Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

indietro

stampa articolo indice fascicolo leggi articolo leggi fascicolo


Il ragionevole adattamento nell´ordinamento comunitario e in quello nazionale. Il dovere di predisporre adeguate misure organizzative quale limite al potere di recesso datoriale (di Simone D’Ascola, Ricercatore di Diritto del lavoro, Università di Pisa)


Il contributo muove dalla ricostruzione della nozione di adattamento ragionevole, che si è sviluppata progressivamente all’interno di un contesto ordinamentale multilivello e con un groviglio di fonti talora piuttosto disomogeneo. Si cerca poi di identificare la latitudine che assume nel nostro paese il dovere di adozione degli adattamenti ragionevoli, anche alla luce della più recente giurisprudenza europea e nazionale, allo scopo di definire come esso possa limitare dall’interno il potere di recesso datoriale. Nella parte finale la riflessione abbraccia una prospettiva più strettamente costituzionale con la valorizzazione dell’art. 41 Cost., novellato nel 2022, quale fondamento essenziale degli obblighi precedentemente descritti.

Parole chiave: Disabilità – accomodamenti ragionevoli – datore di lavoro – licenziamento – limitii.

Reasonable accommodation in the EU and national legal system. The duty to adopt adequate organizational measures as a limit to the employer’s power of dismissal

The contribution starts from the reconstruction of the notion of reasonable accommodation, which has progressively developed within a multilevel legal context and with a tangle of sources that are sometimes rather heterogeneous. The author then tries to identify the latitude that the duty of adopting reasonable accommodations assumes in our country, also in the light of the most recent European and national case law, in order to define how it can limit the power of dismissal of the employer. In the final part, the reflection embraces a more frankly constitutional perspective focusing on art. 41 of the Italian Constitution, as amended in 2022, which represents an essential foundation of the obligations previously described.

Keywords: Disability – reasonable accommodations – employer – dismissal – limits.

SOMMARIO:

1. Introduzione: nozioni di disabilità e parità sostanziale - 2. L’adozione dell’adattamento ragionevole come obbligo di matrice multilevel - 2.1. Il diritto internazionale e la UNCRPD - 2.2. Le fonti europee e la giurisprudenza della Corte di Giustizia - 2.3. L’ordinamento domestico - 2.3.1. Gli adattamenti ragionevoli nel diritto positivo - 3. L’adattamento ragionevole e la sua incidenza sul potere di recesso: le progressive affermazioni giudiziarie - 3.1. L’insegnamento di Cass. n. 6497/2021 - 3.2. Il bilanciamento in concreto: fra ragionevolezza e proporzionalità - 4. La prospettiva costituzionale e la tutela della salute fra vecchio e nuovo art. 41 - 4.1. Conclusione sull’adattamento ragionevole come limite interno all’ini­ziativa economica privata - NOTE


1. Introduzione: nozioni di disabilità e parità sostanziale

Se è vero che l’intero diritto del lavoro ha il compito di realizzare l’ugua­glianza sostanziale nell’ambito dei rapporti produttivi [1] – e di conseguenza nell’intera società, non solo essendo la Repubblica fondata sul lavoro, ma essendo anche noto che la maggior parte degli umani ha bisogno di lavorare per vivere – è indispensabile che esso si proponga e si sviluppi non solamente come diritto dell’uguaglianza (un sistema capace di garantire condizioni eguali per tutti in quanto stabilite da norme generali e inderogabili, provviste dei necessari dispositivi di effettività), ma anche come diritto della differenza. Oltre all’accezione, più scontata, per cui si tratta di un diritto diseguale [2], chiamato a riequilibrare i rapporti strutturalmente asimmetrici che si materializzano nel modo di produzione capitalistico, anche nel senso, più profondo e ormai condiviso, che esso deve farsi carico, attraverso molteplici livelli di regolazione e negoziazione, di fornire risposte alle necessità soggettive e individuali di protezione ed emancipazione che si manifestano nella realtà, in particolare quando esse riguardano i soggetti più fragili [3], bisognosi di un grado più avanzato di protezione. Sicuramente il dibattito sulla “riscoperta dell’individuo” [4], la riespansione dell’autonomia individuale o la soggettivazione regolativa [5] – oltre alle concrete aperture istituzionali, peraltro a fisarmonica, che emergono in quest’ot­tica – rappresentano una possibile declinazione del diritto del lavoro della differenza, ma l’altra componente è quella, tanto anziana quanto l’intera disciplina, che si fa carico di individuare coloro che, fra tutti i lavoratori e le lavoratrici, si trovano in una condizione di maggiore debolezza o fragilità personale, consentendo anche a costoro di perseguire il pieno sviluppo della propria personalità e ottenere una condizione, esistenzialmente soddisfacente, di liberazione dal bisogno. Oltre, dunque, a categorie come la lavoratrice madre e il fanciullo (che storicamente esprimono questa linea di sviluppo della disciplina), da un certo punto in avanti, il diritto del lavoro ha iniziato a occuparsi in maniera integrale delle persone disabili, cercando faticosamente di mantenere anche nei loro confronti la promessa [continua ..]


