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Di alcuni profili processuali problematici (e connessi risvolti sostanziali) del lavoro nelle società cooperative
Valerio Maio (Professore Ordinario di diritto del lavoro dell’Università Unitelma Sapienza di Roma)
Il presente scritto sarà destinato alla pubblicazione nel Liber amicorum per il Prof. Giuseppe Santoro Passarelli.
Il saggio analizza le problematiche processuali connesse al doppio rapporto giuridico, mutualistico e lavoristico, che si instaura tra socio lavoratore e cooperativa. Sono sottoposti a revisione critica entrambi gli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali che affermano o negano la prevalenza del giudice del lavoro e del rito del lavoro. Viene rilevata la tendenza dei giudici alla progressiva equiparazione delle garanzie fondamentali tipiche del licenziamento anche in tema di valutazione della legittimità del recesso dal rapporto associativo. Infine è analizzata alla luce delle più recenti riforme (legge n. 92/2012 e d.lgs. n. 23/2015) la portata residua della tutela reintegratoria anche con riguardo al lavoro nelle cooperative e la questione del cd. forum shopping.
Abstract in inglese: this essay analyzes the procedural problem connected to the double juridical relationship, that is established among partner worker and cooperative through mutual and employment contracts. This paper criticizes both the judgments and doctrinal sentences that they affirm or they deny the supremacy of the specialized judge in labor law. Also, the essay studies the tendency of the judges to the progressive implementation of the fundamental guarantees typical of the dismissal to the right to withdraw from the associative relationship. Finally, analyzes what are the opportunities to be reinstated for partner workers, following the recent reforms of Italian labour market, and the forum shopping topic.
Keywords: Cooperative work, jurisdiction of the court, redundancy, right to withdraw, forum shopping
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1. Inquadramento
L’interesse dei cultori del diritto del lavoro per i risvolti processuali del lavoro prestato nell’ambito dello schema contrattuale della cooperativa di lavoro o di produzione e lavoro è noto e risalente [2].
E si spiega agevolmente con il fatto che la dinamica processuale, anche a ragione delle connesse evoluzioni normative e giurisprudenziali di cui diremo, è stata negli anni in grado di evidenziare, in maniera plastica, il nodo politico irrisolto che restava sotteso alla disciplina del lavoro in cooperativa, consistente in un esplicito, prima generale e poi mirato, ridimensionamento delle tutele lavoristiche [3].
Ridimensionamento al cospetto del quale, ad onore del vero, si è sempre faticato a trovare una giustificazione logica, semplicemente discettando della specialità tipologica o dell’impegno promozionale assunto all’art. 45 Cost.
Nel senso che – vogliamo qui dire in premessa con la massima chiarezza – condivisibilmente si è a lungo stentato a credere che “i mezzi più idonei” evocati in Costituzione, per promuovere ed incrementare il metodo mutualistico all’interno di una economica prevalentemente capitalistica e, perciò, geneticamente votata a fini di speculazione privata, dovessero coincidere con un ridimensionamento delle tutele appannaggio della persona che lavora mutualisticamente rispetto allo standard contrattuale di riferimento.
Ad ogni modo, che se ne avvertisse o meno la contraddizione, il ridimensionamento delle tutele ha segnato storicamente per molto tempo la materia, e, per certuni aspetti, continua ad essere tutt’oggi un tema, anche a seguito del riconoscimento dello status di “rapporto speciale” [4]ai rapporti mutualistici che abbiano ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio (v. art. 1 della legge n. 142/2001) [5].
Possono, infatti, venire interpretati in tal senso, da un lato, la nota “esclusione dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo” (così l’art. 2, comma 1, legge n. 142/2001). Per quanto non manchino a suffragio dell’esclusione significativi profili di specialità di cui diremo e, comunque, la recente progressiva generale marginalizzazione della cd. tutela reale abbia notevolmente ridotto sul punto il differenziale.
Dall’altro lato, la travagliata attribuzione al giudice ordinario della competenza nelle “controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica” (art. 5, comma 2, secondo periodo, legge cit.).
Proprio con riguardo a questo aspetto centrale nell’economia di queste pagine, va qui considerato che lo snodo processuale relativo all’applicazione del rito del lavoro comporta ricadute concrete tutt’altro che simboliche e certamente non liquidabili con la retorica del giudice specializzato o del carattere paritario tipico dei riti ordinario o societario, tanto più che quella retorica segnala pur sempre esigenze chiaramente percepite dalla parte debole del contratto di lavoro [6].
Basti pensare che, al di là di una maggiore celerità e minore onerosità complessiva, l’applicazione del processo del lavoro, in luogo di quello ordinario (civile, societario o dell’impresa, come si dirà), attribuisce al giudice poteri istruttori ufficiosi (art. 421 c.p.c.), consente la rivalutazione automatica dei crediti della parte debole del rapporto di lavoro (art. 429, comma 3, c.p.c.), legittima con certezza l’applicazione dell’art. 2113 c.c. [7], di fatto inibisce la deferibilità delle controversie ad arbitri abilitati a decidere secondo equità (cfr. art. 806, comma 2, c.p.c.) [8].
2. Il cd. doppio rapporto alla prova del processo
Allo stesso tempo, va pure considerato che, l’avere il legislatore adottato un modello normativo fondato sul cd. doppio rapporto [9] – un primo rapporto associativo che scaturisce dall’“adesione” alla mutualità, cui poi si somma l’“ulteriore” rapporto giuslavoristico, derivante dalla stipulazione del contratto di lavoro [10], subordinato o autonomo, per mezzo del quale il lavoratore “contribuisce comunque al raggiungimento degli scopi sociali” – non poteva non avere profonde implicazioni anzitutto sul versante del recesso e della sua impugnazione e, dunque, poi, anche del processo, che puntualmente ne viene originato.
La legge ha, infatti, introdotto un complesso regime binario, giusta il quale “il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l’esclusione del socio”. Recesso od esclusione che devono in ogni caso venire “deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie” ed in conformità con la disciplina speciale dettata dal Codice Civile (art. 5, comma 2, primo periodo, legge n. 142/2001).
Ma l’applicazione della disciplina codicistica regolativa dell’esclusione del socio, fa sì che la relazione mutualistica possa venire risolta dalla cooperativa soltanto nei casi di legge o previsti dall’atto costitutivo. Che, a loro volta, non necessariamente devono avere una diretta rilevanza giuslavoristica. Si pensi al caso emblematico del mancato pagamento delle quote o delle azioni sottoscritte ex art. 2531 c.c., o alla mancanza o perdita dei requisiti previsti per la partecipazione alla mutualità ex art. 2533 c.c., o alla assenza ad un certo numero di assemblee sociali secondo quanto prevede lo statuto, ecc.
Nondimeno, la più parte dei casi di esclusione previsti dalla legge o dall’atto costitutivo hanno, invece, indiscutibile rilevanza anche quali cause di recesso dal rapporto di lavoro. Basterebbe considerare le “gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge, dal contratto sociale, dal regolamento o dal rapporto mutualistico” (di cui parla l’art. 2533 c.c.) o la “sopravvenuta inidoneità a svolgere l’opera conferita” (di cui all’art. 2286 c.c.).
Ragion per cui, può ben darsi che la medesima circostanza di fatto o condotta inadempiente possa rilevare quale causa risolutiva per entrambi i rapporti, mutualistico e di lavoro.
Il che pone, inevitabilmente, delicati e frequenti problemi di coordinamento tra le discipline sostanziali e processuali societaria e lavoristica.
Basti avere a mente che “contro” l’esclusione del socio lavoratore, “deliberata dagli amministratori o, se l’atto costitutivo lo prevede, dall’assemblea”, questi deve necessariamente “proporre opposizione al tribunale, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione” (art. 2533 c.c.).
Laddove, invece, l’impugnazione del licenziamento del lavoratore subordinato, come anche del recesso dal rapporto di collaborazione coordinata e continuativa soggiacciono notoriamente a tutt’altri termini decadenziali, stante il combinato disposto degli artt. 6 della legge n. 604/1966 e 32 della legge n. 183/2010, salvo poi confluire nell’area di competenza del giudice del lavoro ex artt. 409 ss. c.p.c.
In sostanza, la complessa e contestata [11] sistemazione operata nel 2001 da un legislatore mosso eminentemente da finalità antifraudolente ha, inevitabilmente, dato origine anche sul versante processuale a notevoli complicazioni applicative e frequenti dubbi interpretativi.
3. Giudice e rito nell’evoluzione normativa del lavoro in cooperativa
Al punto che è, con ogni probabilità, impossibile e, prima ancora, sostanzialmente inutile, tentare di definire ed analizzare l’assetto che va oggi assumendo lo scenario processuale del lavoro in cooperativa, senza prima muovere dall’adattamento della disciplina legale che è stato incessantemente operato in sede giudiziale in questi ultimi venti anni.
In tal senso è, infatti, ancora oggi necessario andare a ritroso quantomeno fino alla nota sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite del 1998, che, mancando uno specifico riferimento normativo, per l’effetto di una ritenuta equiparabilità con le controversie regolate dall’art. 409 c.p.c., nonché sulla scorta del progressivo adattamento al socio lavoratore di molteplici tutele sostanziali proprie del lavoratore subordinato, operò la nota devoluzione extra legem al giudice del lavoro di tutte le controversie fra socio e cooperativa di produzione e lavoro, comprese quelle attinenti a prestazioni lavorative che il patto sociale poneva a carico dei soci o che, comunque, dovevano essere svolte nell’esercizio e per il conseguimento dei fini istituzionali dell’ente, e che, pertanto, sarebbe stato possibile ricondurre al rapporto associativo [12].
È possibile che proprio il troppo di vigore che venne allora imputato all’intervento delle sezioni unite della Cassazione abbia, poi, ispirato nel legislatore l’originaria regola sulla ripartizione della competenza processuale. Allorché, il lettore ricorderà, con l’art. 5 della legge n. 142/2001 si tentò la non facile distinzione tra le “controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma” devolute alla “competenza funzionale del giudice del lavoro” ed attratte al rito del lavoro (“per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile”) e le “controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto mutualistico” che, invece, “resta(va)no [13] di competenza del giudice civile”.
In sostanza, veniva rimesso al bilanciamento dell’interprete il ridimensionamento della competenza che in precedenza era stata attribuita dalle sezioni unite della Corte di Cassazione, in maniera pressoché generalizzata, al giudice del lavoro. Senza, però, chiarire con la auspicata nettezza il confine tra le due fattispecie distintamente regolate, specie nei casi più ardui, tra cui, ovviamente, quello dell’esclusione e contestuale licenziamento del socio.
Pragmaticamente, la dottrina e la giurisprudenza largamente maggioritari propesero allora per la necessità di cogliere all’interno del sistema elementi di semplificazione del quadro normativo. Tra questi il degradare della questione di competenza a mera questione di rito, per l’effetto del tramonto dell’ufficio pretorile del lavoro e la contestuale generalizzazione del giudice civile monocratico di primo grado (d.lgs. n. 51/1998). Nonché, la valorizzazione dell’art. 40, comma 3, c.p.c., con conseguente applicazione del rito speciale del lavoro nel caso frequente di riunione di controversie, mutualistica e giuslavoristica, dinanzi al medesimo giudice.
Nel quadro siffatto, come noto, è poi intervenuto l’art. 9 della legge (delega per la riforma del mercato del lavoro, cd. Riforma Biagi) n. 30/2003, che sostituì la precedente formulazione dell’art. 5 della legge n. 142/2001 con un unico esplicito riferimento alla “competenza del tribunale ordinario” per le “controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica”. Senza, dunque, affatto nominare giudice e rito del lavoro [14], che pure, nella sostanza, restavano evocati, quantomeno ragionando per via di esclusione logica.
E, soprattutto, senza esattamente chiarire nemmeno in questa occasione cosa debba intendersi per “prestazione mutualistica”, ammesso che si tratti di qualcosa di diverso dal “rapporto mutualistico” su cui faceva perno la precedente formulazione.
Non bastasse, a complicare provvisoriamente il quadro interveniva anche l’introduzione del rito speciale societario che, nel caso di connessione di cause assoggettabili al rito speciale del lavoro ovvero al rito parimenti speciale cd. societario, stante l’art. 1 del d.lgs. n. 5/2003, sembrava poter mettere in discussione la forza precettiva dell’art. 40, comma 3, c.p.c. e, dunque, la capacità attrattiva del processo del lavoro.
Senonché, almeno questa complicazione è poi venuta meno per effetto dell’intervento operato dalla Consulta con la sentenza n. 71/2008 [15]. In un caso di potenziale concorso tra rito del lavoro e rito societario, perché avente ad oggetto l’accertamento della natura subordinata del rapporto tra socio di lavoro e cooperativa e la conseguente declaratoria di illegittimità dell’atto di risoluzione del rapporto mutualistico, i giudici delle leggi, rilevato il difetto di delega ex art. 76 Cost., hanno riconosciuto la incostituzionalità della prevalenza del rito societario ex art. 1 del d.lgs. n. 5 cit.
