Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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La disciplina rimediale dei licenziamenti illegittimi: una risistemazione sempre più problematica (di Carlo Cester, Professore Emerito, Università di Padova)


Il saggio ripercorre in modo sintetico le recenti riforme in materia di conseguenze sanzionatorie contro il licenziamento illegittimo, soffermandosi sull’interpretazione data dalla giurisprudenza ordinaria e soprattutto sui numerosi interventi della Corte costituzionale, che, nel complesso, hanno circoscritto e talora modificato non pochi aspetti qualificanti di quelle riforme, con una significativa riespansione della reintegrazione nel posto di lavoro. Particolare attenzione viene poi riservata alle due ultime sentenze della Corte costituzionale n. 128 e 129 del 2024 e ai rapporti fra queste e alcuni recenti orientamenti della Corte di Cassazione.

The remedial law of wrongful dismissals: an increasingly problematic rearrangement

The essay briefly goes over the recent reforms on the subject of sanctions against unlawful dismissal, focusing on the interpretation given by ordinary case law and above all on the numerous interventions of the Constitutional Court, which, on the whole, have circumscribed and at times modified quite a few qualifying aspects of those reforms, with a significant re-expansion of reinstatement in the workplace. Particular attention is then paid to the two most recent Constitutional Court rulings nos. 128 and 129 of 2024 and to the relations between these and some recent orientations of the Supreme Court.

SOMMARIO:

1. La reintegrazione nel posto di lavoro tra princìpi e prassi - 2. Il sistema rimediale contro il licenziamento illegittimo nella stagione delle riforme: l’illegittimità si pesa - 3. L’impatto della giurisprudenza sulle recenti riforme - 4. Il ruolo della Corte costituzionale: luci e ombre - 5. Il cerchio non si chiude: la sentenza della Corte costituzionale n. 128/2024 - 6. La sentenza della Corte costituzionale n. 129/2024 - 7. Ed ora, quale sistema? - NOTE


1. La reintegrazione nel posto di lavoro tra princìpi e prassi

Forse mai come in questo periodo il tema del regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo appare lontano da un affidabile assestamento sistematico. Anche a non voler considerare, quale ulteriore fattore di incertezza, l’iniziativa referendaria diretta all’abrogazione della disciplina del contratto a tutele crescenti di cui al d.lgs. n. 23/2015 (iniziativa ancora in una fase preliminare), l’impatto della riscrittura dell’art. 18 St. lav. (ad opera della legge n. 92/2012) e della nuova disciplina del c.d. Jobs Act non sembra ancora assorbito e tanto meno razionalizzato. Al punto che un tale obiettivo, con riguardo all’art. 18 St. lav., sembra poter essere pienamente garantito solo dalla autoconsunzione di detta norma, in ragione del progressivo ridursi della platea dei destinatari costituita dai lavoratori con rapporto di lavoro costituito prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 23/2015, platea oggi oscillante, pare, fra il 20% e il 30% della forza di lavoro occupata; ma, a ben guardare, forse neppure da quella, stanti le interferenze interpretative della vecchia normativa sulla nuova, interferenze alle quali anche le recentissime pronunzie della Corte costituzionale n. 128 e n. 129/2024 (ancora fresche di stampa e sulle quali molto ci sarà da discutere) hanno dato corda. Non che la precedente stagione normativa dei rimedi contro il licenziamento illegittimo potesse considerarsi del tutto tranquilla. Ed infatti, il rimedio generalizzato della tutela reale reintegratoria, già ridimensionato con l’intro­duzione dell’indennità sostitutiva a scelta del lavoratore (che pure non ha pregiudicato la funzione della prima di precondizione per l’effettivo godimento degli altri diritti) aveva mostrato non indifferenti criticità. Ciò anche a prescindere dal doppio regime di tutela, rispettivamente per le organizzazioni medio-grandi e per le piccole unità produttive, doppio regime per lungo tempo tollerato e giustificato, ma ora sotto tiro della Corte costituzionale (sentenza n. 183/2022). Alcune di quelle criticità erano “interne”, cioè da ricondurre allo stesso impianto dell’art. 18 St. lav., che metteva sullo stesso piano, agli effetti sanzionatori, un banale vizio di forma e una pesante discriminazione. Altre erano “esterne”, perché determinavano forti differenze sul piano applicativo in base a fattori non [continua ..]