2. L’adozione dell’adattamento ragionevole come obbligo di matrice multilevel

Fra i molti modi con cui l’ordinamento tutela i lavoratori disabili, il dovere di adozione degli adattamenti ragionevoli è quello più trasversale rispetto all’intero rapporto di lavoro. Ancorché temporalmente disomogenea, l’emer­sione diffusa di questo obbligo abbraccia ormai l’ordinamento integrato, componendosi di previsioni legali, fattispecie tipizzate e principi di diritto vivente in ogni segmento del sistema giuridico multilivello. Il dovere di predisporre gli accomodamenti si configura, in capo ai datori di lavoro, come un’obbli­gazione a contenuto aperto, di non facile determinazione in concreto [18]. Essa, tuttavia, da un lato, limita la discrezionalità datoriale e ne comprime i poteri, dall’altro, proprio grazie all’elasticità del suo contenuto, è in grado di assicurare alla persona destinataria un ambiente di lavoro più favorevole e congeniale a un adeguato e diligente svolgimento della prestazione nonché, soprattutto, alla protezione della sua salute e integrità. Di per sé, l’adattamento ragionevole è la costruzione di un contesto non impeditivo e non sfavorevole per la persona disabile. Come tale, prima ancora che sul posto di lavoro, esso è una misura di giustizia sociale nello spazio pubblico [19]. Nell’intera società, infatti, occorre costruire, secondo lo spirito costituzionale, le condizioni di partecipazione alla vita pubblica, mediante la “rimozione degli ostacoli”. Nel contesto lavorativo esso assume però una specifica curvatura regolatoria. La realizzazione dell’accomodamento, infatti, consiste in una individualizzazione del trattamento (strutturalmente una deroga in melius per il beneficiario), prende di mira la condizione individuale e interferisce con la organizzazione complessiva dell’impresa predisposta dal datore di lavoro. Questa interferenza, dunque, in molti casi coinvolge anche altri lavoratori e lavoratrici. C’è insomma l’imposizione eteronoma di un intervento nei rapporti fra privati, oneroso, personalizzato e talora non del tutto preventivabile ex ante. Tutte circostanze che richiedono un forte radicamento del dovere nell’am­bito di principi fondamentali vincolanti e che impongono per la definizione della sua portata un’operazione di bilanciamento con altri principi e valori. Sarà [continua ..]


2.1. Il diritto internazionale e la UNCRPD

Il diritto internazionale si è occupato da tempo di proteggere i disabili, almeno a partire dalla Convenzione sul reinserimento professionale e l’occu­pazione (persone disabili) n. 159 adottata dall’OIL nel 1983 e accompagnata dalla Raccomandazione n. 168 sempre del 1983. Tale Convenzione [20] è entrata in vigore nel 1985 e si ritiene che sia stata ratificata dall’Italia nonostante qualche anomalia nel procedimento [21]. Fra gli obiettivi della Convenzione vi è quello di garantire misure di inserimento professionale «accessibili a tutte le categorie di persone disabili e promuovere le possibilità d’impiego delle persone disabili sul mercato libero del lavoro». Anche nell’ambito del c.d. diritto internazionale dei diritti umani si rinvengono fonti importantissime. Su tutte, la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità (UNCRPD, secondo il diffuso acronimo inglese), approvata nel 2006 ed in vigore dal 2008. La Convenzione è stata da tempo ratificata dall’UE (2011) e dai 27 Stati membri (in Italia con la legge n. 18/2009). Essa costituisce un tipico strumento di intervento dell’ONU a tutela di una particolare categoria (i diritti di una specifica classe di soggetti) e propone una riscrittura di alcuni tradizionali diritti (affermati per la generalità degli individui) alla luce della condizione di disabilità, con la finalità di assicurare che essi siano garantiti ed effettivi anche per le persone affette da disabilità. Queste ultime sono individuate all’art. 1, par. 2, come coloro che «hanno una invalidità [22] di lunga durata fisica, mentale, cognitiva o sensoriale, che interagendo con varie barriere può ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su basi analoghe agli altri». Nella Convenzione si propone un approccio sociale alla disabilità, con la convinzione che essa alberghi nella società, più che nella persona: le barriere incontrate dalle persone disabili non derivano dalla persona stessa, ma sono di tipo sociale e ambientale [23]. Per la Convenzione occorre indirizzare al meglio l’interazione con tali barriere, in maniera che la persona disabile sia il più possibile integrata, con una focalizzazione sul contesto sociale, che deve adeguarsi, e non sull’individuo. I principi [continua ..]


