Il saggio analizza l’evoluzione della disciplina del licenziamento disciplinare e, in particolare, il rapporto tra la disciplina legale e la tipizzazione convenzionale delle fattispecie aventi rilevanza disciplinare. Oggetto di analisi è, nello specifico, la sentenza della Corte Costituzionale n. 129 del 2024 che ha proposto l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, con riferimento all’art. 39 Cost.
The essay analyses the evolution of the discipline of disciplinary dismissal and, in particular, the relationship between the legal discipline and the conventional typification of cases having disciplinary relevance. The subject of analysis is, specifically, the Constitutional Court’s ruling no. 129 of 2024, which proposed a constitutionally oriented interpretation of Article 3(2) of Legislative Decree no. 23 of 2015, with reference to Article 39 of the Constitution.
1. Licenziamento disciplinare, giustificatezza e tutele: ma quanto è difficile separare il grano dal loglio! - 2. Tipizzazione convenzionale, selettività dell’inderogabilità unidirezionale in peius e primato dalla valutazione giudiziale - 3. Proporzionalità convenzionale e tutela reintegratoria: il ruolo della contrattazione collettiva - 4. Nozione legale vs. tipizzazione convenzionale 1 a 0, anche se in palio c’è la reintegra - 5. Tipizzazione convenzionale, clausole generali e discrezionalità giudiziale nella giurisprudenza sull’art. 18, comma 4, dello Statuto novellato dalla riforma Fornero - 6. La sentenza n. 129/2024 e la “costituzionalizzazione selettiva” della tipizzazione convenzionale - 7. Ri-sindacalizzazione del licenziamento, bilanciamento in concreto e certezza del diritto - NOTE
Che la disciplina sul licenziamento sia il frutto incessante di un costante bilanciamento tra valori e di una mediazione tra interessi operata attraverso il susseguirsi di intrecci tra il formante contrattuale, legislativo e giurisprudenziale è circostanza nota; che tuttavia il processo iniziato nel decennio scorso di continua ricerca di compromessi [1] fra istanze di flessibilizzazione e puntellamento dei valori innescasse una sorta di moto perpetuo era difficilmente prevedibile anche da parte di quella dottrina consapevole del fatto che intervenire sull’art. 18 dello Statuto equivalesse a una mission impossible [2]. Nel corso di poco meno di un quindicennio di riforme [3], è invece accaduto che l’obiettivo di riscrittura della disciplina dei licenziamenti abbia dato vita a una sorta di costante rivisitazione, legislativa e soprattutto giurisprudenziale, della disciplina stessa, che ha costretto gli operatori a modificare continuamente le categorie interpretative alla ricerca di certezze che, tuttavia, in questa materia, sembrano ben lungi dall’essere raggiungibili [4], con buona pace per le esigenze di certezza del diritto che dovrebbero garantire la prevedibilità delle condotte e gli esiti dei procedimenti giudiziari. Sebbene le riforme dell’ultimo quindicennio formalmente non abbiano mutato le nozioni sostanziali di giusta causa e giustificato motivo previste dall’art. 2119 c.c. e dall’art. 3 della legge n. 604/1966, limitandosi a prevedere una graduazione delle sanzioni in ragione della qualificazione dei fatti posta dal datore di lavoro alla base del licenziamento (e poi anche della data di assunzione), è evidente come la nuova disciplina abbia costretto a ripensare il rapporto tra il potere di recesso e le ragioni giustificative delle stesso, anche al solo fine di distinguere l’ambito di demarcazione fra la tutela indennitaria e quella reintegratoria. Ciò, come è noto, è avvenuto facendo passare la linea fra le due tutele, orizzontalmente, attraverso entrambe le tipologie di licenziamento ingiustificato, così da isolare, per ciascuna di esse, un’area di ingiustificatezza aggravata e qualificata, nella quale preservare la tutela reintegratoria, e una di ingiustificatezza semplice, nella quale opera la tutela economica. A partire dalla novella del 2012, dunque, la scelta del rimedio applicabile in caso di licenziamento [continua ..]
