Il presente lavoro analizza l’eventuale coesistenza – in capo alla stessa persona – tra la preposizione organica di diritto privato ad amministratore di società di capitali e il rapporto di lavoro subordinato sul versante ‘estintivo’. Dopo una prima parte storico-dogmatica il saggio si sofferma sui presupposti e sulle tecniche di tutela in caso di revoca dell’incarico e di licenziamento dell’amministratore-lavoratore, con particolare riguardo al caso dell’amministratore-dirigente, nonché sulle interferenze tra giusta causa di revoca dell’incarico e giustificatezza del licenziamento dirigenziale.
The current work analyses the coexistence, within the same person, of the roles of employee and director of a corporation in the field of withdrawal. After an historical and legal introduction, the essay focuses on preconditions and remedies in case of revocation of the assignment and dismissal of the director-employee, especially having regard to the director-manager, and on the connections among unfair revocation of the assignment and unfair dismissal of the manager.
1. Capitalisti monetari e dirigenti: ovvero la diversificazione tra proprietà e gestione societaria - 2. L’amministratore di società quale organo di diritto privato - 3. Eventuale coesistenza tra preposizione organica e rapporto di lavoro - 4. Amministratore unico e subordinazione: risoluzione di diritto per impossibilità sopravvenuta vs. nullità - 5. Licenziamento e revoca dell’incarico: un confronto - 6. Licenziamento e revoca dell’amministratore-dirigente: le interferenze funzionali - 7. Le altre interazioni estintive: rinuncia all’incarico, risoluzione consensuale, dimissioni - 8. Conclusioni - NOTE
Sul finire dell’Ottocento le società di capitali assunsero buona parte delle caratteristiche odierne: nonostante sin dagli albori (si pensi alla Compagnia delle Indie orientali) raccogliessero tra il pubblico gli ingenti capitali mobiliari per realizzare le più svariate attività produttive e commerciali, fu allora che si assistette a una pressoché totale frammentazione della relativa struttura proprietaria [1]. Le più grandi intraprese nazionali e sovranazionali iniziarono ad essere possibili con la raccolta di capitali tra la moltitudine dei piccoli e medi risparmiatori, attraverso lo strumento cartolare dell’azione. L’impresa iniziò a dissociarsi vieppiù dall’imprenditore per assumere autonoma soggettività giuridica: la moltiplicazione dei proprietari originò una rilevante scissione tra proprietà sui mezzi di produzione industriale e commerciale, e il controllo su di essi e, in ultima analisi, una crescente irrilevanza proprio della proprietà dei mezzi di produzione come fonte del potere economico [2]. In termini più strettamente giuridici si assistette a una diversificazione tra facoltà di godimento del bene mobiliare e potere di disposizione [3]. In tale contesto nacque la nuova classe sociale degli amministratori quale corpo burocratico preposto alla gestione a tutto tondo dell’impresa, giuridica, tecnica, ed economico-finanziaria: le prerogative gestorie non erano più nelle mani dell’imprenditore persona fisica, ma di un ufficio [4] che concentrava in sé poteri di cui – nella concezione classica del diritto di proprietà – sarebbero stati titolari gli azionisti, e i cui interessi non necessariamente coincidevano con quelli dei soci [5]. Da un lato vi furono quindi i capitalisti monetari, fossero essi grandi capitani di industria o semplici risparmiatori, e dall’altro i capitalisti dirigenti, per usare una terminologia elaborata secondo varie declinazioni ideologiche dalla letteratura socio-economica [6]: il beneficio della responsabilità limitata e la libera trasferibilità del titolo azionario, da cui in qualunque momento si può ricavare una contropartita monetaria, contribuirono all’assenza degli azionisti dalla vita della società, e favorirono conseguentemente la concentrazione del potere economico nelle mani [continua ..]