La soluzione individuata nel 2008 dalla Consulta nell’ipotesi come visto di connessione tra procedimenti regolati da riti diversi, ma necessitanti di simultaneus processus, è stata poi ratificata dall’art. 54, comma 5, della legge n. 69/2009 che abrogò il cd. rito societario di cui al d.lgs. n. 5/2003. Quella soluzione non ha, però, contribuito a chiarire i confini del riparto tra rito ordinario e del lavoro, perché nulla ha detto in merito a cosa debba intendersi per “prestazione mutualistica”.
Ragion per cui nell’ultimo decennio abbiamo assistito al progressivo divaricarsi di due divergenti interpretazioni.
4. (Segue) … La tesi che minimizza il ruolo del giudice del lavoro: critica
Una prima diffusa interpretazione ha letto nella nuova formulazione dell’art. 5 cit. il dichiarato intento del legislatore di ricentralizzare, anche con riguardo al profilo processuale, la disciplina del lavoro in cooperativa sul rapporto associativo, a discapito di quello lavorativo [16].
Si è parlato in tal senso di “controriforma” [17] del lavoro in cooperativa, nel senso della riaffermazione del primato mutualistico sul rapporto lavoristico, ovvero, in maniera più sfumata, della instaurazione di una relazione di dipendenza o consequenzialità logico giuridica tra rapporto di lavoro e rapporto mutualistico.
Per i fautori di questa interpretazione la riforma avrebbe, in sostanza, operato anche sul piano processuale con l’intenzione di marginalizzare rito e giudice del lavoro, relegandoli, perciò, ai soli casi nei quali non rileva in alcun modo il profilo associativo.
Per “prestazione mutualistica” si dovrebbe quindi intendere qualsiasi prestazione nella quale è implicata la relazione associativa, ivi compresa la prestazione lavorativa che ne costituisce, nel caso del socio di lavoro, ragione ed adempimento.
Tra i casi di applicazione residuale del processo del lavoro rientrerebbero certamente, secondo questa impostazione, le controversie in tema di sicurezza sul lavoro, ovvero sulle componenti lavoristiche del trattamento economico, o su diritti previdenziali. Così pure, a quanto consta, non si dubita della riconducibilità al processo del lavoro delle controversie sull’applicazione dello Statuto dei lavoratori o sull’esercizio dei diritti sindacali come determinati dalla contrattazione collettiva (v. art. 2, comma 1, come modificato dall’art. 9 della legge n. 30/2003), ivi comprendendo anche il procedimento speciale per la repressione della condotta antisindacale [18].
E, sempre secondo questa impostazione, restavano, altresì, attratti al processo del lavoro anche i casi nei quali il profilo associativo non rileva in causa direttamente, ma resta “sullo sfondo”, come, ad esempio, quando il socio rivendica la natura fittizia della cooperativa e chiede, pertanto, l’accertamento della fattispecie standard lavoro subordinato; o quando la cooperativa provvede esclusivamente al licenziamento del socio lavoratore subordinato, senza cioè contestualmente recedere anche dal rapporto mutualistico deliberando la esclusione del socio [19].
Diversamente, resterebbero refrattari al processo del lavoro tutti i casi, che poi sono i più numerosi, nei quali i due profili appaiono inevitabilmente connessi. Fra questi il contenzioso, quantitativamente e qualitativamente più rilevante, sull’esclusione del socio e sul suo contestuale licenziamento.
Questa interpretazione è stata fatta propria anche da una parte della giurisprudenza, che valorizza la revisione della regola sul recesso unitamente alla soppressione, come noto disposta dal legislatore del 2003, dell’aggettivo “distinto”, al punto da ricavarne una più ampia “valenza sistematica”, che andrebbe nel senso della affermazione di un vincolo di “dipendenza del rapporto lavorativo da quello societario” e dell’assoggettamento a rito ordinario di eventuali cause connesse [20].
Senonché, una lettura di questo tipo, cioè tutta orientata a cogliere ed enfatizzare quella che sarebbe stata una ben determinata intentio legis (id est riaffermare il primato del rapporto associativo) si spiega poco, o non si spiega affatto, con riguardo al profilo processuale.
L’art. 5 della legge n. 142/2001, come novellato dall’art. 9, comma 1, lett. d), legge n. 30/2003, ci sembra, infatti, non supportare una simile lettura, a meno di stravolgerne il senso letterale.
E del resto, con l’ordinanza della Consulta n. 460/2006 si è registrato il punto di palese emersione nel dibattito delle fragilità insite nella tesi che, identificando “prestazione mutualistica” (di cui all’art. 5 della legge n. 142/2001 come riformulato nel 2003) e “prestazione di attività lavorative”, riduce al massimo gli spazi di intervento del giudice del lavoro.
Perché, in quella occasione, il giudice remittente, proprio per sostanziare anche con specifico riguardo ai profili processuali l’accusa di incostituzionalità della (ritenuta tale) contro-riforma processuale, che sarebbe stata operata dal legislatore del 2003 novellando l’art. 5 della legge n. 142/2001, si è trovato a dover forzare oltremodo il dato letterale, introducendo argomenti destinati, irrimediabilmente, a manifesta inammissibilità [21].
Ed ha così sostenuto che per “prestazione mutualistica” dovremmo intendere la prestazione lavorativa, perché l’art. 1 della legge n. 142/2001 si riferisce alle cooperative nelle quali il rapporto mutualistico ha “ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio”.
Solo che una simile affermazione non prova abbastanza, visto che, anche ammettendo un collegamento forte e diretto tra art. 1 e art. 5 della legge n. 142/2001, non è affatto possibile escludere la possibilità che il legislatore nell’art. 5 abbia, invece, inteso ragionare in termini di prestazione mutualistica “ulteriore”, in esatta simmetria con l’assetto binario dei due rapporti che il legislatore del 2003 ha, comunque, espressamente preservato.
Tant’è che il legislatore ha utilizzato nei due richiamati artt. 1 e 5 espressioni volutamente diverse – e cioè “prestazione mutualistica” e “prestazione di attività lavorative” – che, invece, l’interpretazione in esame finisce forzosamente per uniformare.
Allo stesso tempo, prova decisamente “troppo” l’argomento “sistematico” giusta il quale il legislatore avrebbe senz’altro inteso marginalizzare il rito del lavoro, perché altrimenti “sarebbe difficilmente giustificabile, sul piano razionale, un intervento del legislatore di novellazione di una norma attraverso altra norma di contenuto sostanzialmente identico” [22].
Un simile ragionamento si fonda, a ben vedere, soltanto su di una sorta di sospetto che graverebbe sul legislatore. Che, invece, in sede di revisione dell’art. 5 cit., potrebbe, molto più semplicemente, avere ritenuto (a torto o ragione è altro discorso) l’attuale formulazione più chiara e meno ridondante della precedente, non a caso epurata anche dai precedenti inutili riferimenti alle procedure conciliative [23].
5. (Segue) … La tesi che massimizza il ruolo del giudice del lavoro: condivisibilità, ma con limiti
Preso atto delle incertezze appena registrate, nonché, va detto, anche della oggettiva imperscrutabilità della formula legis adottata nel 2003, non stupisce, allora, che nel medesimo lasso temporale, si sia consolidato anche un orientamento interpretativo del tutto divergente, volto, di contro, a massimizzare la competenza del giudice del lavoro e l’applicazione del rito del lavoro.
Secondo questa contrapposta impostazione, la riforma dell’art. 5 cit. avrebbe omesso ogni riferimento esplicito alle controversie di lavoro perché darebbe per scontato che al rapporto di lavoro subordinato o coordinato del socio di lavoro si applichi, in via automatica, la disciplina generale dettata dagli artt. 409 ss. c.p.c.
Mentre il riferimento alle “controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica” servirebbe a delimitare l’ipotesi eccezionale e derogatoria nella quale trova applicazione il rito ordinario a dispetto della consueta vis attrattiva del processo del lavoro. Ipotesi eccezionale e derogatoria, come tale non estendibile al di fuori dei confini indicati e, dunque, alle controversie prettamente lavoristiche e neppure nel simultaneus processus stante l’art. 40, comma 3, c.p.c.
In sostanza, per dirla con una nota pronuncia della Cassazione, spesso ripresa in termini dai giudici del merito che aderiscono a questa lettura, le controversie relative alle prestazioni mutualistiche sarebbero esclusivamente “le prestazioni che – per eliminare l’intento speculativo delle società capitalistiche – si traducono in prestazioni che la società assicura ai suoi soci in termini più vantaggiosi rispetto ai terzi” [24].
Ora, anche a noi sembra, in effetti, preferibile questa seconda impostazione, considerato che consente finalmente di identificare il significato dell’espressione “prestazioni mutualistiche” in maniera autonoma rispetto all’altra espressione “prestazione di attività lavorative da parte del socio”, e senza necessità di disconoscere il collegamento che la legge, innegabilmente, dispone tra le medesime.
Come è stato efficacemente detto da autorevole dottrina, nello schema nominato del contratto di cooperativa e lavoro, del resto, la “prestazione di lavoro è dedotta pur sempre in vista di un vantaggio o “ritorno”, in termini di mezzi di vita o di collocazione sociale” [25].
Per cui, se è indubbio che la prestazione di attività lavorative costituisce l’oggetto del rapporto mutualistico del socio di lavoro, non è, invece, corretto ritenere che tale prestazione esaurisca il novero delle utilità che “il soggetto, impegnando (non importa se anche insieme a una quota capitale) le sue energie lavorative, si attende se mai attraverso lo schema circolare del contratto plurilaterale anziché quello lineare del contratto a prestazioni corrispettive” [26].
Se si aderisce a questa seconda lettura, l’art. 5 della legge n. 142/2001 non autorizza più una interpretazione monodirezionale, quale si avrebbe, invece, accogliendo la da noi prima (v. n. che precede) criticata identificazione della prestazione mutualistica con la prestazione di lavoro. La prestazione di lavoro, in effetti, come tale, potrebbe essere eseguita soltanto dal socio lavoratore. Mentre la prestazione mutualistica potrebbe ben essere sia quella che il socio si attende dalla cooperativa, come, all’inverso, anche l’adempimento degli impegni di carattere mutualistico di cui è creditrice la cooperativa.
In sostanza, col dire “prestazione mutualistica” il legislatore evoca – non già il rapporto di lavoro, subordinato o coordinato – quanto la relazione obbligatoria e gli interessi creditori, non necessariamente patrimoniali (art. 1174 c.c.) che, fisiologicamente, sempre si generano tra le parti implicate nello schema circolare del contratto plurilaterale. Così come, più in generale, la reciproca relazione di affidamento tra cooperativa e soci quanto ai rispettivi molteplici adempimenti, che scaturisce dall’atto di adesione o ammissione [27].
Ed è questa l’area di applicazione residuale del rito e del giudice ordinario civile rispetto alla speciale competenza lavoristica.
Allo stesso tempo, non ci convince, però, la posizione estrema che, di fatto, assorbe nella competenza funzionale del giudice del lavoro ogni potenziale controversia tra socio di lavoro e cooperativa, giusta l’affermazione, per stare all’esempio più rilevante e ricorrente, che “comunque l’estinzione del rapporto sociale configura anche una lite lavoristica dal momento che (sia pure automaticamente) determina pur sempre l’estinzione del connesso rapporto di lavoro” [28].
Anche questo tipo di soluzione, al pari di quella già criticata che massimizzava il ruolo del giudice ordinario, corre, infatti, il rischio, sia pure dal versante contrapposto, di negare in maniera ingiustificata la necessità di un equilibrato riparto delle rispettive competenze giurisdizionali.
Riparto certamente difficile da perimetrare, ma che, nondimeno viene imposto dalla legge, onde l’interprete, secondo noi, in assenza di saldi riferimenti normativi, non può affidarsi al fragile basamento di un’astratta prevalenza ideale o ideologica del processo del lavoro, ma, piuttosto, dovrà avere riguardo alla reale specializzazione tecnico giuridica del giudice del lavoro.
Ma se così è, non si vede perché non possa essere il giudice ordinario ad esercitare il vaglio di legittimità della delibera di esclusione dal rapporto sociale, quando questa, pur riverberandosi “automaticamente” sulla stabilità occupazionale del socio, è fondata ed è stata motivata esclusivamente su ragioni di mero rilievo associativo, quali il mancato versamento delle quote sociali od una reiterata ed ingiustificata mancata partecipazione alle assemblee dei soci.
In questo casi, infatti, la controversia potrebbe certamente rimanere delimitata fisiologicamente al solo profilo associativo, per il quale il giudice ordinario civile è per definizione adeguatamente attrezzato.