2.2. Le fonti europee e la giurisprudenza della Corte di Giustizia

Alla disciplina internazionale, si aggiunge il diritto dell’Unione che, forte di una storica primazia nella diffusione dell’acquis antidiscriminatorio [26], riveste un ruolo fondamentale nella implementazione, da parte degli ordinamenti statuali, di regole a tutela del disabile [27]. Ciò anche in forza della Convenzione Onu, vincolante sulla base dell’art. 216 TFUE, e dunque integrante il diritto eurounitario in posizione sovraordinata rispetto al diritto derivato, ma inferiore rispetto ai Trattati [28]. La Corte di Giustizia, nel già citato caso HK Danmark, ha precisato che, in virtù della primazia delle norme di diritto internazionale fatte proprie dal­l’Unione, direttive e regolamenti devono essere quanto più possibile conformi alle Convenzioni internazionali. In altra pronuncia dello stesso periodo ha però riconosciuto che le previsioni della UNCRPD non possono avere “effetto diretto” poiché non hanno un contenuto sufficientemente preciso, autosufficiente e incondizionato [29]. Volgendo lo sguardo al diritto UE in senso stretto, deve segnalarsi anzitutto la rilevanza degli artt. 10 e 19 del TFUE e degli artt. 21 [30] e 26 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, quali disposizioni che forniscono una base per collocare in termini sistematici le discipline relative alle persone disabili. Le prime tre norme richiamano il principio di non discriminazione, mentre la quarta è espressamente dedicata all’inserimento sociale delle persone con disabilità. In questo quadro, composto dai principi della UNCRPD e da quelli delle Carte fondamentali dell’Unione, si inscrivono tutte le discipline di dettaglio relative alla disabilità, tra le quali si annoverano anche eccezioni al divieto generale di aiuti di Stato (le regole del c.d. GBER, ossia il “General block exemption regulation”). Lo strumento di diritto derivato più significativo è però, naturalmente, la direttiva 2000/78/CE, in tema di parità di trattamento sul lavoro e non discriminazione. Essa include la disabilità tra i fattori tipizzati rispetto ai quali vige il divieto per gli stati membri di porre in essere trattamenti discriminatori nell’ambito del lavoro, del collocamento e della formazione professionale, consentendo deroghe solo per le forze armate (art. 3, par. 4). La direttiva non [continua ..]


2.3. L’ordinamento domestico

Prima di addentrarci nello studio della realtà giuridica nazionale, giova tenere presente che l’Italia si trova in una situazione ancora largamente insoddisfacente con riferimento all’inserimento lavorativo delle persone disabili, come testimoniano i dati ufficiali del 2021 [34] (e la pandemia ha purtroppo inciso negativamente, anche alla luce della sospensione di alcuni obblighi di assunzione delle categorie protette). Oltre alle modeste percentuali di disabili impiegati, è piuttosto comune la loro fuoriuscita anticipata dal mercato del lavoro a cui non segue un rientro. Il tutto con conseguenze sociali significative in termini di appesantimento dei carichi familiari e alimentazione di “nuove povertà”. Cionondimeno, l’ordinamento ha compiuto molti passi in avanti nell’ulti­mo ventennio, consentendo di poter dire che, ad oggi, le arretratezze che dipendono dalla ineffettività e disapplicazione del diritto esistente superano leggermente quelle che derivano dalle lacune del quadro offerto dal diritto positivo e vivente [35]. In particolare, focalizzando lo sguardo sul dovere di adozione degli accomodamenti ragionevoli (il cui fondamento sarà delineato nel prossimo paragrafo), è apprezzabile lo sforzo realizzato con il d.lgs. n. 151/2015 introducendo il Fondo regionale per l’occupazione dei disabili (che si alimenta anche con le sanzioni per violazione della legge n. 68/199) [36].


