Variazioni su Temi di Diritto del LavoroISSN 2499-4650
G. Giappichelli Editore

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Shock inflazionistici e adeguamenti retributivi: le risposte più recenti della contrattazione collettiva (di Claudio de Martino, Assegnista di ricerca in Diritto del lavoro, Università degli Studi di Firenze)


Il saggio affronta il tema degli adeguamenti salariali in rapporto all’inflazione. In particolare, l'A. analizza anzitutto le cause dello shock inflazionistico che sta colpendo il nostro Paese, per poi verificare come le relazioni industriali abbiano costruito, negli anni, un sistema basato sull'indice IPCA depurato dai prezzi beni energetici, che oggi si rileva palesemente inadeguato. Infine, analizza alcuni dei contratti collettivi recentemente rinnovati per verificare come abbiano risposto all'impennata dei prezzi.

Inflationary shocks and adjustments salaries: the most recent answers of collective bargaining

The essay addresses the issue of wage adjustments in relation to inflation. The article first analyzes the causes of the inflationary shock that is affecting our country, to then verify how industrial relations have built, over the years, a system based on the IPCA index adjusted for energy prices, which today is clearly inadequate. Finally, it analyzes some of the recently renewed collective agreements to see how they responded to soaring prices.

SOMMARIO:

1. Premessa - 2. Lo shock inflazionistico del 2022: una breve disamina di cause ed effetti - 3. Inflazione e perdita del valore reale delle retribuzioni: dalla scala mobile al Protocollo Ciampi - 4. L’indice IPCA depurato dai prezzi dei beni energetici a partire dal­l’AQ del 2009 - 5. Le risposte della contrattazione collettiva più recente al picco inflazionistico - 6. Alcune considerazioni conclusive - NOTE


1. Premessa

Il 2022 sarà probabilmente ricordato come l’anno della guerra in Ucraina e dell’erosione dei salari a causa dell’incremento repentino dell’inflazione. Appare di estremo interesse, dunque, verificare, anche sotto il profilo economico, quali siano le cause dell’abnorme incremento dei prezzi registrato nell’ultimo anno, per poi, successivamente, analizzare le soluzioni suggerite dagli economisti e, più in particolare, quelle concretamente adottate dal nostro sistema di relazioni industriali per combattere la perdita di valore reale dei salari. Dopo un breve excursus storico sui meccanismi di adeguamento delle retribuzioni alle dinamiche dei prezzi adottati dal legislatore e dall’ordinamento intersindacale, ci si soffermerà su alcuni dei CCNL oggetto di rinnovo negli ultimi mesi, per poi trarre alcune considerazioni conclusive sull’adeguatezza, ma anche sulla legittimità, delle attuali regole sulla contrattazione a fronte di improvvisi aumenti del costo della vita, quali quelli che ora stanno colpendo l’Italia.


2. Lo shock inflazionistico del 2022: una breve disamina di cause ed effetti

Dai dati rilasciati dall’ISTAT emerge che a dicembre 2020, nel pieno della crisi pandemica, il nostro Paese conosceva addirittura una condizione di deflazione (– 0,2%), che seguiva a un lungo periodo di stagnazione durato sei anni. Appena un paio d’anni dopo, a novembre 2022, l’inflazione in Italia ha raggiunto l’11,8% su base annua [1]: una cifra mai registrata nel nostro Paese dal lontano 1984. Nei mesi successivi, pur registrando un lieve calo, il tasso risulta essere in ogni caso elevato e le ultime rilevazioni relative ad aprile 2023 hanno stimato un tasso di inflazione dell’8,2% sempre su base annua [2]. Più in dettaglio, esaminando i beni rientranti nel paniere ISTAT, si può notare che il prezzo dei beni energetici [3] non regolamentati sia cresciuto del 69,9% su base annua e quello dei beni energetici regolamentati del 56,1% [4]. Di converso, l’inflazione al netto dei beni energetici si assesta appena (si fa per dire) al 6,1%. Gli economisti insegnano che non esiste un solo tipo di inflazione e, anzi, che all’incremento dei prezzi possono concorrere fattori diversi. In particolare, si tende a distinguere tra inflazione da domanda e inflazione da costi. La prima è riconducibile ad uno shock positivo sulla domanda aggregata, tendenzialmente causata da un aumento dell’offerta di moneta, in quanto l’innalzamento dei prezzi dipende dal fatto che i cittadini hanno una capacità di spesa in eccesso rispetto alla capacità del Paese di produrre beni e servizi. L’inflazione da costi, invece, è quella che consegue ad uno shock negativo sull’offerta aggregata di beni e servizi, ad esempio a causa di un aumento dei salari nominali o del prezzo delle materie prime [5]. Orbene, la lettura dei dati relativi ai prezzi dei beni energetici induce a concludere agevolmente che siamo sicuramente di fronte a un’inflazione “da costi”, ossia a un aumento generalizzato dei prezzi della produzione (che si riversa sui prezzi di vendita dei prodotti), determinato essenzialmente da condizioni geopolitiche esogene al nostro Paese, individuabili nel conflitto ucraino e nelle sue ripercussioni sui mercati globali dell’energia. È stato ipotizzato che a determinare il fenomeno a cui stiamo assistendo abbia contribuito anche la politica monetaria espansionistica adottata dalla BCE negli ultimi anni (e che non a [continua ..]