A meno che il socio lavoratore, con l’impugnazione, non denunzi un intento elusivo, e, dunque, una frode, anche processuale, sostenendo che l’esclusione maschera, in realtà, un licenziamento illegittimo o nullo. Così consentendo, per effetto dell’ampliamento dell’oggetto della lite, che la controversia acceda al giudice ed al rito del lavoro.
Tanto più che anche l’accertamento operato dal giudice civile ordinario (come meglio si dirà più avanti ormai anch’esso diversamente specializzato) può sfociare nelle medesime conseguenze ripristinatorie del “rapporto di lavoro” che avrebbe potuto disporre il giudice del lavoro.
Ed anzi, alla luce dei più recenti sviluppi della normativa sull’apparato sanzionatorio dei licenziamenti, non è neppure detto che le possibilità del ripristino del rapporto giuridico di lavoro, per effetto della cd. restitutio in integrum comandata dal giudice ordinario, non siano persino maggiori rispetto alle possibilità concrete di ottenere dal Giudice del lavoro l’ordine di reintegro nel posto di lavoro.
6. La concorrenza delle sezioni specializzate in materia di impresa e la impropria costituzionalizzazione dell’art. 40, comma 3, c.p.c.
La stabilità relativa così faticosamente acquisita dalla sistemazione giurisprudenziale ora ricordata, è stata di recente seriamente minacciata dalla istituzione delle sezioni specializzate in materia di impresa ad opera del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito dalla legge 24 marzo 2012, n. 27.
L’art. 2 del d.l. n. 1/2012, come modificato in sede di conversione, ha, infatti, novellato l’art. 3 del d.lgs. n. 168/2003, estendendo la competenza delle ex sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ora sezioni specializzate in materia d’impresa, anche alle cause e ai procedimenti “relativi ai rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario” [29].
Ha, altresì, previsto la regola, potenzialmente dirompente, che “le sezioni specializzate sono altresì competenti per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2” per cui, a rigore, anche ogni volta in cui operi la connessione con una lite in tema di costituzione, svolgimento, modificazione od estinzione del rapporto sociale del socio di lavoro.
Di conseguenza, è sembrato in un primo momento doveroso attenersi all’indicazione del legislatore, ed in tutti i casi di connessione tra causa lavoristica e mutualistica – com’è ad esempio in caso di contestualità di esclusione e licenziamento del socio di lavoro – devolvere la controversia al Tribunale delle imprese [30].
Senonché, soprattutto i giudici del merito [31] si sono mostrati fin da subito recalcitranti ad accogliere una soluzione che evidentemente ritenevano penalizzante per il socio di lavoro.
Ed è così prontamente emerso un orientamento giudiziale volto a valorizzare la specificità della posizione processuale del socio in termini di necessaria conformità ai principi costituzionali di uguaglianza e ragionevolezza, oltre che di protezione di chi lavora.
Questo orientamento, allo stato, può dirsi recepito anche dalla Corte di cassazione, sulla scorta di almeno tre precedenti, ampiamente consonanti, che, alla luce di una interpretazione dichiaratamente teleologica e costituzionalmente orientata, a discapito di una palese (secondo noi) devoluzione alle sezioni specializzate dell’impresa delle cause che vedono connessi profili mutualistici e lavoristici, hanno ribadito la vis attractiva del processo del lavoro come “regola” di “carattere generale e preminente”, stanti “gli interessi di rilevanza costituzionale che la norma processuale è preordinata a garantire” [32].
Ragion per cui, i giudici di legittimità ritengono che, “in mancanza di una espressa deroga al principio generale della prevalenza della competenza del giudice del lavoro di cui all’articolo 40 c.p.c., comma 3”, sarebbe costituzionalmente necessario interpretare la “locuzione “ragioni di connessione” “nel senso che il regime della connessione, ove riferibile al cumulo di cause relative al rapporto mutualistico e al rapporto lavorativo, comporta il radicamento della competenza per le cause connesse dinanzi al giudice del lavoro” [33].
Senonché, la giurisprudenza ci sembra così avviata su di un crinale scivoloso.
Argomentare dall’inesistenza di una espressa deroga all’art. 40, comma 3, c.p.c., mentre si discute della capacità derogatoria del d.l. n. 1/2012, tradisce una impostazione del ragionamento non certo in funzione indagatoria, ma semmai asseverativa di una soluzione preconcetta.
Tanto più che il d.l. n. 1/2012, rispetto all’art. 40, comma 3, c.p.c. sembrava essere norma derogatoria prevalente, se non altro perché speciale e sopravvenuta.
Più corretto, a nostro avviso, sarebbe stato, invece, prendere atto della deroga espressa introdotta dal legislatore a favore delle sezioni specializzate per l’impresa e, poi, sollevare la questione di legittimità costituzionale di quella previsione di fronte alla Consulta, chiedendo, in buona sostanza, di completare l’opera intrapresa con l’ordinanza n. 460/2006 e poi con la sentenza n. 71/2008 sul rito societario.
Ed invece, la Corte di cassazione ha preferito affermare la sostanziale costituzionalizzazione dell’art. 40, comma 3, c.p.c. ed espropriato l’unico organo che, invece, avrebbe potuto definire, una volta per tutte, la questione, operando il necessario bilanciamento con l’art. 45 Cost.
Allo stesso tempo, lascia interdetti l’affermazione che la valutazione sulla “prevalenza della competenza del giudice del lavoro” potrebbe in futuro essere rivista dalla suprema corte alla luce di una deroga espressa da parte del legislatore.
Ed infatti, il legislatore ha già espressamente derogato l’art. 40, comma 3, c.p.c., allorché ha convogliato alle sezioni specializzate per l’impresa indistintamente tutte “le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione” con le controversie sul rapporto sociale. Che altrimenti, a ben vedere, non ci sarebbe stata neppure necessità di operare l’interpretazione costituzionalmente orientata di cui si è detto.
Peraltro, quel bilanciamento degli interessi che sembrerebbe essere stato, così, rinviato non dovrebbe dipendere dal fatto che il legislatore si rivolga in maniera mirata ai soli soci di lavoro e non, indistintamente, a tutti i rapporti societari. O quantomeno bisognerebbe spiegare perché nel più regolato (i rapporti sociali), nel caso che ci occupa, non starebbe il meno (il rapporto sociale mutualistico).
Ne consegue che, per le ragioni ora esposte, la tenuta dell’orientamento che si è andato per ora strutturando attorno ai tre contigui precedenti ricordati potrebbe essere a rischio, a dispetto della condivisibilità o meno del risultato finale [34].
Ad ogni modo, stante l’attuale assetto assunto dalla giurisprudenza, è possibile concludere che, nel caso in cui la controversia investa entrambi i profili, associativo e lavoristico (ad esempio, sia controversa in giudizio sia la risoluzione del rapporto associativo che il licenziamento del socio), deve essere affermata la competenza del giudice del lavoro ex art. 40, comma 3, c.p.c.
Mentre, soltanto ove la controversia si radichi in via esclusiva su tematiche e ragioni sociali, non essendovi attrazione da parte del rito del lavoro, si darà applicazione alla competenza del giudice ordinario e, segnatamente, della sezione specializzata in materia d’impresa territorialmente competente.
7. Il rapporto tra esclusione e licenziamento del socio nella giurisprudenza più recente
Una volta chiarito in termini generali il principale tema processuale, è necessario mettere a fuoco la fattispecie maggiormente controversa e ricorrente nella casistica giudiziale, ovvero l’esclusione del socio, nelle molteplici relazioni dinamiche che questa assume rispetto al licenziamento ed al correlato apparato sanzionatorio generale [35].
È già emerso che nei casi nei quali coesistano autonome e concorrenti cause di risoluzione l’impugnativa giudiziale della delibera e del concorrente atto di licenziamento configura un’ipotesi di connessione di cause rimesse alla competenza del giudice del lavoro [36].
Sul punto è bene però fare, per quanto possibile, chiarezza con riguardo alle quattro ipotesi che ci sembrano concretamente riscontrabili.
Non sempre, infatti, i due rapporti intercorrenti tra cooperativa di produzione e lavoro e socio lavoratore vengono risolti contestualmente per autonome e distinte cause (questa la prima ipotesi), dunque con motivazioni fondate su una pluralità di fatti o comportamenti distinti e diversamente rilevanti, rispettivamente, sul piano associativo e su quello lavoristico.
Più spesso accade, invece, che la delibera di esclusione del socio sia fondata esclusivamente sulle medesime ragioni, sovente disciplinari, già fatte valere in sede di licenziamento (questa la seconda ipotesi). Lo stesso addebito, ad esempio, potrebbe venire contestato sia quale notevole o gravissimo inadempimento (ex art. 2119 c.c. e art. 3 della legge n. 604/1966), sia quale grave inadempienza delle obbligazioni che derivano dalla legge o dall’atto costitutivo (art. 2533 c.c.).
Può però anche accadere che la cooperativa si limiti a deliberare l’esclusione (questa la terza ipotesi) senza licenziare il socio di lavoro.
Come pure accade che preferisca, invece, recedere dal rapporto di lavoro, senza automaticamente revocare (sempre che lo Statuto lo consenta), la qualifica di socio (questa la quarta ipotesi).
Ebbene, in tutti questi casi, occorre considerare che il primo comma dell’art. 2 della legge n. 142/2001 consente l’applicazione anche alle cooperative di produzione e lavoro dello Statuto dei lavoratori, ivi compreso l’art. 18, salvo escludere specificamente, in via eccezionale, proprio quest’ultima disposizione solo nel caso si verifichi la pre-esistente o contestuale cessazione del rapporto mutualistico (“ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”).
Soluzione che si spiega per l’esigenza, su cui dovremo tornare più avanti, di non imporre la ricostituzione autoritativa di un rapporto mutualistico risolto definitivamente a seguito di legittima esclusione [37].
Ma se così è, la soluzione adottata dal legislatore genera anche un ben determinato rapporto di consequenzialità tra i due recessi, sociale e lavoristico. Per cui, se il rapporto di lavoro viene risolto contestualmente alla legittima cessazione del rapporto associativo – perché la delibera di esclusione all’esito del vaglio giudiziale risulti valida o, comunque, non più impugnabile, per decorso del termine di decadenza di cui all’art. 2533 c.c. – non vi può mai essere reintegro nel posto di lavoro.
Mentre, come tra poco vedremo meglio, se il rapporto di lavoro viene risolto per le tipiche ragioni lavoristiche (id est licenziamento disciplinare o giustificato motivo oggettivo) e poi, dopo qualche tempo e solo di conseguenza, viene meno anche il vincolo associativo quale mera ricaduta, torna possibile la reintegrazione, proprio perché non si realizza la condizione legale per escludere l’applicazione dell’art. 18 in deroga alla generale applicabilità dello Statuto dei lavoratori.
8. (Segue) … Il recesso intimato esclusivamente dal rapporto sociale
Per approfondire la non facile distinzione così marcata dalla giurisprudenza è secondo noi utile, anzitutto, muovere considerando l’ipotesi, non certo di scuola, della esclusione del socio lavoratore intervenuta soltanto, o comunque essenzialmente, per ragioni associative.
Ed infatti, proprio in questo caso la giurisprudenza di legittimità rileva che “sussiste un rapporto di consequenzialità” [38] fra l’esclusione del socio ed il recesso dal rapporto di lavoro, al punto che si ammette l’autosufficienza del provvedimento sociale di esclusione a conseguire gli effetti tipici del negozio di licenziamento. Sulla scorta, peraltro, di quanto dispone l’ultimo comma dell’art. 2533 c.c., e cioè che: ove “l’atto costitutivo non preveda diversamente, lo scioglimento del rapporto sociale determina anche la risoluzione dei rapporti mutualistici pendenti” [39].
Di modo che, “in presenza di comportamenti che ledono il contratto sociale oltre che il rapporto di lavoro”, la cooperativa può produrre l’estinzione di quest’ultimo persino facendo a meno di un “distinto atto di licenziamento” [40].
Solo che, a questo punto, coerentemente, si ritiene anche che l’eventuale contestazione dell’atto risolutivo della relazione sociale debba avvenire secondo le forme e i termini dettati dall’art. 2533, comma 3, c.c. [41]
Per cui, il socio che voglia impugnare la delibera di mera esclusione dovrà necessariamente proporre opposizione alla sezione specializzata dell’impresa del Tribunale competente, nel termine di sessanta giorni dalla sua comunicazione [42].