Fatta tale premessa di ordine storico, non vi è dubbio che l’attività del manager, nella nozione anglosassone anche di vertice societario e non di semplice dirigente di azienda ex art. 2095 c.c. [11], configuri un facere. Si tratta di comprendere se tale prestazione sia a vario titolo sussumibile nelle tipologie contrattuali lavoristiche, ovvero nel diritto ‘comune’ dei contratti, o se abbia la propria fonte nella legge e sia altro da sé rispetto ad un rapporto negoziale a prestazioni corrispettive. In dottrina e giurisprudenza, sin dall’entrata in vigore del Codice civile si è assistito a una bipartizione di massima tra fautori delle teorie contrattualistiche e organicistiche. Nella prima macrocategoria si annoverano quanti riconducono l’attività dell’amministratore al contratto di mandato [12], al lavoro subordinato [13], alle collaborazioni coordinate e continuative [14] e, infine, a un contratto tipo a sé stante con oggetto la prestazione di lavoro in senso ampio, la cui disciplina si rinviene in una molteplicità di sedi [15]. Al contrario, ad avviso della seconda corrente di pensiero si è in presenza di una preposizione organica di diritto privato [16], che ha la propria fonte direttamente nella legge a prescindere da un rapporto negoziale o da un semplice contatto sociale. La giurisprudenza si è da sempre divisa tra organicismo e contrattualismo [17], facendo registrare un duplice intervento delle sezioni unite, dapprima nel 1994 e poi nel 2017: negli anni ’90 il rapporto degli amministratori venne ricondotto nello schema negoziale delle collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409, comma 3, c.p.c. [18] La Cassazione operò una summa divisio tra attività rivolta ai terzi estranei alla compagine sociale e rapporti endosocietari: se nei confronti dei terzi l’amministratore agisce quale organo di diritto privato, all’interno dell’attività economica organizzata vanta una pretesa creditoria verso l’assemblea in ragione di un’attività continua, coordinata e prevalentemente personale. Peraltro, all’insegna di un’argomentazione formalistica, ad avviso della Corte l’eventuale assenza di una debolezza contrattuale dell’amministratore era irrilevante ai fini dell’applicabilità dell’art. 409, comma [continua ..]
L’interpretazione proposta non preclude, come ribadito a più riprese dalla giurisprudenza [33], che alla preposizione organica di diritto privato si accompagni lo svolgimento di attività lavorativa in capo al medesimo soggetto. Del resto, tale opzione caratterizza da sempre il funzionamento delle società di capitali: col duplice obiettivo di motivare l’alta dirigenza (partecipazione ad utili, prestigio sociale…) e di costruire un modello di governance in cui le decisioni strategiche si accompagnano a competenze tecnico-specialistiche, spesso il dirigente apicale è chiamato a svolgere contestualmente le funzioni di componente dell’organo amministrativo [34]. Non vi è dunque un Giano Bifronte con due volti opposti, ma una semplice coesistenza tra due distinti rapporti obbligatori ex art. 1173 c.c., l’uno con fonte nel contratto di lavoro subordinato quale direttore generale, l’altro nella normativa commercialistica sull’amministrazione della società. Il modello del ‘cumulo’ non è una soluzione aprioristica, ma presuppone una rigorosa verifica in concreto della compatibilità tra la funzione organico-amministrativa e la subordinazione, rispettivamente riconducibili alla legge filtrata dal contratto sociale e al contratto di lavoro. Non è infatti peregrino che le società simulino un contratto di lavoro subordinato con l’amministratore per consentirgli di godere dei vantaggi previdenziali propri della gestione pensionistica dei lavoratori subordinati [35]. La regola aurea che guida la giurisprudenza è ancora una volta il principio di non contraddizione dell’ordinamento, per scongiurare fatti giuridici antinomici: se si è optato per il modello di amministrazione collegiale, è proprio il corretto funzionamento del principio di collegialità a impedire al dirigente-amministratore di rivestire il ruolo dell’imprenditore individuale [36].
Ipotesi paradigmatica di incompatibilità assoluta, senza soluzione di continuità nella giurisprudenza pre e post-costituzionale [37], è quella in cui il medesimo soggetto sia amministratore unico e lavoratore subordinato. Anche quando l’amministratore unico sia contrattualmente inquadrato come direttore generale, e quindi come alter ego dell’imprenditore ma pur sempre lavoratore dipendente, risulta in concreto inesistente quella alterità di interessi rispetto all’organizzazione sociale [38]. L’incompatibilità è, per così dire, ‘ontologica’: posto che in virtù dell’opzione ermeneutica prescelta l’amministratore si identifica con la persona giuridica società, in quanto tale datrice di lavoro e creditrice della prestazione, non può essere sincronicamente il soggetto titolare dell’obbligazione lavorativa all’interno di un negozio a prestazioni corrispettive [39]. Verrebbe cioè meno quel «binomio» caratterizzante lo statuto giuridico della subordinazione sin dalle prime teorizzazioni poi positivizzate nel codice civile: la persona del datore del lavoro e del suo dipendente [40]. Due sono le ipotesi che possono presentarsi, a seconda che la stipula del contratto di lavoro subordinato sia successiva o meno alla preposizione organica ad amministratore unico. Nel primo caso, si è in presenza di un contratto nullo per impossibilità dell’oggetto ex art. 1346 c.c. [41]: le mansioni dirigenziali non possono in alcun modo essere eseguite in ragione dell’inesistenza di alterità di interessi, in quanto incompatibili con le funzioni di amministratore. Si pensi all’esempio paradossale per cui un soggetto, nella qualità di amministratore unico, a seguito della decisione strategica di delocalizzare la produzione ordini a sé stesso di procedere alla chiusura degli stabilimenti interessati, e di realizzare tutti i successivi adempimenti di legge. Nel caso in esame l’oggetto del contratto non è materialmente possibile in quanto non è neppure astrattamente suscettibile di attuazione [42]. Dal punto di vista rimediale, alla sanzione della nullità non si accompagnano le tutele di cui all’art. 2126 c.c.: la relativa applicabilità presuppone pur sempre il compimento di una prestazione, che qui non ha avuto [continua ..]