3. Inflazione e perdita del valore reale delle retribuzioni: dalla scala mobile al Protocollo Ciampi

Se quelle sinora brevemente descritte appaiono essere le cause dell’in­fla­zione dei nostri giorni, sembra evidente che la migliore strategia di contrasto non possa che risiedere nella stabilizzazione del contesto geopolitico generale, in quanto finché gli speculatori rimarranno convinti delle propensioni “belliciste” dei governi, essi continueranno a credere nella tendenza al rialzo dei prezzi delle materie prime e, quindi, ad alimentarne la crescita. Al contrario, l’incremento del costo del denaro da parte delle banche centrali, per sortire effetti significativi, dovrebbe essere «talmente energica da convincere gli speculatori della sua intenzione di frenare la crescita dei prezzi delle materie prime anche a costo di desertificare il paesaggio industriale» [10]: una prospettiva assolutamente inquietante per il sistema produttivo italiano e per i lavoratori. D’altro canto, la risposta al tema del ripristino del valore reale delle retribuzioni, che potrebbe essere individuata nell’adeguamento meccanico al costo della vita, rischia di ingenerare una spirale inflazionistica ancor più preoccupante, visto che l’incremento dei costi di produzione, determinato dall’aumen­to dei salari nominali, potrebbe portare ad ulteriori incrementi dei prezzi. Ecco allora che il sindacato, ancora una volta, viene chiamato a confrontarsi con il classico dilemma in tempi di inflazione: rivendicare aumenti salariali per recuperare quanto perduto per l’aumento dei prezzi, ovvero adottare comportamenti “responsabili”, più compatibili con il quadro economico generale. Secondo gli studi di Modigliani – che hanno fortemente influenzato le scelte politiche degli ultimi trent’anni – le dinamiche inflazionistiche dipendono per gran parte dalle aspettative sull’inflazione futura, in quanto le aspettative su un rialzo dei prezzi inducono i sindacati a rivendicare salari nominali più elevati, generando «un circolo vizioso instabile nel quale la paura giustifica la paura» [11]. A questo proposito, Tarantelli – che con Modigliani è stato tra i più strenui sostenitori della tesi della moderazione salariale – ebbe a sostenere che «in un sistema di relazioni industriali centralizzato (…) il sindacato sa bene che l’aumento del salario medio non modifica la distribuzione tra salari e [continua ..]


4. L’indice IPCA depurato dai prezzi dei beni energetici a partire dal­l’AQ del 2009

Il superamento del parametro dell’inflazione programmata si deve all’Ac­cordo Quadro “separato” del 22 gennaio 2009 sulla riforma degli assetti contrattuali [23]. L’obiettivo principale dell’Accordo del 2009 fu la riduzione dei costi di transazione, attraverso l’allungamento della durata della parte economica dei contratti collettivi (in precedenza pari a 2 anni) e l’ancoraggio della dinamica salariale ad un indicatore fornito da una istituzione terza. Infatti, con l’Accordo in parola le parti sociali (con l’eccezione della CGIL che decise di non aderire) individuarono, in sostituzione del tasso di inflazione programmata, un nuovo indice previsionale, costituito sulla base dell’IPCA (l’indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo per l’Italia [24]), depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (d’ora in poi: “IPCA depurato”). Le parti convennero, inoltre, che l’elaborazione della previsione fosse affidata ad un soggetto terzo (fino al 2010 l’ISAE e, a partire dal 2011, a causa della sua soppressione, l’ISTAT), e che in sede paritetica interconfederale si sarebbe proceduto ad una verifica circa la significatività dell’e­ventuale scostamento tra inflazione prevista e quella reale (sempre al netto dei prodotti energetici importati). Dunque – come la dottrina acutamente osservò [25] – l’eventuale scostamento tra inflazione reale e programmata non fu ritenuta rilevante di per sé, ma solo nella misura in cui la sua significatività sarebbe stata accertata in sede interconfederale. L’Accordo Quadro del 22 gennaio 2009, sebbene avesse durata quadriennale, e nonostante la mancata adesione della CGIL, ha influenzato le trattative di tutti i CCNL, continuando a essere applicato di fatto, anche se la sua efficacia è stata subito “indebolita” [26] dalle Linee programmatiche per la crescita della produttività e della competitività in Italia, sottoscritte il 21 novembre 2012 [27]. Infatti, nelle predette Linee l’indice IPCA, depurato dalla dinamica dei prezzi dei beni energetici importati, non era più il parametro a cui ancorare le dinamiche salariali, ma concorreva con valutazioni inerenti il più generale andamento economico, la crescita del PIL, i dati occupazionali, di [continua ..]