Il tema della consequenzialità tra recesso ed esclusione si ripropone poi anche nel caso in cui il provvedimento di esclusione venga “doppiato” dal licenziamento. E siccome, come visto, la giurisprudenza afferma che la delibera di esclusione di per sé basta a far cessare entrambi i rapporti, mutualistico e di lavoro, se anche la cooperativa intima il licenziamento, la mancata o intempestiva opposizione all’estromissione dalla compagine sociale (ex art. 2533 c.c.), rendendo comunque definitivo lo scioglimento del rapporto associativo ex art. 5, comma 2, legge n. 142/2001, consente al giudice di dichiarare “inammissibile per difetto di interesse l’azione proposta per contestare la legittimità del solo licenziamento” [43].
Sempre, ci sembra però necessario aggiungere anticipando quanto meglio vedremo (infra sp. n. 11), che l’azione proposta dal socio risulti volta a conseguire la reintegrazione ex art. 18 della legge n. 300/1970 che non è ormai più possibile.
9. (Segue) … Dal licenziamento all’esclusione, l’osmosi giudiziale delle garanzie fondamentali
Allo stesso tempo, i giudici di legittimità, nell’ammettere l’autosufficienza del recesso associativo e la sua diretta incidenza “sul concorrente rapporto di lavoro”, avvertono chiaramente il rischio che, di fatto, la pregiudizialità logico giuridica così attribuita al vaglio giudiziale del provvedimento di esclusione, si traduca in una sorta di viatico per l’elusione o l’erosione delle tradizionali tutele lavoristiche a danno del socio lavoratore.
Tant’è che chiedono espressamente ai giudici del merito, in primo luogo, di “valutare, attraverso un adeguato bilanciamento degli interessi, tanto l’interesse sociale ad un corretto svolgimento del rapporto associativo quanto la tutela e la promozione del lavoro in cui essenzialmente si rispecchia la “funzione sociale” di questa forma di mutualità”. E così li investono di una funzione valutativa dalla chiara impronta di politica del diritto che, a rigore, esonda le loro competenze ed attribuzioni [44].
E poi, in secondo luogo, più concretamente, di risintonizzare l’accertamento sul provvedimento di esclusione sulle frequenze usuali all’accertamento sul licenziamento.
Opportunamente senza spingersi fino ad imporre l’applicazione analogica delle garanzie procedurali dell’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, la giurisprudenza di legittimità finisce nondimeno col richiedere che anche alla delibera di esclusione si applichino “quanto agli oneri di comunicazione, i medesimi principi valevoli per il provvedimento di licenziamento” [45].
Grava così sulla cooperativa un onere di preventiva comunicazione scritta al socio della delibera di esclusione. Delibera che dovrà, pertanto, avere una “motivazione” ovvero un “contenuto minimo necessario”, comunque idoneo a specificare le ragioni, tanto più che le medesime sono tassativamente stabilite dalla legge o dall’atto costitutivo o dallo statuto.
Tutto questo, per consentire al socio “l’esercizio del diritto di difesa” ed il diritto di opporsi al provvedimento di esclusione, qualora lo ritenga illegittimo, con piena cognizione dei fatti addebitati [46].
Di conseguenza, se la delibera non viene comunicata al socio escluso, come accade ad esempio nella prassi quando la cooperativa si limita al contegno, di per sé certamente concludente, della restituzione delle quote associative, la stessa rimane “inefficace”. Nel senso che non decorre neppure il termine di decadenza per l’impugnazione previsto dall’art. 2533 c.c., per cui l’eventuale processo avverso il licenziamento proseguirà “il suo corso” e sarà trattato dal giudice del lavoro “come un normale giudizio su un caso di licenziamento” [47].
Quando si tratta di valutare l’esclusione del socio, la giurisprudenza richiede anche “l’applicazione di un principio di immediatezza fra la mancanza addebitata e la reazione da parte della compagine societaria”, che altrimenti, in questo diverso contesto, come già accade per il licenziamento, la tolleranza della cooperativa farà presumere una “valutazione in termini di non particolare gravità” dell’inadempimento o della violazione [48].
Per giustificare l’atto di esclusione si richiede, infine, che ricorra una “specifica gravità” della condotta addebitata al socio di lavoro. Esattamente “al pari di quanto prescrive l’art. 3 l. n. 604 del 1966 con riferimento al giustificato motivo soggettivo” [49].
L’evoluzione giurisprudenziale ora compendiata segnala, in sostanza, un progressivo ravvicinamento tra l’esclusione del socio di lavoro ed il licenziamento sul piano delle più elementari garanzie di difesa e del contraddittorio, che del resto non sono certo sconosciute al diritto comune.
A tutto questo si aggiunge che l’eventuale invalidazione della delibera di esclusione disposta dal giudice ordinario produce la cd. restitutio in integrum, dunque comporta la ricostituzione di entrambi i rapporti compromessi, sociale e di lavoro. Ed anzi il rapporto di lavoro, in questo caso, viene ricostituito a prescindere dal dimensionamento della cooperativa e dalla tipologia di vizio del licenziamento [50].
Per cui, anche in caso di sottoposizione della lite sull’esclusione al vaglio delle sezioni specializzate per l’impresa, ed a maggior ragione avanti al giudice del lavoro in caso di connessione ex art. 40, comma 3, c.p.c., non solo il socio non verrà privato dei basilari diritti di difesa e contraddittorio, ma potrà persino beneficiare dell’apparato sanzionatorio ripristinatorio, semplificato e massimamente efficiente, proprio del diritto comune.
Che anzi la dinamica sin qui descritta finirà col porre la cooperativa avanti ad un bivio: se verrà riconosciuta la legittimità dell’esclusione deliberata, il socio di lavoro non avrà mezzo o modo per ottenere il reintegro; all’opposto, però, ove il giudice accertasse la illegittimità del provvedimento di esclusione, non vi sarà margine per accedere alla multiforme gradazione delle tutele che è caratteristica della attuale formulazione dell’art. 18 della legge n. 300 del 1970, di cui pure tra breve diremo, ed il socio di lavoro, in uno con il riacquisto della qualifica sociale, riprenderà anche il proprio posto di lavoro in seno alla cooperativa.
10. (Segue) … Il licenziamento per ragioni lavoristiche
Occorre ora interrogarsi anche sulla evenienza che la cooperativa di produzione e lavoro licenzi il socio lavoratore senza dar seguito al recesso lavoristico con un provvedimento sociale di esclusione.
L’ipotesi non è di scuola. Può infatti accadere che la cooperativa, specie se di dimensioni ridotte o qualora ritenga improbabile il reintegro, preferisca limitarsi al licenziamento, sempre che lo statuto lo consenta, proprio per evitare di doversi confrontare con il potere ripristinatorio che l’ordinamento rimette nelle mani del giudice ordinario.
Ebbene in questi casi, l’assenza di un provvedimento di esclusione non dà scelta al lavoratore che dovrà necessariamente impugnare il licenziamento nei termini di decadenza stragiudiziale e giudiziale dettati dall’art. 6 della legge n. 604/1966, per poi chiedere al giudice del lavoro la specifica tutela – reale, obbligatoria, o risarcitoria – che le dimensioni della cooperativa, il vizio del licenziamento o le altre specificità del caso, di volta in volta, gli consentono astrattamente di conseguire.
Più di frequente accade, però, che la cooperativa risolva il rapporto di lavoro per motivazioni esclusivamente lavoristiche e, poi, soltanto in un secondo momento, a distanza di qualche tempo, preso atto dell’intimato licenziamento, deliberi anche la cessazione dal vincolo associativo.
Secondo un coesistente indirizzo giurisprudenziale, anche in questo caso, non solo resta confermata la competenza del giudice del lavoro, ma non essendovi una autonoma ragione di risoluzione del vincolo mutualistico da preservare, a rigore, non trova applicazione l’esclusione eccezionalmente disposta dall’art. 2 della legge n. 142/2001 (come mod. dall’art. 9 della legge n. 30/2003), che, come più volte ricordato, esclude l’applicabilità “dell’articolo 18 ogni volta che venga a cessare, col rapporto di lavoro, anche quello associativo”. Mentre si applicherà l’art. 18 della legge n. 300/1970, reintegrazione nel posto di lavoro compresa [51].
Infine, secondo un ulteriore orientamento giurisprudenziale, l’art. 18 della legge n. 300/1970 sarebbe applicabile, in luogo del generale ordine di ricostituzione del rapporto di lavoro, anche nei casi di contestuale annullamento giudiziale sia del licenziamento che della delibera di esclusione del socio, questo perché, una volta “rimosso il provvedimento di esclusione”, la cooperativa non potrebbe più invocare l’art. 2 della legge n. 142/2001, né pretendere l’applicazione della più favorevole tutela obbligatoria [52], e si applicherebbe il reintegro ex art. 18 cit., quale sanzione speciale capace di assorbire la facoltà generale rimessa al giudice dal diritto comune di ordinare la restituito in integrum.
È infine da dire che nei casi esaminati in questo paragrafo, il socio lavoratore, impugnando il proprio licenziamento, chiederà con ogni probabilità, anzitutto, la propria reintegrazione nel posto di lavoro ex art. 18 della legge n. 300/1970. Se del caso previa riqualificazione del proprio rapporto di lavoro.
Ragion per cui, ove ricorrano i presupposti dimensionali della cooperativa e motivazionali del licenziamento, e sempre che non sia stato assunto dopo il 7 marzo 2015 (cfr. artt. 11 e 12 del d.lgs. n. 23/2015), per quanto non manchino motivate opinioni difformi [53], ci sembra inevitabile che il socio di lavoro debba introdurre il giudizio attenendosi al rito speciale (cd. Fornero) introdotto con l’art. 1, comma da 48 a 68, legge n. 92/2012.
11. (Segue) … L’esclusione “dell’art. 18” dopo le recenti riforme dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti
Resta, infine, da approfondire la possibilità che il giudice accerti, da un lato, che la delibera di esclusione è legittima o, comunque, non è più impugnabile per decorso del termine di decadenza ex art. 2533 c.c., e, dall’altro lato, che il contestuale licenziamento irrogato sulla base di distinti motivi a rilevanza lavoristica è, invece, illegittimo.
Al riguardo, è già stato detto che la cessazione definitiva del rapporto associativo risolve automaticamente i “rapporti mutualistici pendenti” (art. 2533, ult. comma c.c.) [54] e non consente più al giudice di applicare l’art. 18 della legge n. 300/1970. Deve ora essere indagato cosa implica la disapplicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970 alla luce delle più recenti riforme dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti che hanno, in buona sostanza, generalizzato la tutela cd. risarcitoria e marginalizzato la tutela cd. reintegratoria o reale.
Ed infatti, allorché entrò in vigore, l’art. 2 della legge n. 142/2001 faceva riferimento ad una disposizione – l’art. 18 della legge n. 300/1970 nella versione “monolitica” preesistente alla legge n. 92/2012 – che oggi non è più vigente nell’impiego privato, perché sostituita da un’altra, profondamente trasfigurata, nella quale, come noto, coesistono, a vari livelli di effettività, tutela reintegratoria e tutela risarcitoria.
Ciò posto, occorre anzitutto chiedersi se l’interprete debba continuare a prendere alla lettera l’art. 2 della legge n. 142/2001 e, perciò, disapplicare integralmente il testo dell’art. 18 della legge n. 300/1970, così come riformulato nel 2012, anche con riguardo alle sanzioni meramente risarcitorie.
Oppure, debba considerare l’esclusione dell’art. 18 dalla legge n. 300/1970 quale era in origine, e cioè nei termini di una deroga volta ad inibire la specifica sanzione “reale” che era contenuta nella previgente previsione, onde evitare che, mediante il reintegro lavoristico, il socio ottenesse quel ripristino che l’accertamento sulla legittimità della esclusione aveva escluso.
E, di conseguenza, l’interprete possa ora escludere, selettivamente, soltanto l’applicazione di quei comma (da 1 a 4, e, poi, parzialmente, il 7) dell’art. 18 riformulato nel 2012, che potrebbero, ancora oggi, originare un ordine di reintegro nel posto di lavoro.
E non è tutto. L’interprete deve contestualmente fare i conti anche con il d.lgs. n. 23/2015. L’ampia formulazione di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 1 del d.lgs. n. 23 del 2015, letta in combinato disposto con l’art. 1, comma 3, della legge n. 142/2001, non sembra, infatti, lasciare adito a dubbi circa l’applicabilità dell’apparato sanzionatorio neointrodotto con il cd. jobs act anche per i neoassunti con contratto di lavoro subordinato da società cooperative (purché ovviamente ricorrano le dimensioni occupazionali).
Solo che il d.lgs. n. 23/2015, nei casi sempre più marginali per i quali residua tutt’ora la possibilità della reintegrazione del lavoratore licenziato (v. art. 2 e art. 3, comma 2), non fa rinvio all’art. 18 della legge n. 300/ 1970, ma consegna direttamente ed autonomamente al giudice il potere/dovere di ordinare il reintegro, prescindendo dalla disposizione cardine dello Statuto dei lavoratori.