In tutte le ipotesi di legittima coesistenza tra preposizione organica ad amministratore e rapporto di lavoro subordinato, è pacifico come entrambe le situazioni giuridiche soggettive possano cessare per volontà della persona giuridica: quest’ultima può esercitare il potere di recesso attraverso la revoca dell’incarico o il licenziamento del dipendente. Ciò che preme verificare è se e in che misura una delle due vicende estintive possa avere un’influenza sull’altra, arrivando a legittimare o il licenziamento o la revoca dell’incarico stessi. Sul versante gestorio, ai sensi dell’art. 2383, comma 3, c.c. l’assemblea sociale può sempre revocare ante tempus l’incarico conferito all’amministratore, dando atto a verbale delle ragioni sottostanti alla luce di un consolidato indirizzo ermeneutico [51]. L’amministratore non potrà mai rivendicare in giudizio la reintegra, ma un semplice diritto al risarcimento del danno e soltanto se la revoca non sia sorretta da una giusta causa [52]. Da un punto di vista funzionale, all’interno di un sistema strutturalmente rigido in cui i soci sono estranei alla funzione amministrativa, la revoca è l’unico rimedio di cui dispone l’organo assembleare per controllare il merito della gestione [53]. In un’ottica costituzionalmente orientata, invece, la generale revocabilità è espressione del principio della libera iniziativa economica di cui all’art. 41 della carta fondamentale, nell’accezione di libertà «del conseguimento degli obiettivi e degli interessi societari» [54]. Libertà che non è tuttavia assoluta, all’interno di un ordinamento pluralista che contempera differenti situazioni giuridiche soggettive meritevoli di tutela attraverso la discrezionalità legislativa [55]: i principi di utilità sociale e di tutela della dignità della persona avvinta dall’immedesimazione organica impongono di tener conto del sacrificio economico dell’amministratore revocato, soprattutto se la delega «comporti un’attività remunerata suscettibile di valutazioni professionali nel mercato dei “manager”» [56]. L’analisi costituzionalmente orientata spiega perché l’obbligazione gestoria sorta ai sensi dell’art. 1173 c.c. [continua ..]
A fronte di ipotesi legittime di cumulo tra funzioni gestorie e dirigenziali, e premessa la comparazione tra revoca dell’incarico e licenziamento in termini di presupposti e rimedi, è possibile che la società ponga fine alle obbligazioni tanto di fonte legale che contrattuale. In particolare, se uno stesso soggetto può rappresentare il trait d’union tra governo della società quale amministratore ed esecutore apicale delle relative decisioni quale dirigente, le ragioni che presiedono al licenziamento potrebbero essere invocate per la revoca dell’incarico, e viceversa [88]. Questo non significa legittimare un automatismo tra le due vicende estintive, in quanto va pur sempre verificato in concreto se la medesima condotta integri entrambe le fattispecie. Così, per ritornare alla casistica precedente, una riorganizzazione di un gruppo di società, da cui scaturisca la revoca degli amministratori perché sprovvisti delle competenze dettate dal nuovo assetto normativo, potrebbe implicare il licenziamento del dirigente, che di quelle competenze è sprovvisto: queste ultime sarebbero necessarie sia all’organo amministrativo per determinare l’‘indirizzo politico’ della società, sia al dirigente per darvi esecuzione. O ancora, si pensi al consigliere di amministrazione di una società di big data o di progettazione e montaggio di impianti termoidraulici che sia al contempo a capo dell’ufficio ricerca e sviluppo: se la revoca è dettata dall’aver contribuito ad avallare in seno al CdA politiche di gestione del personale conflittuali, che hanno ingenerato un notevole contenzioso, ciò non potrà mai giustificare il licenziamento del dirigente, poiché questi è preposto ad un ufficio che poco o nulla ha a che vedere con la gestione delle risorse umane. Sul punto, i repertori di giurisprudenza sono abbastanza parchi: così, lascia perplessi la decisione del giudice civile che aveva ritenuto come la semplice impugnazione del licenziamento del direttore generale costituisse fatto di per sé ostativo alla prosecuzione del rapporto di amministrazione. La statuizione di merito si fondava cioè sul generico venir meno della fiducia nell’amministratore a seguito del licenziamento, senza la minima verifica circa l’attendibilità delle motivazioni della società e della [continua ..]
