Il presente fascicolo, curato dai proff. Gragnoli, Lassandari, Villa e Zoli è dedicato al lavoro povero in Italia e raccoglie i risultati di una parte dell’attività di ricerca svolta nell’ambito del progetto transfrontaliero «Working, Yet Poor» («WorkYP»), finanziato dall’Unione Europea nell’ambito del programma Horizon 2020 [1]. La scelta del tema è dovuta alla presa d’atto della circostanza che negli anni più recenti la povertà lavorativa è emersa come problema sociale sempre più diffuso: basti pensare che il tasso di in-work poverty (IWP) in Italia è progressivamente cresciuto fino ad attestarsi intorno al 12% nel 2019, ben al di sopra della media europea ferma al 9,2% [2].
Nel progetto WorkYP sono state individuate ed esaminate quattro categorie di soggetti particolarmente vulnerabili e sottorappresentate («VUP», ovvero Vulnerable and Underrepresented Persons), le cui condizioni impediscono il pieno godimento dei diritti e della cittadinanza. Si tratta dei prestatori subordinati standard con bassa professionalità occupati in settori poveri (VUP 1), dei lavoratori autonomi «economicamente dipendenti» (VUP 2), dei prestatori occupati con contratti a termine, part-time involontari e contratti di somministrazione di lavoro (VUP 3) e, infine, dei lavoratori a chiamata, occasionali e delle piattaforme (VUP 4). Il tipo di occupazione, infatti, incide sul rischio di povertà lavorativa, che è pari al 21,5% per i «precari» del terzo gruppo contro il 12,2% dei lavoratori subordinati standard. Seguono poi i lavoratori autonomi senza dipendenti, con un rischio pari al 18,6% e, infine, i lavoratori subordinati standard con bassa professionalità occupati in settori marginali che hanno un rischio di povertà lavorativa pari al 14,3% [3].
Prima di addentrarsi nel tema è opportuna una precisazione concettuale: per lavoratore povero (in-work poor) si intende il soggetto occupato almeno 7 mesi nell’anno di riferimento che vive in un nucleo familiare con un reddito equivalente disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale [4]. Siccome è basata sul reddito familiare equivalente, tale nozione comprende due dimensioni, una individuale e una familiare: mentre la prima è connessa all’occupazione del singolo, al salario percepito, alla durata e alla stabilità dell’impiego, la seconda dipende dalla composizione demografica ed occupazionale del nucleo familiare. Per cogliere appieno il fenomeno della povertà lavorativa è pertanto necessario considerare non solo le misure legate alla sfera individuale e all’esistenza di un rapporto di lavoro attuale o pregresso, come fanno i contributi di Giulia Marchi, Luca Ratti, Ester Villa e Carlo Zoli, ma anche quelle relative al nucleo familiare, a cui è dedicato il saggio di Nicola De Luigi e Giovanni Amerigo Giuliani. Il saggio di Andrea Lassandari si confronta invece con entrambe le dimensioni.
Per quanto la nozione di in-work poor sia più complessa di quella di low-wage worker, che coincide con il soggetto la cui remunerazione è inferiore ai 2/3 del salario orario mediano, le basse retribuzioni orarie interessano una quota elevata di lavoratori che espletano mansioni semplici e ripetitive, spesso inseriti in nuclei familiari più disagiati, nei quali la remunerazione dell’attività lavorativa rappresenta una quota rilevante del reddito complessivo. Se è vero che non incide direttamente sulla povertà lavorativa, una [continua..]