Sicché, per uno strano paradosso, l’esclusione testuale “dell’articolo 18”, come disposta dall’art. 2 della legge n. 142/2001, finisce per non avere conseguenze con riguardo ai soci neoassunti con contratto di lavoro subordinato dopo il 7 marzo 2015.
Per questi, infatti, se ci si basa soltanto sull’esclusione testuale “dell’articolo 18”, non si riesce a giustificare anche la disapplicazione ulteriore delle residue ipotesi di reintegrazione che sono, da ultimo, state previste direttamente dal d.lgs. n. 23/2015.
Per cui, si finisce con l’ammettere una sorta di (all’apparenza involontario) riallineamento dell’apparato sanzionatorio avverso i licenziamenti illegittimi appannaggio del socio lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, con quello di qualsiasi altro lavoratore subordinato anche lui in regime di cd. tutele crescenti.
Si tratta, ognun vede, di questioni complesse e delicate che, pur scontando la inevitabile opinabilità delle soluzioni, ci sembra possano venire affrontate soltanto attingendo alla ratio della originaria esclusione. Questo perché, nel tentativo di far coincidere, per quanto possibile, efficacia precettiva e intentio legis, l’interprete può, forse, riuscire a controllare la propria precomprensione.
Decisivo è, allora, che, attraverso l’art. 2 della legge n. 142/2001, il legislatore del 2003 abbia voluto evitare di imporre iussu iudicis la ricostituzione del rapporto di lavoro dipendente – ogni qual volta la relazione mutualistica è stata validamente risolta e dunque non v’è margine per il ripristino civilistico della condizione di socio – ad un soggetto collettivo, che assume essere (fino a prova contraria della natura fraudolenta) una comunità di scopo.
E ciò perché, in questo caso, la reintegrazione nel posto di lavoro conseguente alla contestuale impugnazione del licenziamento finirebbe con l’interferire in maniera palesemente distorsiva dell’assetto assunto dalla compagine sociale per effetto della legittima esclusione.
In sostanza, la logica profonda sottesa all’esclusione dell’art. 18 cit., come operata dall’art. 2 della legge n. 142/2001, sembra essere, per molti versi, assimilabile a quella, a suo tempo, rivelata anche dall’art. 4, comma 1, della legge n. 108/1990 per il lavoro domestico. Ed avere, cioè, riguardo alla eccezionale valenza che assume nel contesto regolato la relazione fiduciaria tra le parti del rapporto di lavoro, vuoi per effetto dell’inserimento del prestatore di lavoro nella comunità familiare, vuoi, nel caso che ci interessa, in quella mutualistica.
Per quanto discutibile sul piano della opportunità politica, la valutazione così operata dal legislatore può forse consentire di risolvere anche le questioni che sono state, come visto, da ultimo originate dal succedersi di riforme dell’apparato sanzionatorio dei licenziamenti individuali.
Va da sé, infatti, che se la ratio originaria ed ultima dell’esclusione operata dall’art. 2 della legge n. 142/2001 consisteva esclusivamente nell’evitare di imporre la ricostituzione coattiva del rapporto di lavoro nei casi di legittima risoluzione del rapporto mutualistico, a nostro avviso, tale esclusione dovrebbe ora, per coerenza con l’intentio legis originaria, operare solo selettivamente qualora venga invocato l’art. 18 della legge n. 300/1970, come modificato dalla legge n. 92/2012. E cioè, con riguardo esclusivamente alle ipotesi nelle quali è effettivamente possibile il reintegro.
Mentre, sarà consentito al socio lavoratore invocare a ristoro dell’illegittimità del contestuale licenziamento la tutela risarcitoria che pure è oggi dispensata dall’art. 18 come modificato dalla legge n. 92/2012.
La medesima esigenza di non distorcere la voluntas legis potrebbe, poi, astrattamente condurre – sempre si intende nei casi per i quali la cessazione del rapporto sociale non è più in discussione – a disapplicare selettivamente quelle disposizioni del d.lgs. n. 23/2015 che consentono di accedere alle residue possibilità di reintegro in regime cd. jobs act per i soci neoassunti dopo il 7 marzo 2015.
Senonché, in questo caso, l’interprete è tenuto a ben maggiore cautela, visto che l’esclusione del reintegro nell’art. 2 della legge n. 142/2001 è certamente norma speciale e derogatoria, per cui non se ne può ammettere l’estensione analogica (art. 14 disp. prel. c.c.).
Ed anzi, l’unica soluzione che ci sembra consentita, è la remissione alla valutazione di legittimità costituzionale dell’evidente disparità di trattamento generata dalla evoluzione normativa e segnatamente dal d.lgs. n. 23/2015, con riguardo, questa volta, all’esigenza di preservare il “carattere e le finalità” della cooperazione a carattere di mutualità (art. 45 Cost.), laddove potrebbero, invero, venire compromessi, se si assumesse, e solo per i soli soci di lavoro assunti con contratto di lavoro cd. a tutele crescenti, la prevalenza dell’ordine giudiziale di reintegro sulla definitiva legittima cessazione del loro rapporto associativo.
12. Conclusioni: il forum shopping impossibile, tra teoria della domanda e teoria dell’accertamento
La innegabile complessità che abbiamo fin qui tentato di ricondurre a sistema, frutto della stratificazione di circa un ventennio di pronunce, è stata ed è bersaglio facile della dottrina, che ritiene il panorama giurisprudenziale “davvero sconfortante” e non manca occasione per reclamare un intervento definitivamente chiarificatore del legislatore ovvero delle sezioni unite [55].
Si obietta in sintesi che nell’incertezza del diritto, specie di quello processuale, i soci lavoratori vedrebbero disincentivate le loro aspettative di giustizia per effetto di inutili complicazioni processuali, che impedendo l’esame nel merito delle vertenze, avvantaggerebbero soltanto le cooperative malsane o fraudolente, concorrenti sleali di quelle sane.
E sulla scorta di simili ragionamenti, viene allora dai più auspicata l’adozione di una soluzione, quale quella a suo tempo elaborata dalla cd. Commissione Foglia, ossia la sostituzione dell’attuale testo dell’art. 5 comma 2, cit. con una formula del seguente tenore: “le controversie tra socio e cooperativa sono di competenza del tribunale in funzione di giudice del lavoro” [56].
E certamente una soluzione siffatta contribuirebbe anzitutto a rinsaldare l’interpretazione, come visto, già oggi largamente diffusa tra i giudici e, forse, anche a semplificare il quadro applicativo.
Ma non è affatto detto che anche la soluzione da molti auspicata non possa poi generare, a sua volta, fughe o controspinte giudiziali.
Anche perché, non v’è ragione per rimettere al giudice del lavoro la valutazione di tutte le controversie tra soci di lavoro e cooperativa, nessuna esclusa, e cioè anche di quelle a mero rilievo sociale, che nulla hanno a che spartire con il rapporto o la prestazione di lavoro.
Per cui, ci sembra inevitabile che anche quel tipo di formulazione, prima o dopo, verrebbe letta circoscrivendo la competenza del tribunale del lavoro alle sole controversie tra socio e cooperativa di matrice lavoristica.
E si riproporrebbe così l’esigenza di tracciare una linea di confine tra controversie lavoristiche e sociali, con il consueto corollario di incertezze nei casi dubbi, non ultimo per le “gravi inadempienze delle obbligazioni che derivano dalla legge” che legittimano l’esclusione del socio ex art. 2533 c.c.
E, con ogni probabilità, avremmo infine un approdo ultimo poi non così dissimile dall’attuale stato dell’arte giurisprudenziale.
Forse, bisognerebbe invece prendere atto che, nella specifica materia che ci occupa e ancor più sul versante processuale, un accentuato grado di complessità è pressoché ineliminabile, discendendo quale ricaduta diretta dalla scelta operata dal legislatore di far convivere in un’unica complessa relazione contrattuale rapporti riconducibili a schemi giuridici teoricamente irriducibili, perché improntati allo scambio ed alla mutualità.
E con questa ineliminabile complessità anche processuale si confronta di necessità, poi, anche il giudice, che non può certo accontentarsi di contestare l’operato del legislatore, né può rifugiarsi in ragionamenti de jure condendo.
Per cui, nel complesso, appare ingeneroso il giudizio in termini critici da più parti formulato nei riguardi dello stato della giurisprudenza in materia. Anche perché, stante l’assetto vigente della normativa, non si comprende quale sarebbe il punto di migliore equilibrio, che potrebbe oggi venire assicurato dal controllo giudiziale.
Tra le critiche ricorrenti, nella letteratura, specie processuale, viene spesso evocato il tema del cd. forum shopping [57].
In particolare, con riguardo al problema dell’esclusione del socio, si sostiene che la cooperativa (o meglio i suoi consulenti e avvocati), potendo decidere la mossa di apertura (mera esclusione sociale, licenziamento lavoristico, entrambi per il medesimo motivo, o per motivi difformi, ecc.), godrebbe di una sorta di vantaggio sulla scacchiera processuale, tale da orientare la vicenda processuale e finanche la scelta del giudice, in spregio al principio costituzionale del giudice precostituito per legge.
Ma anche rispetto a queste osservazioni è facile obiettare che un simile “vantaggio”, ammesso che tale sia, è eliminabile solo a costo di estendere la competenza del giudice del lavoro su questioni che non lo riguardano. Ovvero, all’opposto, quella del giudice specializzato dell’impresa sulle liti esclusivamente giuslavoristiche. Diversamente è inevitabile e fisiologico che sia il datore di lavoro ad orientare con il proprio comportamento il successivo thema decidendum di una eventuale lite.
Va poi considerato che anche la scelta di privilegiare il recesso in luogo del licenziamento, o viceversa, dovrà necessariamente fondarsi sugli elementi concreti e sulle fondate ragioni, mutualistiche o lavoristiche, in possesso della cooperativa.
Perché altrimenti, ove quella scelta fosse invece un mero artifizio processuale, presto si ritorcerebbe contro il convenuto, favorendo l’accoglimento della domanda di invalidazione dell’esclusione o del licenziamento.
Inoltre, abbiamo visto come una preferenza solo pregiudiziale per il giudice ordinario potrebbe perfino condurre ad esiti controproducenti, mentre di certo non priverebbe il socio di lavoro delle garanzie fondamentali a tutela dei propri diritti di difesa.
Ragion per cui, molto spesso, la cooperativa non sceglie affatto tra esclusione e licenziamento sulla scorta di un preteso successivo vantaggio processuale o per eleggere un determinato giudice, ma, sempre che disponga di elementi a suffragio, preferisce invece “sommare” motivi di esclusione sociale e ragioni di licenziamento tipicamente lavoristiche, pur nella consapevolezza che la connessione attrarrà entrambi avanti al giudice del lavoro [58].
Piuttosto, è semmai il lavoratore che, una volta superati i vincoli dettati dalle decadenze lavoristiche e commerciale, al momento di impugnare in giudizio, può definitivamente orientare la scelta del giudice, attraverso una oculata scelta di petitum e causa petendi, o perfino mediante la loro dilatazione od ampliamento strumentali ad attingere la speciale competenza per connessione di cui all’art. 40, comma 3, c.p.c.
Il nostro è, infatti, un sistema che quanto alla esiziale scelta del giudice competente, predilige la teoria della domanda o della prospettazione, alla teoria dell’accertamento.
Per cui la determinazione del giudice si basa su quanto afferma l’attore (quid disputatum) a meno che non risulti evidente “che la prospettazione dell’attore costituisce mero artificio verbale, tendete a portare la causa davanti a un giudice diverso da quello naturale” [59].
Ed anche qui, ci sembra non vi siano particolari anomalie, né tanto meno violazione del principio costituzionale del giudice precostituito per legge, di cui si possa lamentare questa volta la cooperativa.
Opera infatti il consueto correttivo interno per cui, l’eventuale eccesso dell’attore che muti ad arte la propria prospettazione solo ed unicamente per determinare il giudice che più gradisce (cd. forum shopping), dovrebbe poi da questi venire scontato caramente, in termini di soccombenza sostanziale, stante i principi dispositivo e della domanda.
NOTE
[1] Il presente scritto sarà destinato alla pubblicazione nel Liber amicorum per il Prof. Giuseppe Santoro Passarelli.