Per quanto riguarda il licenziamento per motivi disciplinari [8], dopo la querelle interpretativa e giurisprudenziale che ha riguardato la nozione di “insussistenza del fatto contestato” [9], poi corretta in “fatto materiale” dal Jobs Act, e il consolidamento della teoria del “fatto giuridico” [10], il successivo dibattito ha riguardato proprio gli effetti rimediali connessi alla tipizzazione convenzionale delle fattispecie di licenziamento. La tipizzazione convenzionale affonda le proprie radici nel secolo scorso, durante il quale, in particolare, a lungo si è discusso sul rapporto tra nozione legale e tipizzazione convenzionale. Storicamente, la “sindacalizzazione” delle fattispecie aventi rilevanza disciplinare, da una parte, ha consentito al datore di lavoro di esercitare anche una funzione intimidatoria, e dunque di sanzionare pure inadempimenti del lavoratore non particolarmente gravi; dall’altra, è stata funzionale a garantire che il datore di lavoro fosse «sufficientemente armato al fine di prevenire ogni turbamento, ogni disobbedienza, ogni leggerezza», evitando – nei casi meno gravi – il licenziamento del lavoratore, a fronte di «una pena meno severa, facile ad essere applicata, senza dispiacevole influenza sulla continuazione del lavoro d’insieme» [11]. Venuta meno la possibilità di recesso libero e affermata la natura ontologicamente disciplinare del licenziamento, anche grazie alla previsione di cui all’art. 12 della legge n. 604/1966 che, in materia di licenziamento, faceva salve le clausole dei contratti collettivi che prevedevano disposizioni più favorevoli ai lavoratori [12], il rapporto tra la nozione legale di giusta causa e la tipizzazione convenzionale si è progressivamente assestato, nell’ambito di un più o meno accentuato processo di «relativizzazione del “peso”» delle clausole dei contratti collettivi stessi [13], nel rispetto della regola della non derogabilità in peius della tipizzazione convenzionale. In questo delicato equilibrio, in giurisprudenza, si è consolidato l’orientamento secondo il quale la giusta causa è nozione legale autosufficiente, per cui il giudice può ritenere la sussistenza della stessa anche in assenza di una previsione della contrattazione collettiva che tipizza la [continua ..]
Nel quadro normativo e giurisprudenziale relativo all’ambito di operatività della tipizzazione convenzionale, si è inserita la previsione dell’art. 18, comma 4, dell’art. 18 come modificato dalla riforma Fornero che, nel disciplinare il residuale ambito di intervento della tutela reintegratoria nei confronti del licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, ha stabilito che essa debba essere applicata anche allorché il fatto illegittimamente sanzionato con il recesso rientri «tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili». Con la disposizione citata, nell’ambito del secondo step del giudizio bifasico, il principio di proporzionalità, di per sé irrilevante nel giudizio sulla sussistenza/insussistenza del fatto, ha acquisito un ruolo centrale ove la proporzionalità medesima sia fissata dall’autonomia collettiva o unilateralmente fissata nel codice disciplinare predisposto dal datore di lavoro. Laddove il contratto collettivo abbia tipizzato la condotta punibile con una sanzione conservativa o la stessa condotta sia stata concretamente individuata dal codice disciplinare adottato in azienda, il licenziamento potrà essere considerato oltre che ingiustificato, anche quale fattispecie cui è applicabile la tutela reintegratoria debole. Ratio della disposizione, pertanto, come condivisibilmente ritenuto da parte della dottrina, sarebbe quella di sanzionare più gravemente il datore di lavoro che, in contrasto con fattispecie già tipizzate per via convenzionale o per sua stessa mano (tramite un codice disciplinare dallo stesso adottato), violi la regola di proporzionalità ivi cristallizzata, di fatto penalizzando ancora più gravemente il lavoratore che, appunto, perde il lavoro per aver posto in essere una condotta che, come previsto dalle suddette “fonti” di regolazione delle fattispecie aventi rilevanza disciplinare, non avrebbe dovuto condurre al licenziamento. La “conoscibilità” della fattispecie tipizzata [27], dunque, agisce come una sorta di “aggravante” tale da rendere necessaria, anche a tutela della dignità del lavoratore, la sanzione più grave, vale a dire la reintegra. Com’era prevedibile, la disposizione prevista dall’art. [continua ..]