5. Le risposte della contrattazione collettiva più recente al picco inflazionistico

Come anticipato, i tragici eventi dell’ultimo anno hanno stravolto ogni valutazione sinora ritenuta pacifica: la moderazione salariale non è bastata a trattenere in basso i livelli dell’inflazione, che è tornata a diventare un problema italiano dopo trent’anni, e il repentino incremento dei prezzi dei beni energetici ha disvelato l’inadeguatezza dell’indice IPCA depurato a misurare l’effet­tiva erosione dei salari reali. Di tanto si è avveduto prontamente lo stesso Istituto di statistica che, nel giugno 2022 [39], ha rilevato come l’eccezionale aumento dei prezzi dei beni energetici importati, avviatosi a partire da aprile 2021, abbia determinato l’in­capacità dell’indice IPCA depurato di cogliere i cambiamenti strutturali nella serie dei prezzi ed ha auspicato un confronto con le parti sociali per una revisione concordata della metodologia di calcolo. Non sfugge, infatti, che l’incremento dei prezzi dei beni energetici importati è stato tale che non considerarlo ai fini degli adeguamenti retributivi finisce per determinare un evidente depauperamento delle retribuzioni reali. Non appare un caso, allora, che anche i rinnovi contrattuali del 2021 si siano generalmente caratterizzati per adeguamenti salariali superiori all’indice IPCA depurato previsto dall’ISTAT [40]. La scelta può sicuramente giudicarsi opportuna, se solo si valutano i mutamenti delle previsioni dell’indice IPCA depurato negli ultimi due anni: mentre nel 2021 si prevedeva che l’indice sarebbe giunto all’1% nel 2022 ed all’1,2% nel 2023 e nel 2024, appena un anno dopo si è registrato un IPCA depurato al 4,7% se ne è prevista una riduzione al 2,6% nel 2023, all’1,7% nel 2024 e all’1,7% nel 2025. In altri termini, la prassi del rinnovo dei contratti al di sopra delle previsioni ha consentito, nel 2021, alle categorie interessate di recuperare, almeno parzialmente, l’incremento del costo della vita generato dalla bolla inflazionistica derivante dal conflitto ucraino. Ciò è stato realizzato sia attraverso meccanismi di graduale aggiornamento dei minimi retributivi, come nel CCNL Lavanderie industriali [41] e nel CCNL Multiservizi [42], sia mediante l’introduzione di specifiche quote una tantum a copertura dei lunghi periodi di carenza contrattuale, come nel rinnovo del CCNL [continua ..]


6. Alcune considerazioni conclusive

La circostanza che solo pochi contratti collettivi abbiano effettivamente seguito le indicazioni dell’Accordo Interconfederale del 2009 e del Patto per la Fabbrica in ordine all’utilizzo dell’indice IPCA depurato depotenzia certamente gli effetti pratici del problema posto dalla sua evidente inadeguatezza a fronte dell’improvvisa impennata del prezzo dei beni energetici. Purtuttavia, proprio l’omessa applicazione di questa parte dell’Accordo induce a riflettere in ordine alla obsolescenza dello strumento [52], che ha contribuito alle politiche di moderazione salariale, adottate nel nostro Paese negli ultimi decenni, le quali, tra l’altro, secondo alcuni studiosi [53], integrano una delle cause dell’aumento del nostro debito pubblico. Inoltre, l’assenza di un meccanismo di indicizzazione automatico delle retribuzioni e l’incoercibilità dei rinnovi della parte economica dei contratti (tale per cui, in caso di mancato rinnovo, si prevede solo la corresponsione dell’in­dennità di vacanza contrattuale ma non l’adeguamento al costo della vita) determinano un’evidente perdita di potere d’acquisto dei salari in tutte quelle categorie per le quali non si è proceduto per tempo al rinnovo del contratto collettivo scaduto. Da questo punto di vista, il galoppare dell’inflazione pone non solo questioni di carattere macroeconomico, ma anche di stampo strettamente giuridico, in relazione alla conformità di quelle retribuzioni, fissate in contratti collettivi non rinnovati, in rapporto al parametro costituzionale della sufficienza di cui all’art. 36 Cost. Riemergono così le questioni poste, nell’ambito del dibattito sull’abolizio­ne della scala mobile, da chi [54], già nel lontano 1982, ebbe ad evidenziare come la diminuzione di valore della moneta modifichi l’equilibrio dello scambio tra prestazione e controprestazione retributiva, al punto da determinare una possibile violazione dell’art. 36, comma 1, Cost. Ed infatti, seguendo peraltro un orientamento giurisprudenziale ben noto che ha dichiarato la nullità della clausola retributiva anche di contratti stipulati dalle confederazioni maggiormente rappresentative [55], ci si può chiedere se sia rispondente a criteri di sufficienza la clausola retributiva del CCNL non adeguata al costo della vita, in presenza di [continua ..]


NOTE