and Under-represented Persons in a Comparative Perspective, Wolters Kluwer, Alphen aan den Rijn, 2022, 11 ss.
[10] Vi è da ricordare, tuttavia, come l’Italia abbia ratificato la precedente Convenzione n. 26 del 1928 (Minimum Wage-Fixing Machinery Convention) nonché la Convenzione settoriale n. 99 del 1951 (Minimum Wage Fixing Machinery (Agriculture) Convention).
[11] Bureau International du Travail, Étude d’ensemble des rapports sur la convention (no 131) et la Recommandation (no 135) sur la fixation des salaires minima 1970, Genéve, 2014, 39.
[12] A. LO FARO, L’iniziativa della Commissione per il salario minimo europeo tra coraggio e temerarietà, cit.
[13] In particolare, deve notarsi la differenza fra quanto il Considerando 20 suggerisce come possibile introdurre (ad esempio, la comparazione fra i salari minimi netti e la soglia di povertà e il potere di acquisto del salario minimo) e quanto è invece obbligatorio che gli Stati membri introducano (come l’uso di indicatori e valori di riferimento ad essi associati per valutare l’adeguatezza dei salari minimi).
[14] Per una prospettiva critica rispetto alle competenze dell’UE espresse con la direttiva cfr. E. SJÖDIN, European minimum wage: A Swedish perspective on EU’s competence in social policy in the wake of the proposed directive on adequate minimum wages in the EU, in European Labour Law Journal, 2022, 279-281.
[15] Su questi aspetti cfr. A. LO FARO, L’iniziativa della Commissione per il salario minimo europeo tra coraggio e temerarietà, in Lav. dir., 2020, 553 ss.
[16] P. PASCUCCI, V. SPEZIALE, Spunti sul salario minimo dopo la Proposta di direttiva UE, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2021, 749 ss.
[17] M. V. BALLESTRERO, G. DE SIMONE, Riallacciando il filo del discorso, cit., 41-42.
[18] K. BRUCKMEIER, O. BRUTTEL, Minimum Wage as a Social Policy Instrument: Evidence from Germany, in Journal of Social Policy, 2021, Vol. 50, n. 2, 247-266.
[19] A. GARNERO, C. LUCIFORA, L’erosione della contrattazione collettiva in Italia e il dibattito sul salario minimo legale, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2020, 297-298.
[20] M. BARBERA, F. RAVELLI, La Proposta di direttiva sul salario minimo adeguato, cit., 73.
[21] Sia consentito il rinvio a L. RATTI, A. GARCÍA MUÑOZ, V. VERGNAT, The Challenge of Defining, Measuring, and Overcoming In-Work Poverty in Europe: An Introduction, cit., 2-3.
[22] Nella versione licenziata dal Consiglio nel giugno 2022, è evidente l’aggiunta dell’ultimo periodo: «this Directive also promotes collective bargaining on wage-setting».
[23] Dal più recente rapporto sule procedura di infrazione pubblicato dalla Commissione europea per l’anno 2020 (COM(2021) 432 final), risulta che l’Italia è il quarto paese nell’UE per numero di procedure avviate, dopo Spagna, Regno Unito e Grecia. Su un totale di 87 procedure nel 2020 a carico dell’Italia, 16 erano per violazioni relative a regolamenti, trattati o decisioni, 53 per errata trasposizione o applicazione di direttive e 18 per tardiva trasposizione di direttive.
[24] L. RATTI, La proposta di direttiva sui salari minimi adeguati nella prospettiva di contrasto all’in-work poverty, in Dir. rel. ind., 2021, 59 ss.
[25] Ci si può basare, per queste evidenze statistiche, sulla definizione di poor sectors utilizzata nell’ambito del progetto Working, Yet Poor in base ai dati Eurostat. Così definiti certi settori poveri, è possibile identificarli in: attività di alloggio e ristorazione; supporto amministrativo e servizi; settore artistico, di intrattenimento e svago; commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di motoveicoli e altre attività di servizio.
[26] P. PASCUCCI, V. SPEZIALE, Spunti sul salario minimo dopo la Proposta di direttiva UE, cit., 760.
[27] L. ZOPPOLI, Basi giuridiche e rilevanza della proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa a salari minimi adeguati nell’Unione europea, cit., 365.
[28] Commission Staff Working Document, Impact Assessment accompanying the document Proposal for a Directive of the European Parliament and of the Council on adequate minimum wages in the European Union, cit., 155-156.
[29] J. VISSER, What happened to collective bargaining during the great recession?, in IZA Journal of Labor Policy, 2016, Vol. 5/1, 9.
[30] OECD & Jelle VISSER, OECD/AIAS ICTWSS Database. Note on definitions, measurement and sources, 2021.
[31] S. CIUCCIOVINO, Fisiologia e patologia del pluralismo contrattuale tra categoria sindacale e perimetri settoriali, in Lav. dir., 2020, 185 ss.
[32] G. CENTAMORE, Contrattazione collettiva e pluralità di categorie, BUP, Bologna, 2020, 111.
[33] Sulla base del più volte citato documento di Impact assessment elaborato dalla Commissione (p. 154), altri controesempi vengono dai Paesi Bassi e dalla Slovenia.
[34] Eurostat, Earnings statistics, Statistics explained (2021), https://ec.europa.eu/eurostat/
statistics-explained/index.php/Earnings_statistics#Low-wage_earners.
[35] W. SALVERDA, Low earnings and their drivers in relation to in-work poverty, in H. LOHMANN, I. MARX (a cura di), Handbook on In-Work Poverty, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, 2018, 26-49.
[36] B. MAÎTRE, B. NOLAN, C. WHELAN, Low-pay, in-work poverty and economic vulnerability: a comparative analysis using EU-SILC, in The Manchester School, 80(1), 2012, 99-116.
[37] Sulla Germania cfr. ad esempio M. GIESSELMANN, L. HENNIN, The different roles of low-wage work in Germany: regional, demographical and temporary variances in the poverty risk of low-paid workers, in H.-J. ANDRESS, H. LOHMAN (a cura di), The Working Poor in Europe, Edward Elgar Publishing, Cheltenham, 2008, 96-123.
[38] European Commission, Employment and Social Developments in Europe, Publications Office of the European Union, Luxembourg, 2016, 84-93.
[39] In senso critico rispetto alla visione tradizionale sui punti di forza del sistema svedese di relazioni industriali cfr. E. BENGTSSON, The origins of the Swedish wage bargaining model, in International Labour and Working-Class History, 2022, 1-17.
[40] Come correttamente osserva Sophie Robin-Olivier, il diritto del lavoro europeo si riferisce molto di rado al diritto internazionale del lavoro e nelle stesse pronunce della Corte di giustizia i riferimenti sono scarsi: cfr. S. ROBIN-OLIVIER, The relationship between international law and European labour legislation and its impact on the development of international and European social law, in International Labour Review, 2020, vol. 159, 486-487.
[41] Cfr. A. GARNERO et al., Relazione del gruppo di lavoro sugli interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia, novembre 2021, reperibile al sito: https://www.
lavoro.gov.it/priorita/Documents/Relazione-del-Gruppo-di-lavoro-sugli-Interventi-e-misure-di
-contrasto-alla-poverta-lavorativa-in-Italia.pdf.