2. Il sistema rimediale contro il licenziamento illegittimo nella stagione delle riforme: l’illegittimità si pesa

Una sostanziale uniformità regolativa ha lungamente caratterizzato la disciplina sanzionatoria del licenziamento illegittimo. A voler risalire nel tempo, lo stesso art. 2118 c.c. – che equiparava, sotto l’etichetta asettica del recesso, licenziamento e dimissioni – fissava il “costo” dell’unico licenziamento illegittimo allora possibile (cioè quello non rispettoso della regola del preavviso, anche per l’ipotesi di assenza di giusta causa) nell’indennità sostitutiva dello stesso. Con l’introduzione, poi, del principio della necessaria giustificazione del recesso l’uniformità regolativa non è venuta meno, sia pure – dalla legge n. 604/1966 all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori – per ambiti separati, cioè in relazione ai rispettivi campi di applicazione; ma all’interno di questi la tutela obbligatoria e, rispettivamente, quella reale hanno rappresentato la sanzione comune per i diversi tipi di licenziamento illegittimo. Nell’ambito della tutela reale, poi, quella uniformità ha coinvolto anche i licenziamenti qualificati come nulli, perché in violazione di divieti, ai sensi della legge n. 604/1966, ai quali si sono aggiunti – per via giurisprudenziale – gli altri casi di licenziamenti nulli già espressamente previsti nell’ordinamento. La riforma del 2012 ha rotto, come ben noto, l’uniformità regolativa e ha frammentato le conseguenze sanzionatorie del licenziamento illegittimo. È difficile dire se questo sia stato l’obiettivo diretto del legislatore; forse sarebbe meglio configurarlo come lo strumento di una scelta di politica legislativa che, già presente nella riscrittura dell’art. 18 St. lav., si è poi ulteriormente evidenziata nel Jobs Act, e segnatamente nella legge di delega n. 183/2014: di una politica legislativa, cioè, volta alla flessibilizzazione dei meccanismi di uscita dal rapporto per dichiarati scopi di aumento dell’occupazione, in uno scambio politico con una (peraltro moderata) riduzione delle libertà in entrata, quella, per intendersi, del ben noto “sventagliamento tipologico” nell’acquisizione della forza lavoro. Non spetta al giurista valutare se questi obiettivi siano stati effettivamente conseguiti, anche se le indicazioni e le valutazioni di carattere economico non sembrano essere [continua ..]


3. L’impatto della giurisprudenza sulle recenti riforme

Mentre il dibattito dottrinale sulle riforme del triennio 2012-2015 si è polarizzato in due visioni di politica del diritto notevolmente diverse fra loro, fra sostenitori delle novità e nostalgici del tempo passato [13], la giurisprudenza ha mostrato una buona dose di compattezza: in una linea, peraltro, di forte riluttanza [14], quando non di rifiuto (ancorché non sempre esplicitato) nei confronti delle riforme medesime, e di sostanziale continuità con la disciplina statutaria, e ciò sia nell’ambito della giurisprudenza di merito, sia poco dopo (vista la rapidità del rito sommario introdotto dalla legge n. 92/2012), di quella di legittimità, nella quale quelle linee interpretative si sono ormai radicate come diritto vivente. La principale novità, nel lavorìo interpretativo di una nuova disciplina, è poi, come ben noto, il ruolo assolto dalla Corte costituzionale che, giocando quasi di sponda rispetto alla giurisprudenza ordinaria – anche e forse soprattutto di legittimità – ha in sostanza completato il quadro là dove la seconda istituzionalmente non poteva arrivare, peraltro rischiando, soprattutto nelle ultime due pronunzie già citate, di interferire con la competenza e il ruolo del legislatore. Affermare che la disciplina dei licenziamenti – nel suo profilo rimediale – è ormai una disciplina marcatamente giurisprudenziale, non è certo eccessivo; né che in questa disciplina giurisprudenziale la tutela reintegratoria sembra essere ancora il rimedio principale nella disciplina rimediale, non solo dell’art. 18 St. lav., ma (dopo le sentenze nn. 128 e 129/2024 della Corte costituzionale, come oltre si vedrà) anche del d.lgs. n. 23/2015. La Corte di Cassazione, in altri tempi piuttosto restia ad adottare interpretazioni favorevoli alla parte lavoratrice, ha manifestato negli ultimi tempi una marcata propensione a sostenere le ragioni del lavoro, con particolare riferimento al tema dei licenziamenti. Non sempre in generale – tanto che è proprio di recente che è prevalso l’orientamento che esclude la necessità di una situazione di sofferenza economica perché sussista un giustificato motivo oggettivo [15] – ma giusto con riferimento alla disciplina rimediale e alla reintegrazione che ne è l’emblema; come se il rigore [continua ..]