[2] L’attenzione è peraltro, molto spesso, mediata dal caso concreto, cfr. L. IMBERTI, Canti e controcanti nella giurisprudenza della Cassazione in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore in cooperativa, in Dir. rel. ind., 2016, 820 ss.; R. RIVERSO, La competenza in materia di socio lavoratore tra delibera di esclusione e licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 603 ss.; L.A. COSATTINI, Esclusione e concorrente licenziamento del socio di cooperativa: per la cassazione la competenza spetta al tribunale in funzione di giudice del lavoro, in Lav. giur., 2015, 243 ss.; M.S. MARIANI, Connessione di cause aventi ad oggetto l’esclusione ed il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: la competenza torna al giudice del lavoro, in Lav. prev. oggi, 2015, 62 ss; A. ROTA, Socio-lavoratore di cooperativa: quale giudice è competente nelle ipotesi contemplate ex art. 3, 3º comma, d.leg. 168/2003?, in Giur. comm., 2015, II, 1250 ss., questi ultimi tre contributi in nota a Cass., ord. 21 novembre 2014, n. 24917; C. GAMBA, Questioni processuali controverse sulla tutela del socio di cooperativa estromesso, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, 1126 ss., nota a Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802; G. MORO, Il licenziamento disciplinare del socio lavoratore di cooperativa e sua conseguente esclusione: la competenza del giudice del lavoro, in Nuovo notiz. giur., 2016, 145 ss., nota a Trib. Torino 24 novembre 2015; S. VISONÀ, I risvolti processuali della delibera di esclusione del socio dalla società cooperativa e dell’automatica risoluzione del rapporto di lavoro, in Giustiziacivile.com, 2014, nota a Trib. Perugia, ord. 14 dicembre 2013; V. SPEZIALE, Risoluzione del rapporto col socio lavoratore e profili processuali, in Dir. prat. lav., 2013, 2721 ss.; M. VINCIERI, Esclusione e licenziamento: quali tutele per il socio lavoratore di cooperativa? in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 863 ss., nota a Cass. 5 luglio 2011, n. 14741; ID., Sulla dibattuta questione dell’applicabilità del rito ordinario alle controversie tra soci lavoratori e cooperative, in Riv. it. dir. lav., 2011, II, 1206 ss., nota a Cass., ord. 6 dicembre 2010, n. 24692; S. COSTANTINI, Orientamenti dottrinali e giurisprudenziali sulle controversie fra socio lavoratore e cooperativa, in Dir. lav. merc., 2010, 181 ss.; F. MUGNAINI, Il licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: dal nuovo concetto di «esclusione» alla deminutio della tutela processuale, in Riv. crit. dir. lav., 2007, 1308 ss., nota a Trib. Siena 26 febbraio 2007; L. IMBERTI, Disciplina processuale per le controversie tra socio lavoratore e cooperativa: la corte costituzionale non prende posizione e il problema rimane aperto, in Riv. it. dir. lav., 2007, II, 544 ss.; D. DALFINO, Il riparto di «competenza» nelle controversie tra cooperativa e socio lavoratore, in Società, 2008, 174 ss.; M. VINCIERI, I problemi di rito nelle controversie tra soci lavoratori e cooperative: giudice del lavoro o giudice ordinario?, in Arg. dir. lav., 2007, 651 ss., questi ultimi tre contributi in nota a Corte Cost., ord. 28 dicembre 2006, n. 460; M. PALLINI, Il riparto di competenza processuale nelle controversie tra socio-lavoratore e società cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 2005, II, 708 ss.; G. FRANZA, Esclusione del socio di cooperativa e cessazione del rapporto di lavoro: quale è il giudice competente? in Mass. giur. lav., 2005, 883 ss.; M. ARIOTI BRANCIFORTI, La competenza sulle controversie del socio di cooperativa di produzione e lavoro, in Dir. lav., 2006, II, 328 ss., questi ultimi tre contributi in nota a Cass., ord. 18 gennaio 2005, n. 850; L. RATTI, Questioni di rito e competenza per le controversie tra socio lavoratore e cooperativa, in Lav. giur., 2006, 946 ss.; D. DALFINO, La tutela processuale del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. giur. lav., 2004, I, 243 ss.; G. FERRAÙ, Giudice competente per le controversie tra socio lavoratore e società cooperativa, in Lav. giur., 2004, 977 ss., nota a Trib. Parma 1º marzo 2004; R. RIVERSO, La controriforma sulla competenza in materia di controversie tra socio lavoratore e cooperativa attuata con l’art. 9 l. n. 30/2003, in Lav. giur., 2003, 1017 ss.; S. BALESTRO, Esclusione dalla cooperativa, licenziamento e processo, in Riv. crit. dir. lav., 2002, 1006 ss., nota a Trib. Genova 26 luglio 2002; L. DE ANGELIS, L’esclusione e il licenziamento del socio lavoratore tra diritto e processo, in Lav. giur., 2002, 605 ss.; ID., Il lavoro nelle cooperative dopo la l. n. 142/2001: riflessioni a caldo su alcuni aspetti processuali, in Lav. giur., 2001, 813 ss.; G. MANNACIO, Controversie del socio lavoratore e competenza del giudice del lavoro, in Lav. giur., 1999, 35 ss.; E. BOGHETICH, Socio di società cooperativa di produzione e lavoro: qualificazione del rapporto e giudice competente, in Mass. giur. lav., 1999, 196 ss.; G. BONFANTE, Lavoro in cooperativa e competenza del giudice del lavoro: il nuovo orientamento della cassazione, in Società, 1999, 305 ss.; F. DE SANTIS, Prime riflessioni sui criteri di ripartizione della competenza nelle controversie tra soci e cooperative alla luce della l. n. 142 del 2001, in Foro it., 2002, I, 1198 ss., questi ultimi quattro contributi in nota a Cass., S.U., 30 ottobre 1998, n. 10906; G. RICCI, Tendenze giurisprudenziali in materia di lavoro nelle cooperative: qualificazione del rapporto, competenza giurisdizionale, trattamento retributivo, diritti sindacali, in Foro it., 2000, I, 913 ss.; M.G. MATTAROLO, Natura del rapporto tra socio lavoratore e cooperativa e competenza del giudice sulle relative controversie, in Nuova giur. civ., 1993, I, 571 ss., nota a Pret. Ferrara 5 febbraio 1993.
[3] La cooperativa come luogo della “autosottrazione, in nome delle esigenze di mercato (e dunque della conservazione dell’occupazione), alla normativa inderogabile di tutela del lavoro subordinato” è la prospettiva da cui muove programmaticamente l’analisi di M. BARBIERI, Il lavoro nelle cooperative, in P. CURZIO (a cura di), Lavoro e diritti dopo il decreto legislativo 276/2003, Cacucci, Bari, 2004, 351 ss. Ma anche in giurisprudenza si riconosce, ad esempio, che il contenzioso in materia sarebbe stato “alimentato dalla progressiva sottoprotezione cui erano esposti i soci lavoratori” e dal connesso dilatarsi “della cooperazione fraudolenta, fonte di discredito per l’immagine stessa della cooperazione e di fondate preoccupazioni circa il rispetto del principio della concorrenza”, così espressamente Cass. 5 luglio 2011, n. 14741.
[4] Tra le altre v. Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802 e Cass. 5 luglio 2011, n. 14741, secondo cui il legislatore avrebbe “dato vita ad una incisiva riforma della cooperazione di lavoro, introducendo, e per la prima volta, un compiuto sistema di diritti e di garanzie per il socio lavoratore ed attribuendo a tale rapporto una espressa qualificazione giuridica, idonea a far configurare il lavoro cooperativo come rapporto speciale, distinto tanto dal lavoro puramente associativo quanto dal lavoro solo subordinato”.
[5] La specialità del rapporto lavorativo del socio di lavoro, unitamente al tema della possibile coesistenza tra la relazione associativa a carattere mutualistico e la contrapposizione degli interessi tipica del contratto di lavoro, è stata oggetto da sempre di approfondita riflessione da parte della dottrina italiana. Vanno in tal senso richiamati all’attenzione del lettore, anzitutto, alcuni importanti lavori monografici, qui in ordine cronologico: L. IMBERTI, Il socio lavoratore di cooperativa. Disciplina giuridica ed evidenze empiriche, Giuffrè, Milano, 2012; S. LAFORGIA, La cooperazione e il socio-lavoratore, Giuffrè, Milano, 2009; S. PALLADINI, Il lavoro nelle cooperative oltre il rapporto mutualistico, Cedam, Padova, 2006; L. FERLUGA, La tutela del socio lavoratore tra profili lavoristici e societari. Riflessioni sulla l. n. 142/2001 e successive modifiche, Giuffrè, Milano, 2005; G. CANAVESI, Associazioni e lavoro, Giuffrè, Milano, 2003; M. BIAGI, Cooperative e rapporti di lavoro, Franco Angeli, Milano, 1983; U. ROMAGNOLI, La prestazione di lavoro nel contratto di società, Giuffrè, Milano, 1967. Ovviamente, quella riflessione è stata particolarmente intensa in occasione della introduzione della legge n. 142 del 2001, cfr.: L. NOGLER, M. TREMOLADA, C. ZOLI (a cura di), La riforma della posizione giuridica del socio lavoratore di cooperativa (l. 3 aprile 2001 n. 142), in Nuove leggi civ., 2002, 339 ss.; D. GAROFALO, M. MISCIONE (a cura di), La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa – L. n. 142/2001 e provvedimenti attuativi, Ipsoa, Milano, 2002; A. MARESCA, Il rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, in Arg. dir. lav., 2002, 611 ss.; G. MELIADÒ, La nuova legge sulle cooperative di lavoro: una riforma necessaria, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 345 ss.; L. DI PAOLA, Società cooperative: il legislatore si pronuncia sulla posizione del socio lavoratore, in Nuove leggi civ., 2001, 909 ss.; M. PALLINI, La «specialità» del rapporto di lavoro del socio di cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 2002, I, 371 ss.; A. VALLEBONA, L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, in Mass. giur. lav., 2001, 813 ss.; M. DE LUCA, Il socio lavoratore di cooperativa: la nuova normativa (l. 3 aprile 2001 n. 142), in Foro it., 2001, V, col. 233 ss.; L. CASTELVETRI, F. SCARPELLI, Il rapporto di lavoro dei soci di cooperative, in Riv. it. dir. lav., 2001, III, 229 ss.; F. ALLEVA, I profili giuslavoristici della nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Riv. giur. lav., 2001, I, 353; A. ANDREONI, La riforma della disciplina del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. giur., 2001, 205 ss. Ed è poi stata rinfocolata dalla riforma operata nel 2003, cfr.: P. TULLINI, Mutualità e lavoro nelle recenti riforme della società cooperativa, in Dir. rel. ind., 2005, 711 ss.; S. LAFORGIA, L’art. 9 l. n. 30/2003 tra riduzione del «conflitto» e «recupero» della mutualità, in Lav. giur., 2004, 857 ss.; L. MONTUSCHI, P. TULLINI (a cura di), Le cooperative ed il socio lavoratore. La nuova disciplina (l. 14 febbraio 2003 n. 30 e d.leg. 10 settembre 2003 n. 276), Giappichelli, Torino, 2004; M. PALLINI, Il rapporto di lavoro del socio di cooperativa dopo le riforme del 2003, in Riv. giur. lav., 2004, I, 203 ss.; A. GUARISO, Primi appunti sulla «controriforma» del lavoro in cooperativa, in Riv. crit. dir. lav., 2003, 39 ss. Nondimeno, sempre senza pretesa di esaustività, e procedendo a ritroso nel tempo, la riflessione della dottrina italiana appare incessante: M. TREMOLADA, Lavoro nelle cooperative, in Enc. dir., ann., Milano, 2014, vol. VII, 627 ss.; S. LAFORGIA, Il lavoro in cooperativa, in Mass. giur. lav., 2013, 820 ss.; G. CANAVESI, Rapporto sociale, rapporto mutualistico e prestazione lavorativa del socio lavoratore di cooperativa, in M. PERSIANI (a cura di), I nuovi contratti di lavoro, Utet, Torino, 2010; L. RATTI, Mutualità e scambio nella prestazione di lavoro del socio di cooperativa, in Arg. dir. lav., 2008, 734 ss.; L. VENDITTI,Cooperative sociali e prestazioni di lavoro, in Dir. merc. lav., 2007, 387 ss.; A. VALLEBONA, Lavoro in cooperativa, in Il diritto. Enc. giur., Milano, 2007, vol. VIII, 585 ss.; M. VINCIERI, Lavoro nelle cooperative, in Dig. comm., agg., 2008, Torino, 494 ss.; L. IMBERTI, La disciplina del socio lavoratore tra vera e falsa cooperazione, in Riv. giur. lav., 2008, 201 e 387 ss; E. GRAGNOLI, Collegamento negoziale e recesso intimato al socio-lavoratore, in Lav. giur., 2007, 444 ss.; M. TIRABOSCHI, Lavoro (rapporti associativi di), in Enc. giur., Roma, vol. XVIII, post. agg., 2006; L. SALAMONE, Cooperative sociali e impresa mutualistica, in Riv. dir. sic. soc., 2006, 651; G. DONDI, Sul lavoro nelle cooperative sociali, in Riv. giur. lav., 1999, I, 547 ss.; L. NOGLER, Nuove incertezze sulla qualificazione della prestazione lavorativa del socio della cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 486 ss.; C. ZOLI, Cooperativa di lavoro e tutela del socio, in Lav. giur., 1994, 105 ss.; M. BIAGI, Lavoro associato. Cooperazione, in Dig., disc. Priv., sez. comm., Torino, 1992, vol. VIII, 193 ss.; A. VALLEBONA, Il lavoro in cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 1991, I, 291 ss.; M. BIAGI, Soci d’opera e lavoratori soci di società ed enti cooperativi, in Noviss. dig., app. VII, Torino, 1987, 284 ss.; M. DELL’OLIO, Retribuzione e tipo di rapporto: lavoro in cooperativa, impresa familiare, volontariato, in Dir. lav., 1986, I, 3 ss.