Le interazioni tra fenomeni estintivi non sono circoscritte al binomio licenziamento-revoca dell’incarico: sono inoltre riconducibili, sul versante del diritto commerciale, alla rinuncia dell’amministratore all’incarico; mentre, in ambito lavoristico, alla risoluzione consensuale o alle dimissioni. Per quanto concerne la rinuncia all’incarico, il codice civile si limita ad affermare che l’amministratore «deve darne comunicazione scritta al consiglio di amministrazione e al presidente del collegio sindacale» (art. 2385 c.c.): pertanto, l’amministratore è libero di terminare il proprio officium quando lo ritiene più opportuno, anche in difetto di giusta causa [104]. Orbene, premessa l’assenza o quasi di giurisprudenza in materia [105], la rinuncia all’incarico potrebbe determinare un licenziamento giustificato, sempre che vi sia un collegamento funzionale tra le due vicende che leda il vincolo fiduciario nei confronti del dirigente: si pensi a una rinuncia dettata da contrasti insanabili in seno al CdA, che hanno portato alla paralisi societaria in materia di distribuzione degli utili o di gestione del personale, cui è conseguito un comportamento non cooperativo del direttore generale. L’approccio, si ribadisce, non può che essere casistico: lo stesso non potrebbe dirsi, indipendentemente da considerazioni etico-politiche, per il diniego espresso dal CdA al consigliere-direttore generale che abbia proposto di aderire ad una associazione antiracket e di adottare un codice etico nei rapporti coi fornitori, tenuto conto che l’impresa opera in una zona ad alta densità mafiosa. Qui il licenziamento sarebbe privo di giustificatezza ove il direttore generale, una volta rinunciato all’incarico da consigliere, continuasse ad attuare in modo scrupoloso le direttive dell’organo sociale. L’ostacolo maggiore, ai fini della compenetrazione tra licenziamento e rinuncia, risiede nella circostanza che quest’ultima non è vincolata per legge ad alcuna giustificazione causale: l’amministratore dovrebbe motivare le ragioni sottostanti alla propria scelta per iscritto, o esservi uno specifico patto che subordini la rinuncia stessa a una giusta causa, non potendosi applicare per via analogica la disciplina dell’incarico [106]. Tutt’al più, la giustificatezza del licenziamento potrebbe essere provata [continua ..]
A livello metodologico, l’espressione convenzionale «dialettica estintiva» è stata il leit-motiv nell’analisi delle interazioni tra revoca dell’incarico e licenziamento del dirigente-amministratore nelle società di capitali: due figure social-tipiche, positivizzate nella legislazione lavoristica e commercialistica, che si vengono a trovare in una ‘terra di mezzo’, da un lato formalizzando la volontà sociale verso l’esterno, dall’altro dando l’imprimatur endosocietario alle direttive del consiglio di amministrazione. Le caratteristiche comuni tra revoca e licenziamento sul versante estintivo, soprattutto l’obbligo attenuato di giustificazione causale e la tutela meramente risarcitoria, sono la traduzione nel diritto positivo di una versione ‘mercatista’ dell’art. 41 della carta fondamentale: opzione di politica del diritto conforme a Costituzione ma non l’unica, in virtù della quale i possessori della ricchezza (gli azionisti nei confronti degli amministratori) e i detentori del potere di gestione (il consiglio di amministrazione rispetto al dirigente) possono sempre decidere di interrompere i rapporti giuridici da cui dipendono le sorti della compagine sociale. Di fronte al principio di libera iniziativa economica privata, vi sono tuttavia due distinte azioni giurisdizionali a tutela della dignità della persona che lavora ex art. 35, comma 1, Cost. [109], in ragione ora del rapporto di immedesimazione organica ora del contratto di lavoro subordinato: quella per la declaratoria di ingiustificatezza della revoca dell’incarico innanzi al Tribunale delle imprese, e quella per l’ingiustificatezza del licenziamento del dirigente di fronte al giudice del lavoro (salvo il ricorso al collegio di conciliazione ed arbitrato). Due binari paralleli che possono, tuttavia, intersecarsi: mettendo al bando soluzioni automatiche, le causali poste a base di una vicenda estintiva possono influenzare l’altra, tenuto conto che entrambe hanno una declinazione ‘minimalista’ nella giurisprudenza. Con un unico limite: che a monte, in capo alla stessa persona, vi sia un’alterità di interessi, che si traduce in due rapporti giuridici effettivamente distinti e, quindi, nell’impossibilità del cumulo tra funzioni di amministratore unico e lavoro dirigenziale.