4. Il ruolo della Corte costituzionale: luci e ombre

Passando ora a considerare il ruolo che nel dibattito ha ricoperto la Corte costituzionale, va detto che il numero e la varietà delle ordinanze di rimessione aventi ad oggetto molti dei punti cruciali delle riforme del triennio 2012-2015 ha messo la Corte nella condizione di elaborare – sia pure con interventi necessariamente mirati, com’è ovvio stante il carattere incidentale del giudizio sulle leggi – una propria “teoria” su quelle riforme, avente nel complesso il timbro – si è sostenuto – quasi di una controriforma, fondata su una lettura fortemente “valoriale” sia delle specifiche norme protettive, sia, soprattutto, del principio di eguaglianza nella sua delicata (e talora ambigua) declinazione data dalla ragionevolezza [20]. Le sentenze del periodo 2018-2024 hanno profondamente inciso sulle due riforme, in particolare su quelle che si potrebbero chiamare le condizioni, costituzionalmente vincolanti, per la sopravvivenza di disposizioni qualificanti, com’è evidenziato soprattutto dalla prima sentenza – la n. 194/2018 – a proposito del calcolo dell’indennità risarcitoria e della sua rigida predeterminazione in rapporto all’anzianità (art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015), ma come emerge anche dalle sentenze n. 59/2021 circa il vincolo (per il giudice) alla reintegra e n. 125/2022 sull’abolizione del carattere “manifesto” dell’insussistenza del fatto. E ciò, a ben guardare, in base ad una ricostruzione generale nella quale la “pressione” dei valori costituzionali aveva condizionato in modo analogo tanto le disposizioni del nuovo art. 18 St. lav., quanto quelle del d.lgs. n. 23/2015, pur senza mettere direttamente in discussione il più generale trend normativo, inequivocabilmente indirizzato verso una progressiva riduzione della tutela reale ed un ampliamento di quella indennitaria. Non tutte le pronunzie sono di accoglimento. Basti pensare al rigetto, sempre nella sentenza n. 194/2018, della questione di costituzionalità per disparità di trattamento della disciplina dell’indennità risarcitoria, rispettivamente, nel d.lgs. n. 23/2015 e nell’art. 18 St. lav. come novellato dalla legge n. 92/2012: questione considerata infondata in ragione del noto «fluire del tempo» che giustifica la previsione di trattamenti differenziati (lì [continua ..]


5. Il cerchio non si chiude: la sentenza della Corte costituzionale n. 128/2024

Nel corrente anno 2024, in una prima fase, l’orientamento della Corte costituzionale (alludo alla sentenza n. 7 e in parte anche alla n. 22) è sembrato farsi più duttile e articolato rispetto agli anni dal 2018 in poi. La prima sentenza ha pienamente rispettato la scelta del Jobs Act di precludere la reintegrazione per i licenziamenti collettivi (nei quali siano stati violati i criteri di scelta fra licenziandi), ricondotti, con quelli individuali per giustificato motivo oggettivo, ai licenziamenti (genericamente) “economici” di cui alla legge delega n. 183/2014. Il rigetto della questione di costituzionalità – per ipotesi ritenute assimilabili proprio in ragione della suddetta qualificazione: giustificato motivo oggettivo e, rispettivamente, riduzione del personale – lasciava intendere che l’esclusione della reintegrazione, con riguardo al licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo (a tutto campo), non violasse il principio di eguaglianza, né in generale il principio “lavoristico”. Non a caso la Corte, in quell’occasione, si era dilungata sull’adeguatezza della sanzione (a costo anche di sminuire il peso di quella particolare istituzione – ma non “fonte” – europea che è costituita dal Comitato europeo per i diritti sociali, a presidio della Carta sociale europea) e sulla sua sufficiente dissuasività, indubbiamente più facile da sostenere dopo l’elevazione della misura massima dell’indennità a 36 mensilità ad opera del d.l. n. 87/2018. Ulteriore spinta per il rigetto della questione poteva essere tratta dalla natura stessa di quella tipologia di licenziamento, inscindibilmente radicata sulle ragioni dell’impresa e dei suoi strumenti organizzativi, la cui insindacabilità nel merito è un punto difficilmente controvertibile. Se a ciò si aggiunge la (parziale) modifica della composizione della Corte, e in particolare del giudice relatore delle sentenze precedenti [32], non era azzardato ipotizzare un certo qual riposizionamento del giudice delle leggi in vista dei successivi pronunciamenti, che si sarebbero dovuti misurare su due ordinanze di rimessione particolarmente agguerrite nella difesa a tutto campo della pregressa tutela reale anche nell’ambito del d.lgs. n. 23/2015; ordinanze che avevano messo nel mirino, l’una, l’esclusione [continua ..]