2.3.1. Gli adattamenti ragionevoli nel diritto positivo

Limitando il breve excursus all’ultimo trentennio, si deve ricordare che la legge n. 104/1992 ha avviato la rivisitazione del quadro normativo: oltre a fornire una definizione di portatore di handicap all’art. 3 («colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione»), ha promosso la formazione e l’addestramento professionale delle persone disabili, garantendo incentivi e sussidi. Successivamente, con la legge n. 68/1999 (molte volte novellata fino agli anni più recenti), si è modernizzato il collocamento mirato [37] incentrando il meccanismo sulle caratteristiche e competenze personali della persona disabile e sulle necessità effettive dell’impresa, che devono incontrarsi, coinvolgendo le autorità amministrative locali. Dal punto di vista della nozione di disabilità, la legge del 1999 elenca una serie di categorie protette: «persone in età lavorativa affette da minorazioni fisiche, psichiche o sensoriali e portatori di handicap intellettivi, che comportino una riduzione della capacità lavorativa superiore al 45%, accertata dalle competenti commissioni per il riconoscimento dell’invalidità civile», «persone invalide del lavoro con un grado di invalidità superiore al 33%, accertata dal­l’INAIL», ciechi, sordomuti e invalidi di guerra e civili. Si tratta di un approccio medico, in grado di fornire appigli certi per l’individuazione dei destinatari, ma che verrà poi arricchito dalla progressiva diffusione delle nozioni europee, specie ai fini degli adattamenti ragionevoli. Proprio con riferimento a questi ultimi, nella legge n. 68 occorre menzionare l’importante art. 10. Esso, al comma 2 prevede che il datore «non può chiedere al disabile un prestazione non compatibile con le sue minorazioni» e, nel caso di aggravamento della condizione del disabile, già come tale assunto, se emergono difficoltà nella prosecuzione della prestazione, il lavoratore ha diritto a una sospensione retribuita e, se ciò non risolve l’incompatibilità, il licenziamento può intervenire solo ove (comma 3) «anche attuando i possibili adattamenti [continua ..]


3. L’adattamento ragionevole e la sua incidenza sul potere di recesso: le progressive affermazioni giudiziarie

La prima significativa tappa giurisprudenziale è rappresentata dalla nota Cass., sez. un., n. 7755/1998 [42]: per decidere della legittimità del licenziamento per g.m.o. in caso di infermità permanente sopravvenuta (che rendesse ineseguibili le mansioni), per la prima volta tale pronunciamento ha gravato il datore di lavoro dell’onere di verificare preventivamente la possibilità di reimpiegare del dipendente adibendolo a «mansioni equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori», così elaborando uno specifico obbligo di repêchage riferito alla sopravvenuta idoneità fisica alle mansioni. Tale obbligo trovava un limite non valicabile nell’«assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore» [43]. Il perimetro delle scelte organizzative, che afferiscono alla discrezionalità di chi esercita l’iniziativa economica ex art. 41 Cost, risultava dunque intangibile – anche affinché fossero «preservati gli equilibri finanziari» – e la modifica delle mansioni del lavoratore interessato non avrebbe potuto incidere sull’organizzazione produttiva, né, tantomeno, sulla posizione di altri lavoratori. Solo più tardi il principio di insindacabilità delle scelte datoriali organizzative – cui anche l’art. 30 del “Collegato lavoro” (legge n. 183/2010) ha provato a dare ulteriore vigore – è stato eroso (peraltro, solo in specifici casi tipizzati) e la materia degli adattamenti ragionevoli ha rappresentato una delle leve di tale trasformazione [44]. Si è infatti preso atto, sulla scorta dell’evoluzione del diritto positivo e di quello sovranazionale, che la tutela della persona colpita da disabilità – o comunque da una condizione di impossibilità [45] riconducibile alla salute – non dovesse sempre soccombere rispetto alla libertà di impresa: la garanzia della continuità occupazionale (in condizioni salubri, sicure e adeguate per la specifica soggettività coinvolta) rappresenta infatti un bene primario [46]. Il nodo, però, è evidentemente rappresentato dalla latitudine di questo bilanciamento: fino a dove è possibile pretendere dal datore di lavoro di riarticolare la propria organizzazione per soddisfare questa esigenza? Per rispondere [continua ..]