Come anticipato dal dibattito dottrinale, era ed è ovvio che la permanenza di una residua area di applicazione della tutela reintegratoria alle ipotesi in cui il licenziamento sia basato su un fatto che rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, avrebbe aperto le porte a una serie di problematiche interpretative che infatti hanno caratterizzato una stagione burrascosa e altalenante della giurisprudenza di legittimità [36]. In un primo momento le pronunce della Cassazione sull’art. 18, comma 4, si sono ispirate a una lettura abbastanza ponderata del principio di proporzionalità convenzionale. Dopo una prima fase di riconduzione case-by-case delle condotte oggetto dei giudizi di licenziamento a fattispecie tipizzate dalla contrattazione collettiva [37], la Cassazione ha optato per l’esternazione di un vero e proprio manifesto interpretativo della disposizione in questione in chiave restrittiva. A partire dalla sentenza n. 12365/2019 [38], la Corte di Cassazione ha inaugurato un atteggiamento di maggiore prudenza nell’applicazione della previsione, escludendo la possibilità di interpretazioni estensive delle previsioni dei contratti collettivi in contrasto con la ratio legislativa volta a relegare la tutela reintegratoria a un’eccezione. Come chiarito nella sentenza citata, infatti, «solo ove il fatto contestato e accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale vincolante per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà non solo illegittimo ma anche meritevole della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 novellato, comma 4. Coerentemente non può dirsi consentito al Giudice, in presenza di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa, applicare la tutela reintegratoria operando una estensione non consentita, per le ragioni suesposte, al caso non previsto sul presupposto del ritenuto pari disvalore disciplinare» [39]. Nella citata sentenza n. 12365/2019, tuttavia, la Corte non si è limitata a censurare il mero richiamo della disposizione della contrattazione collettiva ai fini dell’applicazione [continua ..]
Sebbene la sentenza della Cassazione n. 12365/2019 riguardasse una ipotesi in cui, secondo la Corte, vi era la giusta causa e quindi il licenziamento era (in quel caso) giustificato, è evidente come il caso abbia fornito alla Corte l’occasione per consolidare l’orientamento – mediante una sorta di sentenza/manifesto [42] – che, richiamando l’argomentazione che esclude l’interpretazione analogica delle disposizioni del contratto collettivo e la voluntas legis che configura la tutela reintegratoria come sussidiaria rispetto a quella indennitaria, sugella la necessità di interpretare restrittivamente la stessa norma legale di rinvio (l’art. 18, comma 4) alla tipizzazione contrattuale per individuare i casi di applicazione della tutela reintegratoria medesima. Con la conseguenza che il giudice, nell’applicare il rimedio della reintegra, «è vincolato, per le ragioni di policy sopra indicate, alla fattispecie di infrazione “nuda e cruda”, per come descritta dalla norma contrattuale» [43]. L’orientamento citato, com’era prevedibile, ha suscitato scalpore in quanto, di fatto, l’operazione di interpretazione restrittiva dell’art. 18, comma 4 [44], è stato letto come il frutto di una precisa volontà di tarpare le ali a una vera e propria “resurrezione” della reintegrazione a maglie larghe. In realtà, con l’orientamento citato, la Cassazione è rimasta fedele a se stessa: in gioco non vi era solo una questione di certezza del diritto nell’individuazione delle ipotesi in cui opera la reintegra; né una mera operazione di policy giudiziaria volta a preservare l’eccezionalità del rimedio della reintegra; ma, più complessivamente, era in gioco la definizione dei confini giudiziali di interpretazione della nozione legale di giusta causa, atteso che, come in un sistema a vasi comunicanti, più la giurisprudenza si “autovincola” alla tipizzazione convenzionale (allo scopo di allargare le maglie della tutela reintegratoria), più le maglie della interpretazione giudiziale della nozione legale tenderanno ad “appiattirsi” sulla tipizzazione convenzionale stessa; cosa che evidentemente, nel solco del pacifico orientamento della Cassazione sulla “supremazia” giudiziale nell’interpretazione della nozione legale e [continua ..]