6. La sentenza della Corte costituzionale n. 129/2024

Impatto non inferiore a quello della sentenza n. 128 credo produrrà la coeva sentenza n. 129/2024 sul giustificato motivo soggettivo, sempre nell’ambito del d.lgs. n. 23/2015 [47]. Essa, come già precisato, è una sentenza interpretativa di rigetto, come tale non vincolante erga omnes, ma non sarà facile per la giurisprudenza ordinaria non allinearvisi. Il quadro nel quale la sentenza si colloca è ben noto. Il d.lgs. n. 23/2015 ha ristretto l’ambito della tutela reintegratoria (rispetto al novellato art. 18 St. lav.), da un lato conservandola in caso di insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, con esclusione di ogni valutazione circa la proporzionalità del licenziamento (ciò che significa, con tutta evidenza, che insussistenza e sproporzione viaggiano su binari diversi, e che l’accertamento della seconda non conduce affatto ad affermare anche la prima); e, dall’altro lato, cancellandola del tutto con riguardo all’ipotesi di disallineamento fra la concreta decisione del datore di lavoro di licenziare e i parametri “sociali” della contrattazione collettiva, ove questi prevedano, per il comportamento inadempiente del lavoratore, una sanzione solo conservativa. La Corte non si è qui direttamente occupata – non le era stato chiesto di farlo – della prima parte della norma, che ha ricalcato l’art. 18 St. lav., comma 4, con però la caratterizzazione del fatto come «materiale» [48]. Ma lo aveva fatto nella sentenza precedente sul giustificato motivo oggettivo, nella quale, come appena visto, la dichiarazione di incostituzionalità si era basata sulla enfatizzazione del «fatto materiale insussistente» – per un recesso addirittura acausale che non può essere sanzionato se non con la reintegrazione – preso a prestito appunto dalla disciplina sul giustificato motivo soggettivo ed esteso creativamente a quella sul giustificato motivo oggettivo. Resta così presupposta una nozione ristretta di insussistenza del fatto, che, se ingloba necessariamente una minima rilevanza disciplinare (in virtù del riferimento alla contestazione) e la riferibilità oggettiva al lavoratore (rispetto al quale il fatto, se commesso da altro lavoratore, è appunto insussistente), lascia fuori ogni altro elemento e presupposto. Ed è in questo contesto che la [continua ..]


7. Ed ora, quale sistema?

Queste ultime due sentenze segnano forse – sia detto con tutte le cautele del caso e con i distinguo a suo tempo considerati – il suggello al “rifiuto” delle riforme spesso evocato in questo scritto. In particolare, al rifiuto che – ferma restando, e semmai venendo rafforzata, la tutela dei diritti fondamentali del lavoratore (si ripensi alla nullità) – è stato opposto alla progressiva riduzione, da parte del legislatore, dell’area della reintegrazione e alla speculare estensione della monetizzazione delle sanzioni per il licenziamento illegittimo. Il rapporto fra regola ed eccezione, rovesciato dalle riforme 2012-2015, è stato rimesso in discussione, se non in qualche modo ripristinato, e l’obiettivo di una riduzione di tutela progressiva nel tempo – nel morbido passaggio dall’art. 18 novellato al d.lgs. n. 23/2015 – è stato così ridimensionato [57]. Può essere che le fattispecie oggetto di quelle sentenze non siano tra le più rilevanti nel panorama applicativo: per la prima, reintegrazione nel caso (non poi così frequente) di fatto materiale radicalmente insussistente a fondamento del giustificato motivo oggettivo; per la seconda, reintegrazione nel caso (anch’esso forse non tanto frequente) di disallineamento rispetto a tipizzazioni assai chiare e precise della contrattazione collettiva. Ma dal punto di vista teorico le due sentenze riscrivono in base a coordinate diverse il rapporto fra tutela reale e tutela indennitaria, non più governato soltanto dal succedersi nel tempo delle fonti normative, posto che le due tutele coesistono (almeno ancora per un po’) nei rispettivi ambiti, con, semmai, una preferenza (sembrerebbe quasi nostalgica) della sanzione reintegratoria: sanzione che, destinata dal legislatore ad estinguersi con l’esaurimento dell’efficacia dell’art. 18 St. lav., può sperare ora in una (moderata) sopravvivenza nel d.lgs. n. 23/2015, in virtù di una sorta di trapianto nel contesto del Jobs Act e ad opera del giudice delle leggi, di interpretazioni dell’art. 18 St. lav. novellato, per quanto recessive rispetto a quelle alle quali la Corte di Cassazione era pervenuta con riguardo alla norma statutaria. Non sembra potersi più parlare, dunque, di due ambiti normativi diversificati fra loro essenzialmente in relazione al fattore tempo, con prevalenza della [continua ..]


NOTE