[6] Sulla specificità e centralità del ruolo che viene demandato dall’ordinamento al giudice del lavoro, inteso come mediatore specializzato “tra contrapposti interessi nel rispetto dei principi fondamentali alla base del nostro sistema costituzionale, nonché ed in misura crescente dei vincoli derivanti dalle normative internazionali ed europee”, v. G. SANTORO PASSARELLI, Note per un discorso sulla giustizia del lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2015, 512 ss., spec. 545 ss.
[7] Stante l’inciso del primo comma che delimita espressamente la speciale disciplina delle rinunzie e transazioni in materia di lavoro a quelle “concernenti i rapporti di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile”. Ancorché, va pure considerato che, sia con riguardo al tema delle rinunzie e transazioni, che a quello del maggior danno subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del credito, si potrebbe anche argomentare circa la natura sostanziale delle previsioni e, dunque, la loro generale applicabilità al socio subordinato dopo la legge n. 142 del 2001, ex art. 409 n. 1 c.p.c.
[8] Il tema delle deferibilità ad arbitri delle controversie tra socie di lavoro e cooperativa resta spinoso, anche considerata la frequenza con la quale le norme statutarie delle cooperative di produzione e lavoro devolvono eventuali controversie che insorgano tra soci e associazione alla decisione di un collegio arbitrale. Di qui le difficoltà della giurisprudenza nel delimitare, con fatica, la compromettibilità alle sole questioni associative, ovvero all’eventuale delibera di esclusione dal solo rapporto mutualistico, senza, invece, consentire che vi sia devoluzione di vere e proprie liti lavoristiche, con conseguente dichiarazione di nullità delle clausole compromissorie che deroghino alla competenza del giudice del lavoro, cfr. ad esempio Trib. Ravenna 29 aprile 2009 (est. Riverso), in Riv. crit. dir. lav., 2009, 566 ss. Per ulteriori precedenti v. L. IMBERTI, Il socio lavoratore di cooperativa, cit., 265. Cfr. anche E. GABELLINI, Brevi note sulla compromettibilità delle controversie tra socio e cooperativa di produzione e lavoro; art. 40 c.p.c. e connessione tra giudizio arbitrale e giudizio ordinario, in Riv. arb., 2015, 366 ss., nota a Trib. Piacenza 10 dicembre 2014; M. MAFFUCCINI, Licenziamento del socio/lav-oratore di cooperativa e clausola compromissoria contenuta nello statuto: brevi note, in Riv. crit. dir. lav., 2009, 59 ss.; M. LONGO, Sulla validità della clausola compromissoria per la soluzione di controversie fra cooperativa di produzione e lavoro e socio lavoratore, in Riv. arb., 2000, 155 ss., nota a Arb. Pisa 7 ottobre 1999; M. VINCIERI, Sulla devoluzione agli arbitri delle controversie fra socio e cooperativa, in Giust. civ., 2004, I, 520 ss., nota a Trib. Catania 21 febbraio 2003; P. SANDULLI, I metodi di risoluzione alternativa alle controversie tra società e soci lavoratori delle medesime, in Temi rom., 2001, 3, 164 ss.
[9] L. NOGLER, Il principio del doppio rapporto e le tipologie lavorative, in L. NOGLER, M. TREMOLADA, C. ZOLI (a cura di), op. cit., 357 ss. Ma il tema attraversa trasversalmente praticamente tutta la letteratura menzionata alla nota 5.
[10] Sulla necessità di un autonomo contratto v. L. NOGLER, Il principio del doppio rapporto e le tipologie lavorative, cit., 361.
[11] Per tutti, A. VALLEBONA, L’incostituzionale stravolgimento del lavoro in cooperativa, cit., 813 ss.
[12] Cass., S.U., 30 ottobre 1998, n. 10906. Prima dell’intervento delle sezioni unite prevaleva l’orientamento giurisprudenziale che negava al socio di lavoro l’accesso al rito ed al giudice del lavoro, sulla scorta di una lettura che faceva perno sulla specialità del rapporto giuridico in questione e che aveva avuto autorevolissimo avallo con la sentenza della Corte Costituzionale n. 30 del 1996. Senonché, quella soluzione, per quanto formalmente ineccepibile, veniva inevitabilmente messa in crisi dalla rilevazione, nell’esperienza concreta, di una effettiva (e spesso accesa) contrapposizione e conflittualità delle posizioni, unita ad una sostanziale alienità del risultato e dell’organizzazione, quantomeno nelle cooperative di più grandi dimensioni con migliaia di soci addetti al processo produttivo.
[13] L’impiego del verbo restare è sembrato volere suggerire una sorta di interpretazione autentica, e comunque manifestare un esplicito disaccordo rispetto all’approdo giurisprudenziale realizzato con la ricordata sentenza delle sezioni unite.
[14] L’originaria versione dell’art. 5, comma 2, così disponeva: “Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell’articolo 1 rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento, si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del codice di procedura civile. In caso di controversie sui rapporti di lavoro tra i soci lavoratori e le cooperative, si applicano le procedure di conciliazione e arbitrato irrituale previste dai D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, e D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387. Restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo”.
[15] Corte Cost. 28 marzo 2008, n. 71, in Foro it., 2008, I, 1363, con nota di D. DALFINO, L’(automatica) prevalenza del rito societario è incostituzionale: fine di un primato e ritorno (per il lavoratore) alle garanzie.
[16] Sembra accedere a questa interpretazione anche Cass. 5 luglio 2011, n. 14741, salvo poi rilevare che il legislatore del 2003 ha “confermato il tratto essenziale della riforma” del 2001, “e cioè la sicura coesistenza, nella cooperazione di lavoro, di una pluralità di rapporti contrattuali e la conseguente irriducibilità del lavoro cooperativo ad una dimensione puramente societaria, con la connessa coesistenza di una pluralità di tutele, coerenti con la pluralità di cause contrattuali che descrivono, solo nel loro insieme, la posizione giuridica del socio lavoratore”.
[17] L’espressione ricorre in letteratura, alle volte fin dai titoli, v. C. CESTER, La nuova disciplina del socio lavoratore di cooperativa: una controriforma? Alcune osservazioni sull’art. 9 della l. 14 febbraio 2003, n. 30, in L. MONTUSCHI, P. TULLINI (a cura di), op. cit., 23 ss.; R. RIVERSO, La controriforma sulla competenza in materia di controversie tra socio lavoratore e cooperativa attuata con l’art. 9 l. n. 30/2003, cit., 1017 ss.; A. GUARISO, Primi appunti sulla «controriforma» del lavoro in cooperativa, cit., 39 ss.; M. QUARANTA, Le norme in materia di socio lavoratore: ritocco o controriforma?, in R. DE LUCA TAMAJO, M. RUSCIANO, L. ZOPPOLI (a cura di), Mercato del lavoro. Riforma e vincoli di sistema, Esi, Napoli, 2004, 257 ss. In quest’ultimo volume, v. anche i contributi sempre sulle modifiche introdotte con la legge n. 30/2003 di G. MELIADÒ, La nuova legge sul lavoro cooperativo, 179 ss. (che denunzia un tentativo di riscrittura della legge n. 142 mediante “un’incursione emendativa” priva di “una ponderata valutazione di tutti gli interessi che vengono in gioco nel fenomeno cooperativo”), B. FIORAI, Il lavoro in cooperativa: riforma “insostenibile”?, 207 ss. e L. GAETA, Lavoro coordinato e lavoro in cooperativa: appunti sulle tecniche legislative, 267 ss.
[18] L’impiego dell’art. 28 della legge n. 300/1970 in campo cooperativistico è stato, come noto, a lungo controverso, in quanto non si riteneva (almeno fino alla legge n. 142/2001) la cooperativa legittimata passiva, non essendo datore di lavoro. Più in generale, non si riteneva si realizzasse proprio quella contrapposizione tipica degli interessi, necessaria per attivare la fisiologica dinamica conflittuale sindacale. Su questi temi il rinvio d’obbligo è a M. BIAGI, Mutualità e conflitto in cooperativa fra contrattazione collettiva autonoma e dinamica sindacale, in Riv. it. dir. lav., 1984, I, 594 ss. Ovviamente la legge n. 142/2001 ha superato i dubbi e le incertezze preesistenti, ed ora la giurisprudenza ritiene che “le organizzazioni sindacali che proteggono gli interessi collettivi di soci di cooperative di lavoro possono attivare lo strumento di tutela previsto dall’art. 28 dello Statuto dei lavoratori per la denuncia di condotte antisindacali tenute dalla cooperativa, qualora la controversia abbia a oggetto questioni attinenti al rapporto subordinato fra soci e cooperativa medesima e non anche qualora abbia a oggetto questioni attinenti al rapporto associativo”, così Trib. Roma, decr. 3 marzo 2008 (Est. Mimmo), in Riv. crit. dir. lav., 2008, 515 ss. In dottrina cfr. W. CHIAROMONTE, Legittimazione passiva della cooperativa di lavoro nel procedimento ex art. 28 st. lav., antisindacalità dell’induzione al recesso da un’organizzazione sindacale e contenuto dell’ordine giudiziale di rimozione degli effetti di tale condotta, in Riv. it. dir. lav., 2008, II, 516 ss., nota a Trib. Roma 3 marzo 2008; M. VINCIERI, Sull’applicabilità dell’art. 28 st. lav. al rapporto fra sindacato e cooperativa di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 482 ss., nota a Cass. 27 agosto 2002, n. 12584; M. GARATTONI, Sull’applicabilità della procedura per condotta antisindacale di cui all’art. 28 statuto lavoratori ai rapporti tra socio lavoratore e cooperativa di produzione e lavoro, in Riv. giur. lav., 2002, II, 607 ss., nota a Cass. 18 luglio 2001, n. 9722.
[19] Anche L. IMBERTI, Il socio lavoratore di cooperativa, cit., 249-250, aderisce a questa impostazione ritenendola “per quanto opinabile” “la soluzione più equilibrata e condivisibile”, ivi anche ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza.
[20] V. Cass., ord. 6 dicembre 2010, n. 24692.
[21] Ai quali va aggiunto, come ricorda Corte Cost. 28 dicembre 2006, n. 460, il principio per cui in materia processuale il legislatore incontra “il solo limite della manifesta irragionevolezza ed arbitrarietà”.
[22] V. ancora Corte Cost. 28 dicembre 2006, n. 460. Cfr. anche Corte Cost. 15 aprile 2014, n. 95 pure di manifesta inammissibilità con richiamo al precedente del 2006. Prima della legge n. 142/2001 la Consulta si era egualmente espressa per la inammissibilità con la sentenza Corte Cost. 2 aprile 1992, n. 155, in un caso nel quale il giudice remittente reclamava l’estensione dell’art. 409 c.p.c. ex artt. 3, 24 e 45 Cost., ma aveva escluso ricorresse un rapporto di lavoro subordinato tra socio di lavoro e cooperativa. In quella occasione, peraltro, la Corte costituzionale ebbe modo di precisare che “la diversità di rito non incide sulla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi in maniera così grave da renderla non effettiva o, comunque, da far venir meno la garanzia assicurata dal precetto costituzionale” (id est l’art. 24 Cost.).
[23] Vi sarebbe, a rigore, anche una portata innovativa non ravvisata dal giudice remittente atteso che la nuova formulazione esclude l’applicazione del rito del lavoro anche al socio che presti la propria attività quale lavoratore non subordinato e neppure coordinato, ma con rapporto di lavoro autonomo. Sul punto v. anche per riferimenti L. IMBERTI, Il socio lavoratore di cooperativa, cit., 250 ss.
[24] Così Cass., ord. 18 gennaio 2005, n. 850. Nello stesso senso, in dottrina B. FIORAI, Il lavoro in cooperativa: riforma “insostenibile”?, cit., 211; S. PALLADINI, Il lavoro nelle cooperative oltre il rapporto mutualistico, cit., 234, e ivi anche ulteriori riferimenti.
[25] M. DELL’OLIO, Retribuzione e tipo di rapporto: lavoro in cooperativa, impresa familiare, volontariato, cit., 4.