La rinnovata centralità del principio di proporzionalità convenzionale quale viatico per un allargamento degli spazi di operatività della reintegrazione, soprattutto dopo il cambio di rotta della giurisprudenza di legittimità di cui si è detto, insieme all’affermarsi dell’interpretazione giudiziale secondo cui anche il fatto materiale debba avere una minima rilevanza giuridica deducibile dai codici disciplinari, ha – com’era prevedibile – riaperto il dibattito sulla irrazionalità/irragionevolezza della differenziazione tra la disciplina prevista per i “vecchi” assunti (e quindi dell’art. 18, comma 4, dello Statuto che, come si è visto, ha aperto ampi spazi all’applicazione della tutela reintegratoria in caso di violazione del principio di proporzionalità, anche se di matrice “latamente” convenzionale) e i “nuovi” assunti (per il quali l’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 prevede la reintegrazione esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore). Riaperto, di fatto, il vaso di pandora della proporzionalità (convenzionale nella versione ampia e “elastica” dell’orientamento giurisprudenziale prima citato) come viatico per applicare la tutela reintegratoria (in maniera ben più ampia di quanto possa fare la diversa ipotesi della insussistenza del fatto contestato), era ovvio che la finitezza temporale dell’applicazione dell’art. 18, comma 4, dello Statuto rendesse necessario procedere all’abbattimento di un’altra parte “indigeribile” del Jobs Act, vale a dire la mancata riproposizione della violazione della tipizzazione convenzionale come vizio che apre le porte alla reintegra. In questa prospettiva, parte della dottrina ha così iniziato a evidenziare come l’art. 18, comma 4, dello Statuto, dal punto di vista contenutistico, sia del tutto paragonabile all’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015: con l’effetto di avere nel sistema normativo del licenziamento «due norme dal tenore assai simile che – seppure discutibilmente – all’identico fine di delineare i presupposti minimali per dar vita ad un atto di licenziamento giuridicamente rilevante e, in [continua ..]
È evidente che una vera e propria opera di razionalizzazione del sistema dei licenziamenti disciplinari, sia nel regime dell’art. 18, sia in quello del Jobs Act, anche tramite una precisa e specifica valorizzazione della tipizzazione convenzionale funzionale ad assicurare una applicazione rispettosa del principio di certezza del diritto e di prevedibilità delle condotte, sia ancora ben lontana dall’essere realizzata. Da questo punto di vista, non pare che la sentenza n. 129/2024, da sola, sia in grado né di tassellare con paletti rigidi l’efficacia espansiva del principio di proporzionalità al quale, in entrambe le fasi del giudizio bifasico, la giurisprudenza non sembra per nulla disposta a rinunciare; né – forse, attesa la sua natura di sentenza interpretativa di rigetto – di assicurare nel regime del Jobs Act la tutela reintegratoria alle ipotesi di palese violazione delle ipotesi di tipizzazione convenzionale; con ciò confermando come nel bilanciamento delle ragioni che sorreggono la scelta (nelle strettoie lasciate dalla legge) tra tutela indennitaria e tutela reintegratoria, il primato dell’interpretazione giudiziale continuerà, forse per lungo tempo, a far oscillare in maniera ondivaga il pendolo dei valori e delle relative tutele, contribuendo a sedimentare – in una gerarchia assiologica che sembra sempre più mobile [68] – un quadro di differenziazioni temporali, dimensionali e territoriali, evocative di un vero e proprio diritto liquido, poco o nulla funzionale alle esigenze di certezza dei fini e dei confini dell’operazione di bilanciamento medesima in una prospettiva costituzionalmente orientata. Alla luce di quanto rilevato, appare auspicabile, se non indispensabile, un intervento legislativo sul punto che tracci, una volta per tutte, i confini dell’interpretazione giudiziale sulla tipizzazione convenzionale, come strada che apre le porte alla reintegrazione. Pur con le contraddizioni di cui si è detto, tra le pieghe della sentenza n. 129 analizzata, sarebbe in ogni caso probabilmente opportuno che la giurisprudenza – piuttosto che cavalcare il terreno scivolo della “costituzionalizzazione selettiva” della tipizzazione convenzionale – valorizzasse con fermezza l’altro corno del ragionamento lasciato pure aperto della Corte costituzionale (al punto 9.2): vale a dire [continua ..]