3.1. L’insegnamento di Cass. n. 6497/2021

Giunti a questo punto, occorre soffermarsi sull’arresto più importante e recente, che senz’altro orienterà le decisioni della giurisprudenza – di merito e non solo – nei prossimi anni. Cass. 9 marzo 2021, n. 6497 [55], infatti, ha fornito un contributo non meramente ricognitivo e di grande importanza, anche in virtù dello sforzo argomentativo profuso su concetti per certi versi evanescenti [56]. Come si vedrà, la sentenza insegna che in tema di accomodamenti ragionevoli esiste un obbligo di impiego della ragionevolezza nella condotta datoriale, controllabile in giudizio; cosa che in linea di massima si ritiene non sussistere con riferimento alla generalità degli atti del datore di lavoro. Il Collegio – posto di fronte al ricorso di un azienda contro un soggetto divento inidoneo alle mansioni e il cui licenziamento era stato già annullato in primo e secondo grado con condanna alla reintegrazione – opera in primo luogo una ricostruzione delle fonti normative applicabili al caso di specie (nel quale l’afferenza della condizione psicofisica del lavoratore all’area della disabilità era pacifica), propendendo per la nozione ampia di disabilità e identificando chiaramente il punto di caduta della legittimità o meno del licenziamento (id est della sussistenza o meno del g.m.o.) nella necessaria preventiva adozione di accomodamenti ragionevoli e proporzionati da parte del datore di lavoro, onerato di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per trovare al­l’interno della propria organizzazione aziendale una occupazione adeguata per il lavoratore divenuto inidoneo, fermo soltanto il limite «non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui» [57], ma con il dovere di effettuare comunque una comparazione delle posizioni soggettive (oltre che fra datore e lavoratore coinvolto) anche fra il lavoratore inidoneo e gli altri lavoratori. La pronuncia fa apertamente i conti con un legislatore che «ha deliberatamente scelto di trasporre nell’ordinamento interno la formula delle fonti sovranazionali affidandosi ad una nozione a contenuto variabile che ha come caratteristica strutturale l’indeterminatezza». Questo è l’accomodamento ragionevole per la Cassazione: una misura organizzativa che va concretizzata caso per caso, in [continua ..]


3.2. Il bilanciamento in concreto: fra ragionevolezza e proporzionalità

Individuare con esattezza la soglia oltre la quale il datore non è tenuto ad implementare gli adattamenti organizzativi, in quanto sproporzionatamente gravosi, è sempre operazione complessa [62], ma ai sensi dell’art. 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216/2003 (integrato dalla normativa europea e dalla UNCRPD), i parametri dell’obbligo datoriale di adattamento dell’organizzazione sono due e sono distinti: vi è anzitutto la ragionevolezza, poiché ragionevole è l’ag­gettivo che qualifica l’accomodamento. In secondo luogo vi è la non sproporzione. La ragionevolezza, ad avviso della Cassazione [63], deve essere ricondotta al generale canone di correttezza e buona fede che dà la misura dell’esecuzione dei rapporti giuridici obbligatori, avendo anche riguardo dei controinteressati, fra cui ci sono gli altri lavoratori [64], e della natura dell’attività di impresa. In particolare, si deve ritenere doveroso incidere sull’organizzazione imprenditoriale determinata dal datore se questo non snatura l’attività stessa e si può inoltre modificare la prestazione di altri lavoratori (ad esempio con uno scambio di mansioni o una rotazione) se questo non ne lede la professionalità, né sacrifica l’interesse di questi ultimi in maniera superiore a un grado ordinario di tollerabilità (come accadrebbe ad esempio imponendo un trasferimento di altro lavoratore presso una sede molto più distante dalla propria abitazione). La non sproporzione, invece, attiene prevalentemente al piano economico (cfr. considerando 21 della direttiva), ossia al costo che il datore deve sostenere per adottare la misura di adattamento, anche se non si può escludere a priori una declinazione della proporzionalità anche in senso organizzativo. Per valutare la proporzionalità del sacrificio esigibile da parte del titolare dell’organizzazione imprenditoriale è possibile impiegare parametri soggettivi e oggettivi [65]. I parametri soggettivi si riflettono sul soggetto obbligato (il datore). Alla stregua di questi per valutare la proporzionalità di un costo si può tenere in considerazione il numero complessivo di dipendenti, la dimensione dell’azienda, il rapporto fra il fatturato e l’utile di bilancio, eventuali situazioni di crisi dell’azienda etc. I parametri [continua ..]