[26] M. DELL’OLIO, Retribuzione e tipo di rapporto: lavoro in cooperativa, impresa familiare, volontariato, cit., 4.
[27] Sulla possibile coesistenza in ambito mutualistico di prestazioni “pienamente compatibili con la realizzazione dell’oggetto sociale, afferendo ad una prestazione accessoria ad esso funzionale” v. ad es. Cass. 17 luglio 2008, n. 19719.
[28] Così Trib. Ravenna 29 aprile 2009 (est. Riverso), cit., 566 ss.
[29] Prima della legge di conversione la disposizione, faceva un laconico riferimento alle controversie “tra soci e società”.
[30] Per i richiami a tale prassi giudiziaria v. L. IMBERTI, Canti e controcanti nella giurisprudenza della Cassazione in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore in cooperativa, cit., 826.
[31] Cfr. le pronunce richiamate da C. GAMBA, Questioni processuali controverse sulla tutela del socio di cooperative estromesso, cit., 1132.
[32] Si tratta di Cass., ord. 21 novembre 2014, n. 24917, Cass., ord. 27 novembre 2014, n. 25237, Cass., ord. 6 ottobre 2015, n. 19975.
[33] Sempre Cass., ord. 21 novembre 2014, n. 24917, Cass., ord. 27 novembre 2014, n. 25237, Cass., ord. 6 ottobre 2015, n. 19975.
[34] Peraltro, se, all’esito di un bilanciamento esplicito tra ragioni di incentivazione e promozione della produzione cooperativa e ragioni di tutela di chi lavora, la Consulta continuasse ad assegnasse prevalenza alla competenza del giudice del lavoro, non avremmo, nella sostanza, nulla da eccepire. Perché, come premesso, la promozione della mutualità non postula affatto uno sbilanciamento dei rapporti di potere tra socio e cooperativa a scapito di chi lavora..
[35] In tema in aggiunta agli autori già citati, v. S. LAFORGIA, Esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: variazioni sul tema, in Riv. giur. lav., 2015, II, 255 ss.; ID., Esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: un punto fermo pur nelle incertezze argomentative, in Arg. dir. lav., 2014, 1172 ss.; ID., L’impugnativa dell’esclusione e del contestuale licenziamento del socio lavoratore di cooperativa: ancora una questione aperta, in Arg. dir. lav., 2013, 686 ss.; L. IMBERTI, Primi interventi giurisprudenziali in tema di esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa, in Lav. giur., 2004, 157 ss.; D. BUONCRISTIANI, Esclusione o licenziamento del socio lavoratore di cooperativa?, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1331 ss.; G. LUDOVICO, Esclusione del socio lavoratore e cessazione del rapporto di lavoro nell’ambito della l. n. 142/2001, in Riv. it. dir. lav., 2003, II, 543 ss.; E. GRAGNOLI, Recenti orientamenti normativi sull’esclusione del socio lavoratore di impresa cooperativa, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 841 ss.; A. MONTANARI, Esclusione e licenziamento del socio lavoratore di cooperativa di lavoro: disciplina legislativa e problemi applicativi, in Mass. giur. lav., 2004, 521 ss.; M. TREMOLADA, Estinzione del rapporto di lavoro, in L. NOGLER, M. TREMOLADA, C. ZOLI (a cura di), cit., 392 ss.
[36] Conclude in tal senso ad es. Cass., ord. 21 novembre 2014, n. 24917, in un caso in cui coesistevano due “concorrenti cause di risoluzione del rapporto delle socie-lavoratrici: una è l’automatica estinzione del rapporto di lavoro quale effetto della delibera di esclusione per motivi riguardanti la violazione degli obblighi statutari, l’altra è costituita da ragioni economiche riguardanti l’attività di impresa e la ravvisata opportunità aziendale di esternalizzare le funzioni in cui erano impiegate le lavoratoci” con conseguente soppressione dei posti di lavoro occupati dalle lavoratrici “e affermata impossibilità di repechage”.
[37] Per Cass. 4 giugno 2015, n. 11548 “chiaro è l’intendimento del legislatore: evitare per le società cooperative, considerata l’evidente rilevanza dell’intuitus personae, la possibilità di reintegrazione del socio lavoratore e quindi di ricostituzione in via autoritativa del rapporto societario”.
[38] V. ad es. in Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802, ma l’affermazione ricorre costantemente, v. ancora Cass. 4 giugno 2015, n. 11548.
[39] Sottolineano la connessione tra le due disposizioni Cass. 26 febbraio 2016, n. 3836 e Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802.
[40] Cfr., anche qui tra le altre, Cass. 5 luglio 2011, n. 14741 o Cass. 12 febbraio 2015, n. 2802.
[41] Anche perché la previsione del rimedio speciale rende inutilizzabili le normali azioni di nullità e annullabilità delle delibere sociali previste dagli artt. 2377 e ss. c.c. Cfr. in tal senso Cass. 1° aprile 2016, n. 6373 e Cass. 5 dicembre 2011, n. 25945.
[42] Come già abbiamo avuto modo di osservare (cfr. supra nt. 8), molto spesso le norme statutarie delle cooperative di produzione e lavoro devolvono la risoluzione delle controversie tra soci e associazione alle decisioni di un collegio arbitrale. Al riguardo, la Cassazione a sezioni unite ha di recente stabilito che il termine di decadenza per l’impugnazione della delibera di esclusione del socio, come visto dettato ora dall’art. 2533 c.c., è “applicabile anche nel caso in cui il relativo giudizio sia introdotto davanti agli arbitri in ragione della presenza di una clausola compromissoria”, così Cass., S.U., 6 luglio 2016, n. 13722. Ovviamente, sempre che si controverta in tema di diritti arbitrabili ex art. 806, 2 comma, c.p.c., che, altrimenti, lo stesso collegio arbitrale dovrebbe dichiarare la propria incompetenza a favore del giudice del lavoro, v. in tal senso Trib. Firenze 16 gennaio 2015, n. 22063, in Giur it., 2015, 1461, con nota di G. GAUDIO, Esclusione del socio lavoratore dipendente di cooperativa: lo «stato dell’arte».
[43] Così Cass. 26 febbraio 2016, n. 3836, per cui il socio che non impugni tempestivamente il provvedimento di esclusione decade dalla possibilità di contestare vizi attinenti alla “formazione della volontà dell’organo sociale societario legittimato ad adottare il provvedimento”, anche se invochi l’inesistenza della delibera di esclusione. Ivi è anche confermato il principio già formulato da Cass. 15 settembre 2004, n. 18556 “che, ove la comunicazione della esclusione sia stata fatta al socio personalmente, lo spirare del termine di decadenza per la opposizione esclude che eventuali vizi del provvedimento possano essere successivamente dedotti, sia pure in via di eccezione, dalla parte interessata o rilevati dal giudice”.
[44] Ma sul punto cfr. ancora G. SANTORO PASSARELLI, Note per un discorso sulla giustizia del lavoro, cit., 545 ss.
[45] Cass. 1 aprile 2016, n. 6373, con nota di L. ANGIELLO, La comunicazione dell’esclusione del socio-lavoratore nelle cooperative, in Lav. giur., 2016, 784 ss.
[46] Cass. 1 aprile 2016, n. 6373.
[47] Così Cass. 1 aprile 2016, n. 6373 nel presupposto che “gli effetti descritti dall’art. 2 l. 142/2001 che precluderebbero l’applicazione dell’art. 18; e quelli ancora più radicalmente estintivi previsti dall’art. 5 l. 142 come mod. l. n. 30/2003 (che precluderebbero l’applicazione di tutto l’apparato normativo formale, causale e rimediale del licenziamento) presuppongono che la delibera di esclusione sia stata comunicata al lavoratore”.
[48] Cass. 5 luglio 2011, n. 14741.
[49] Cass. 5 luglio 2011, n. 14741.
[50] Per la giurisprudenza infatti, “rimosso il provvedimento di esclusione, il socio avrà diritto alla ricostituzione del rapporto associativo e del concorrente rapporto di lavoro, indipendentemente dall’applicabilità dell’art. 18 dello Statuto”, cfr. ancora Cass. 5 luglio 2011, n. 14741 e negli stessi termini anche Cass. 6 agosto 2012, n. 14143 o Cass. 26 febbraio 2016, n. 3836.
[51] Cass. 5 ottobre 2016, n. 19918, Cass., 23 gennaio 2015, n. 1259, Cass. 6 agosto 2012, n. 14143, Cass. 18 marzo 2014, n. 6224, Cass. 11 agosto 2014, n. 17868.
[52] Cass. 4 giugno 2015, n. 11548.
[53] L. IMBERTI, Il socio lavoratore di cooperativa, cit., 268, in sede di prima applicazione della legge n. 92/2012. Che però, sul punto, re melius perpensa, ha forse poi mutato opinione, cfr. ID., Canti e controcanti nella giurisprudenza della Cassazione in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore in cooperativa, cit., 826.
[54] Occorre, peraltro, precisare che, se si ritiene che anche il rapporto di lavoro rientri tra i “rapporti mutualistici pendenti”, il quadro, perlomeno all’apparenza, si semplifica. In sostanza, in ogni caso di scioglimento legittimo o comunque inoppugnabile del rapporto sociale, si darebbe applicazione ad una vera e propria risoluzione automatica ope legis anche del rapporto di lavoro, a dispetto dei motivi, dei casi, del dimensionamento della cooperativa e, quindi, anche della tutela lavoristica astrattamente invocabile dal socio lavoratore. Risoluzione automatica che sarebbe contenuta all’interno di una legge speciale e della quale il giudice dovrebbe semplicemente limitarsi a prendere atto, dichiarando la inammissibilità o l’infondatezza di ogni domanda anche solo risarcitoria del socio lavoratore connessa alla ritenuta illegittimità del recesso. Senonché, al di là della opinabile equiparazione del rapporto di lavoro ai rapporti mutualistici pendenti (cfr. supra nel testo il par. n. 5), una simile lettura presta il fianco a possibili dubbi di legittimità costituzionale, per l’evidente eccedenza del mezzo rispetto al fine, che dovrebbe pur essere soltanto quello di evitare il rischio del ripristino coattivo del rapporto risolto. A meno di non ritenere che costituisca di per sé valida ratio legis anche quella di inibire sempre e comunque anche l’eventuale tutela risarcitoria del socio, una volta che questi è stato validamente estromesso. Resta, infine, che, accedendo ad una simile interpretazione, non si comprenderebbe il motivo per il quale il legislatore abbia allora espressamente escluso l’applicazione dell’art. 18, e non già del più complesso e articolato apparato rimediale lavoristico contro i licenziamenti illegittimi, visto che, allorché fu disposta, quell’esclusione significava essenzialmente rimozione espressa soltanto di uno dei regimi di tutela (id est quella cd. reale come noto contrapposta a quella cd. obbligatoria) previsti avverso i licenziamenti illegittimi.
[55] L’espressione tra virgolette è di L. IMBERTI, Canti e controcanti nella giurisprudenza della Cassazione in materia di esclusione e licenziamento del socio lavoratore in cooperativa, cit., 828, che, come altri del resto, reclama l’intervento del legislatore. L’intervento delle sezioni unite è, invece, invocato da C. GAMBA, Questioni processuali controverse sulla tutela del socio di cooperative estromesso, cit., 1133 e G. GAUDIO, Esclusione del socio lavoratore dipendente di cooperativa: lo «stato dell’arte», cit., 1466. Giustamente S. PALLADINI, Il lavoro nelle cooperative oltre il rapporto mutualistico, cit., 231 ss., ricorda le moltiformi critiche mosse dalla dottrina anche alla originaria formulazione dell’art. 5, comma 2.
[56] V. relazione della Commissione per lo studio e la revisione della normativa processuale del lavoro, in Foro it., 2007, V, 189 e ss. Più di recente, in tema di efficientamento e complessivo riordino del processo civile, v. anche il d.d.l. delega n. 2284, attualmente all’attenzione del Senato e già approvato alla Camera con il n. 2953 (ivi presentato l’11 marzo 2015), dichiaratamente ispirato alle conclusioni della cd. “commissione Vaccarella”.
[57] D. BUONCRISTIANI, Estromissione del socio lavoratore: quale tutela, in Soc., 2015, 578 ss., sp. 596. Il tema è poi ripreso ad esempio da C. GAMBA, Questioni processuali controverse sulla tutela del socio di cooperative estromesso, cit., 1131.
[58] Così come, perfino nei casi in cui la cooperativa si limita alla sola estromissione sociale, nella prassi avvocatesca, il socio lavoratore al mero fine di prevenire contestazioni sulla decadenza, spesso impugna sia la delibera sociale di esclusione, ex art. 2533 c.c., che il licenziamento comunque “presupposto”, ex art. 6 della legge n. 604/1966.
[59] Cfr. Cass, ord. 27 novembre 2014, n. 25237.