4. La prospettiva costituzionale e la tutela della salute fra vecchio e nuovo art. 41

Alle spalle della tematica sin qui trattata, si agita, come sempre, la dialettica fra alcuni principi di rango costituzionale. A questo proposito, si proverà di seguito a svolgere alcune brevi riflessioni sul ruolo dell’art. 41 Cost. con riferimento agli accomodamenti ragionevoli, a partire dalla formulazione che esso ha avuto sino alla primavera del 2022, per poi giudicare l’impatto della recente riforma. L’art. 41, infatti, era ovviamente rilevantissimo in subiecta materia già prima della modifica: il divieto di contrasto con «la sicurezza, la libertà e la dignità umana» ha sempre postulato nelle interpretazioni più avanzate una centralità della protezione della persona ad ampio raggio quale vincolo della libertà di impresa. L’art. 41 [69] (commi 1 e 2) stabilisce infatti che «L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana». L’assegnazione di “fini sociali” all’attività economica è patrimonio comune del costituzionalismo democratico-sociale del secondo novecento e richiede una legislazione e un intervento dello stato nel sistema economico allo scopo di perimetrare entro alcune coordinate essenziali l’iniziativa imprenditoriale, con una consistenza variabile nel corso del tempo. Il limite dell’utilità sociale ha natura elastica [70] e non chiarisce immediatamente a quale tipo di vincoli può condurre nel quadro del governo democratico dell’economia. Oltre all’utilità sociale – nell’art. 41 vecchio testo – sono contemplati i limiti della sicurezza, della libertà e della dignità dell’uomo. La dignità, proprio per la sua genericità [71], può avere grande ampiezza. Da essa infatti difficilmente si possono ricavare positivamente specifici diritti, ma nell’inter­pretazione della Consulta la dignità è «un parametro di valutazione delle leggi regolatrici degli imprenditori verso i prestatori di lavoro subordinato» [72]. Sicurezza, libertà e dignità, unitamente al fine sociale, debbono considerarsi nel complesso come una “tabella dei limiti” in cui si iscrivono (potenzialmente [continua ..]


4.1. Conclusione sull’adattamento ragionevole come limite interno all’ini­ziativa economica privata

Ancora sul ruolo dell’art. 41 Cost. bisogna quindi attestarsi per descrivere in quali termini esso possa limitare dall’interno il contenuto e i margini di espansione dell’iniziativa economica. Occorre farlo anzitutto tenendo presente che, come anche risalente dottrina evidenzia [84], tale disposizione costituzionale non si limita, nel secondo comma, a salvaguardare l’esigenza della parte più debole del rapporto (chi è, dialetticamente, interlocutore del titolare del capitale) [85], ma recepisce specifici interessi sociali, elevandoli a interessi pubblici. Ciò significa che la tutela della salute, inserita nell’art. 41, è anzitutto, in assenza di specificazioni, da intendersi come salute pubblica, cioè come salute quale bene diffuso. La tutela della salute dei lavoratori rappresenta certamente un interesse sociale (riferibile a tutti i soggetti che, operando nelle imprese, mettono in gioco la propria persona ed espongono a rischi la propria salute) che diviene però interesse pubblico, perché l’intera società trae giovamento dal fatto che un maggior numero di persone vivano in modo sano e godano di un certo grado di benessere esistenziale. È ciò che esattamente indica l’art. 32 Cost. parlando di “interesse della collettività”. La saldatura fra le indicazioni inerenti all’in sé del valore costituito dalla tutela della salute (provenienti dall’art. 32) e la sua collocazione all’interno dei controlimiti di cui all’art. 41 richiede che la protezione della salute dei lavoratori costituisca un limite originario dell’esercizio della libertà di impresa: non si dà mai impresa senza tutelare la salute. Di tutta evidenza è inoltre che tale postulato ha una valenza originaria (“genetica”), ma anche evolutiva (“funzionale”), di talché l’esercizio dei poteri organizzativi attribuiti al datore deve costantemente misurarsi con i vincoli dell’art. 41: non è un caso che, anche con riferimento al licenziamento per g.m.o. tout court, nella galassia di opinioni, più o meno vicine all’idea del medesimo come extrema ratio, il punto di riferimento costituzionale sia inevitabilmente costituito dalla valenza che si attribuisce alla disposizione costituzionale in parola [86]. Pertanto, in una ipotesi particolarmente [continua ..]


NOTE